La Vita
Capitolo 13

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Il 1547 comincia a Genova con un fatto clamoroso, che pur presentando tutti gli aspetti della solita rivolta dei partigiani di una famiglia contro una situazione a loro non favorevole, deve esser fatto rientrare nel gran quadro delle lotte di predominio fra le due grandi Potenze.

La congiura del conte Gian Luigi Fieschi alimentata da tutte le ragioni personali e locali - rivalità, antipatie, odio - è ormai storicamente provato far capo a segrete inframmettenze della Francia, desiderosa di togliere all’Imperatore quella sicura base che Genova per lui rappresentava, togliendo dalla scena l’Uomo che la volontà e il bene dell’Imperatore perseguiva con tanta saggezza e con tanta autorità: ed esistono anche elementi assai precisi per ritenere il Pontefice se non compartecipe almeno consenziente al tentativo.

I fatti sono notissimi, poiché moltissimi ne hanno scritto - in sede storica e in sede artistica - epperciò li raccontiamo succintamente.

Il Fieschi, che aveva acquistato dal duca di Parma e Piacenza quattro galee, ebbe in quel tempo rapporti col Trivulzio, che gli chiese di passare al servizio del re di Francia a splendide condizioni, proposta cui il conte, che stava per partire alla volta di Roma - onde conferire col Pontefice - promise di dar risposta al suo ritorno. Nel viaggio maturò il suo piano, che avrebbe dovuto eliminare oltre il Principe anche Giannettino verso il quale nutriva - abilmente dissimulato - profondo odio, sapendolo designato alla successione dello zio, del quale era l’unico erede.

Tornato a Genova non perdette tempo, e subito sottoscrisse le proposte fattegli dal Trivulzio, spedendogli un messo per dargliene comunicazione. Il suo primo progetto era di compiere le sue vendette, e di cercar poi riparo in Francia. Ma il suo più fido consigliere, Giovan Battista Verrina, voltrese, lo convinse che ben altra era la strada ch’egli doveva percorrere: e cioè, uccidere il Principe, Giannettino, Adam Centurione e tutti i loro parenti e amici, liberar Genova dalla loro presenza, e di Genova rendersi padrone assoluto, senza dipendenza alcuna da sovrani stranieri. Le parole del Verrina – che in questa fosca vicenda rappresenta più che tutti e sovra tutti l’acerbità e la crudeltà della fazione, non disgiunta dall’originale concetto di una indipendenza, sia pure chimerica, che, in un certo modo nobilita il suo comportamento - fecero impressione al Fieschi, e lo indussero a richiamare il messo mandato al Trivulzio.

Passato poi alla discussione con altri amici, si avvide essere i pareri di coloro che più gli stavano vicini molto disparati; ma per l’insistenza del Verrina tutti gli scrupoli furono superati, e venne deciso che il Fieschi avrebbe dato una gran festa nel suo palazzo di Vialata, alla quale avrebbe invitato, oltre ai Doria e ai loro amici, anche don Gomez Suarez de Figueroa: e tutti avrebbero dovuto essere uccisi per mezzo di veleno, durante il convito. E poiché il Principe non sarebbe certo stato della partita - non accettando egli alcun invito - il Verrina dichiarò che egli stesso si sarebbe incaricato dì sopprimerlo nel suo stesso palazzo.

Durante le feste di Natale, il Conte fece entrare nella città circa trecento soldati non genovesi, con la scusa di armare una sua galea destinata a combattere contro i pirati. Per prendere accordi a tale scopo - abile inganno - egli si tenne in contatto in quei giorni col Principe, e specialmente con Giannettino, dimostrandogli, nella sua atroce menzogna, sempre affetto e simpatia.

