Andrea Doria/La Vita/15
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Capitolo 15
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La congiura di Gian Luigi Fieschi rivelò alcune debolezze dell’impalcatura statale della Repubblica, e indusse gli spiriti migliori a cercare il modo di eliminarle.
Fra i molti rimedi proposti da tutti i responsabili, due specialmente suscitarono discussioni e cortesi contese, fra i gruppi che li sostenevano.
Il primo, sostenuto decisamente dal Principe, doveva portare a una riforma degli organi repubblicani, nel senso di ridurre il numero dei componenti degli organi stessi: e ciò allo scopo di assicurare - pur mantenendo fermi tutti i principii - una maggior saldezza al governo della pubblica cosa, una minor dispersione di energie, concentrando in minor numero di mani le sorti della Repubblica. Riduzione a quattro degli otto governatori a fianco del Doge, riduzione del Gran Consiglio da quattrocento a cento, e, naturalmente, nuove disposizioni pratiche, per la loro elezione. Questo cambiamento di cose, che non era soltanto formale, ma che, per la conseguente eliminazione di tanta gente dal governo (praticamente della meno forte e della meno ricca) era anche sostanziale, avrebbe dovuto - se necessario - essere imposto con la forza: epperciò forte aumento degli armati, ciò che voleva anche dire forte aumento delle spese.
Il secondo rimedio - sostenuto da don Ferrante Gonzaga, dall’ambasciatore Figueroa, dagli Spinola e dai loro amici - non escludeva l’applicazione di quanto proposto dal Principe: ma si rendeva conto delle difficoltà di imporre al popolo con la forza una tale limitazione delle sue conquistate facoltà. Da questa preoccupazione, e anche dalla giustificata preoccupazione dei mutamenti di uomini e di cose che la deprecata ma possibile morte del Principe avrebbe potuto far nascere a Genova, nacque un progetto che, in definitiva, intendeva fare della Repubblica uno Stato incorporato nell’Impero, non appena la grande figura del Doria venisse a mancare. Espressione pratica di questa definitiva soggezione era intanto - nei progetti dei suoi sostenitori - la costruzione di una grande fortezza nuova, presidiata da truppe spagnole fedelissime, e la messa in efficienza del Castelletto, già in parte distrutto, ma facilmente riadattabile.
Il Principe - devotissimo all’Imperatore, ma pur sempre fedele alla libertà della sua Patria - comprese il segreto disegno che si celava dietro al progetto della fortezza, e decisamente si oppose alla sua costruzione. Inutili furono tutti i tentativi per indurlo a differente consiglio: egli restò fermo, e su quel punto non cedette mai. Un, ricco carteggio tra gli interessati alle varie soluzioni e l’Imperatore, sta a dimostrare quanto il problema appassionasse il Doria da una parte e i suoi cortesi oppositori dall’altra. E la resistenza del Principe fu tanta che Carlo V, per non dispiacergli, ordinò ai fautori di quel progetto di rimandarlo ad epoca migliore: ossia alla morte del Doria.
Le modificazioni agli ordinamenti furono applicate senza suscitare le temute manifestazioni, ma da quel periodo travagliato sorse una nuova rivalità, per quanto ancora in forma potenziale, tra il Doria - che aveva al fianco sempre, fido consigliere, Adam Centurione - e gli Spinola, particolarmente Agostino, additato dal Gonzaga quale il fedelissimo, su cui l’Imperatore poteva oggi, e soprattutto domani, sicuramente contare. Il Centurione invece è giudicato dal Gonzaga - e tale lo dipinge a Filippo in una sua lettera - quale l’eminenza grigia e l’anima nera, ormai strapotente, del Principe. Per colpa sua, soprattutto, il Principe si oppone al progetto della fortezza, che pur nel suo intimo certo riconosce giusto: e anche per l’ambizione «dell’esser tenuto padre de la patria, et la persuasione et forza di coloro che lo governano (leggi Centurione, n.d.a.); i quali pensando dapoi la morte di lui, di fare i fatti loro sotto l’ombra di S. M. e di V. A., si ingegnano divertirlo dal diritto camino».
Né è a dire che altre rivalità non vi fossero, a turbare la vita della Repubblica: i Fieschi e i loro amici continuavano a complottare, e con altri fuorusciti erano sempre pronti a manovrare nell’ombra uomini e cose, per i loro progetti di vendetta e di supremazia.
Un triste episodio di questa lotta clandestina ebbe per protagonista il marchese Giulio Cybo, già parente del Doria per via della moglie di questi, Peretta Cybo, e maggiormente legato poi per aver ottenuto dal Principe in sposa la nipote Peretta Doria, figlia di Tomaso Doria, e sorella di Giannettino. Il marchese Cybo, messosi in lotta con la madre, per toglierle il possesso di Massa e Carrara, fu costretto da don Ferrante Gonzaga a rinunciare alle sue ingorde mire: pieno d’ira e desideroso di vendetta contro gli imperiali, cadde subito preda degli inviati del Re di Francia che, a Roma, gli fecero avere grandi promesse di aiuti e di riconoscimenti, sia dall’ambasciatore francese sia dal Cardinale di Parigi, purché si fosse dichiarato disposto a compiere l’impresa ch’essi gli avrebbero proposto. Aderì senz’altro, sottoscrivendo ogni impegno, e fu subito messo a contatto con alcuni fuorusciti di Genova, che gli prospettaron la necessità di uccidere il Principe e di mettere in subbuglio la città per poterla far tornare sotto la diretta protezione del Re di Francia. Alla leggerezza del marchese tale impresa parve facile e priva di rischi eccezionali, per cui si dichiarò senz’altro disposto ad agire.
Ma, forse per un’ultima resipiscenza o per la speranza di ottenere il suo scopo senza troppe complicazioni, o forse anche per la consuetudine dell’epoca di applicare le regole del gioco su due scacchieri, prima di disporsi all’opra, volle recarsi dall’ambasciatore don Diego di Mendoza, per proporgli la consegna di alcune piazzeforti del Piemonte - in quel momento in mano francese - in cambio dello Stato di Massa e Carrara, che sua madre deteneva per investitura imperiale. L’ambasciatore, che già conosceva per informazioni avute, chi era l’uomo e con chi era stato ed era in rapporto, gli rispose in modo secco che tali proposte non potevano essere prese in considerazione.
Egli perciò si dispose ad eseguire quanto con gli emissari francesi e con i fuorusciti genovesi convenuto: gli uni e gli altri gli promisero tutti gli aiuti possibili, ossia intervento a sua richiesta di truppe regie da Mondovì, sollevazione della città operata dai collegati dei fuorusciti che già vi si trovavano, tempestivo avviso di costoro, nonché ogni facilitazione per fuggire lontano per sé e per i suoi, e l’assoluta segretezza sul suo nome, in ogni caso.
Ma, evidentemente, l’ambasciatore di Spagna a Roma aveva un buon nucleo di informatori, perché, avendo il marchese Cybo iniziato rapidamente il viaggio, venne fermato a Pontremoli dal Governatore di quella città in persona, che lo fece arrestare dalle sue guardie spagnole. Condotto subito a Milano, il Gonzaga non perse tempo, e, contestatagli l’accusa di voler assassinare il Principe Doria e suscitar convulsioni nella città di Genova per conto della Francia, lo fece processare. Dinanzi alle prove schiaccianti dei documenti trovatigli addosso, finì per confessare tutto, e per esplicito ordine dell’Imperatore venne condannato a morte per squartamento: la sentenza fu eseguita il 19 maggio 1550, sul piazzale del castello di Milano.