La Vita
Capitolo 20

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La Vita - 19 Bibliografia

La vita, lunga ed eroica, di Andrea Doria termina con ore e giorni di spasimante attesa.

Grande pensiero del Principe, la lotta contro i turchi costituiva anche il pensiero e, più che il pensiero, la necessità del Regno di Spagna. I pericoli che correvano le coste erano una realtà indiscutibile, ma più grande e più terrìbile era il fatto che i turchi venivano a disputare alla Spagna l’egemonia mediterranea, ciò che poteva avere conseguenze gravissime: e prima di tutte il mutamento d’umore delle popolazioni moresche del regno. Le Cortes spagnole si rendevano conto di ciò, ed erano infatti sempre pronte a sollecitare dal Sovrano azioni contro la Turchia, garantendone il finanziamento.

Il Principe, in ogni suo messaggio, insisteva presso il Re, perché non fosse ritardata una azione decisiva che si imponeva prima di tutte le altre, per togliere ai Turchi una importante base, recentemente usurpata: Tripoli. Il Re Cattolico, convinto della bontà e della necessità di quanto il Doria proponeva, autorizzò l’azione: ma, già essendo l’estate avanzata, si ritenne conveniente rimandarla a miglior stagione. Intanto, però, le galee che già stavano a Napoli sotto il comando di Giovanni Andrea - prossimo al ventesimo anno e alla sua prima grande azione di guerra - ricevettero tutti i rinforzi in navi e in fanterie ch’erano necessari. Salpò egli in pieno inverno per Siracusa, ma fu trattenuto tra quel porto e Malta, a causa dell’indecisione del Vicerè. Con la sua squadra erano quelle di Napoli, di Sicilia, del Papa e di Malta, tutte sotto i suoi ordini, mentre le fanterie erano alle dipendenze di don Alvaro de Saude, capitano valoroso e apprezzatissimo; comandante supremo era il Vicerè, duca di Medinaceli.

Purtroppo l’obbiettivo della spedizione, ossia Tripoli, fu momentaneamente messo in disparte, in seguito alle vive insistenze del Gran Maestro dell’Ordine di Malta, Giovanni della Valletta, che indicava un obiettivo più facile, e che in seguito avrebbe potuto esser molto utile per la conquista di Tripoli: l’isola di Djerba, già conquistata nel 1520 da Ugo di Moncada ma poi perduta, che sempre fu covo di pirati, e che ora - scarsamente difesa - poteva occuparsi senza difficoltà.

Dopo molti dubbi, il Vicerè si decise in questo senso, e il 10 febbraio 1560 la flotta si avventurò nel mar di Barbaria, e - come era previsto dal Gran Maestro - occupò l’isola, che venne subito attrezzata a difesa, con la costruzione di un forte abbastanza resistente Per compiere tali lavori furono trattenute anche le galee, onde usufruire dell’opera materiale dei marinai, e ciò fu un altro grave errore, non imputabile però al giovane Doria che, per le notizie che gli erano pervenute dall’Oriente, aveva insistito per portare subito la flotta in luogo più sicuro, dove non corresse il rischio di restare «imbottigliata».

Il primo errore, grandissimo, era stato quello di occupare Djerba, invece di attaccare subito Tripoli che, sia pure dopo forte resistenza, sarebbe stata conquistata prima dell’arrivo di aiuti. Ora si aggiungeva quest’altro, testardamente voluto dal Vicerè, che non tenne in conto alcuno le insistenze di Giovanni Andrea. La costruzione delle difese non era infatti ancora terminata, che una fregata giunse da Malta per avvertire che la flotta turca era a pochissima distanza, e sì avviava a quella volta. La notizia fu dal - Doria - subito, trasmessa. al Vicerè ch’era a terra, con l’invito di salire a bordo senza perdere tempo, e disporre la partenza delle navi prima che giungesse l’armata turca: il giovane principe già vedeva la possibilità di prendere i Turchi, che avrebbero posto l’assedio, tra due fuochi, giungendo ad attaccarli dal mare con la scelta della posizione e del tempo. Purtroppo la indecisione del Duca fece sì che l’armata nemica, giunta col vento favorevole, accerchiasse nel golfo la flotta che, per quanto desse le vele al vento, ebbe perdite gravissime: diciassette galee, tutte le navi da trasporto, e più di quattromila fanti, un terzo circa dell’intera forza.

La galea ammiraglia, sulla quale all’ultimo momento era salito anche il Duca, fu dal vento spinta contro terra, e il Duca e il Doria si salvarono nel forte, dal quale partirono nella notte, imbarcandosi per la Sicilia, con la speranza di riunire le navi sperdute, e ricostituire la flotta.

Le truppe restate nell’isola sostennero un duro ed eroico assedio dal 31 marzo al 27 luglio, quando furono costrette a capitolare.

La notizia della sconfitta - che costituiva un colpo gravissimo per il prestigio spagnolo nel Mediterraneo - recò un terribile colpo al cuore del Principe: ma per la prima volta, forse, in sua vita, il fatto militare e politico con tutte le sue conseguenze, passò in seconda linea, nel suo cuore, dinanzi alla preoccupazione per la sorte del suo sangue, del suo unico erede e continuatore. Il tragico dubbio - morte o prigionia - gli attanagliava il cervello, ma in fondo al cuore brillava la speranza che egli avesse potuto salvarsi in quel forte del quale parlavano le sue ultime relazioni. Tre giorni durò questo straziante alternarsi di speranza e di disperazione: e finalmente alla fine del terzo giorno una nave giunse a vele spiegate, recando un corriere con le lettere attese, che riportò la pace nel suo vecchio cuore. Soltanto dopo la lettura, che conteneva il resoconto di tutta l’azione svolta, l’Ammiraglio, forse, avrà cominciato a pensare che il colpo era stato fierissimo, e che il Turco aveva fatto un pericoloso passo in avanti.

Passò così tutta l’estate nell’attesa di Giovanni Andrea, mentre le forze venivano sempre più diminuendo al vecchio Principe: l’età aveva alfine il sopravvento sopra quella tempra eccezionale.

Venne l’autunno, passarono l’ottobre e il novembre, e giunse la notizia che entro pochi giorni le galee sarebbero state di ritorno, col loro giovane comandante. La speranza diede un po’ di forza al vegliardo, permettendogli per alcuni giorni di togliersi dal letto, ma il venerdì 22 novembre non poté alzarsi, e sentendosi venir meno, il sabato fu comunicato e gli fu impartita l’Estrema Unzione. La domenica, passata la mezzanotte, avvertendo prossima la fine. secondo racconta il suo primo biografo, chiamò il suo fido servitore Antonio Piscina, e confidò a lui quanto avrebbe voluto dire al nipote, perché poi gli fosse testualmente riferito: un testamento morale di nobiltà ed altezza eccezionali, richiamante il giovane all’osservanza di tutte quelle leggi della cattolica religione, dell’onore, della fede alla parola data, del dovere, e dell’amore della patria e della sua libertà, che avevano governato e diretto l’intera sua vita.

Indi chiuse gli occhi, e attese serenamente la morte, che lo raggiunse all’ora di mezzogiorno: era il 25 novembre 1560, lunedì.