Una lieve indisposizione che colpì il Principe proprio nel primo giorno del 1547, facilitò i progetti del Fieschi, spingendolo ad agire. L’indomani, domenica 2 gennaio, lo stato dell’infermo non era migliorato. Certo il Conte temette le complicazioni che da una morte naturale del Doria avrebbero potuto nascere, e decise l’azione per la notte stessa. La sua prodigiosa arte di fingere lo portò, poche ore prima dell’inizio di tale azione, a far visita all’infermo, e a trattenersi con lui, con Giannettino e col figlio di questi. Indi salutatili affettuosamente, uscì per incontrarsi col Verrina, al quale, per giustificare il cambiamento dei suoi piani, ripeté i suoi timori per l’eventualità della morte naturale del Principe.

Ordinò quindi di radunare in casa sua i giovani suoi amici che, in numero di trenta circa, rimasero molto sorpresi, anzi addirittura sbigottiti al sentire i suoi progetti, e si dichiararono, contrari a quanto egli voleva fare. Al che egli, con fare drammatico da gran commediante, disse: «Ebbene, amici, poiché voi mancate alla mia speranza e alla mia fiducia, fate su di me quel, che vorrebbe fare Giannettino: ecco il pugnale, uccidetemi». Questa menzogna egli ampliò, aggiungendo che l’odio che Giannettino per lui nutriva, era dovuto al fatto che solo lui sapeva quanto Giannettino avesse armeggiato presso l’Imperatore per avere la conferma della successione del Principe, che aveva finalmente ottenuto: e che noto era pure al nipote del Doria che in nessun caso egli e la sua parte avrebbero approvato tale decisione.

Gli amici dimostrarono col loro atteggiamento di non credere a, queste parole e quando, poco dopo, giunse l’ora dell’azione, lo seguirono senza entusiasmo e senza convinzione, accodandosi alle truppe ch’egli aveva radunato presso il suo palazzo. Di sorpresa fu occupata la porta dei Vacca, e poi anche quella che trovavasi presso il palazzo del Principe, dove furono uccisi alcuni soldati e fu imprigionato il comandante. Intanto, nella Darsena, gli uomini della galea del Fieschi, sorprese ed uccise le guardie, avevano devastato le galee dei Doria, ch’erano ivi in disarmo.

Gian Luigi si avviò coi suoi a quella parte, per unirsi agli uomini sbarcati dalla galea, che lo accolsero al grido di «Popolo e Libertà»; ma questo grido, ripetuto con tanto clamore, non. piacque agli «sforzati» che, sulla nave, cominciarono a gridare e a protestare. Timoroso di peggio, il conte si rivolse a loro, cercando di portare la calma, e a tale scopo tentò di giungere a bordo; ma passando da una barca alla galea, precipitò nell’acqua e, a causa della pesante armatura, affogò. Si disse che uno dei suoi gli avesse sparato contro, ma non esiste prova alcuna di questo particolare.

Giannettino, svegliatosi nella notte, e preoccupato per l’insolito rumore che giungeva dal porto, si vestì sommariamente, e corse alla porta più vicina, per dar ordini agli armati: ma quando richiese che gli fosse aperto, fu invece fatto bersaglio di tanti colpi, che lo uccisero. La notizia venne subito portata al Principe dall’unico paggio che aveva accompagnato Giannettino. Il dolore acerbo, unito al male che ancora lo teneva, non poté impedire che l’ottantunenne, radunando tutte le sue energie, si mettesse a cavallo con i suoi famigliari e con pochi servi, e raggiungesse Sestri, di dove passò per mare a Voltri, proseguendo per il suo castello di Masone.

La rivolta era però finita: i tentativi di Girolamo Fieschi per realizzare i progetti del fratello, erano rimasti senza risultato. I cittadini non avevano seguito i pochi amici che si erano accodati al nuovo capo, e la Signoria aveva subito rimesso le cose a posto, schierando uomini e artiglierie in difesa della città.

Vista la mala parata, il Fieschi si ritirò con i suoi partigiani nel suo castello di Montoggio, mentre il Verrina, imbarcatosi sulla galea di Gian Luigi, si trasferì a Marsiglia, per poi rifugiarsi anche lui a Montoggio.

Osservando la situazione e le vicende a distanza di tempo, si può affermare che, per molti motivi, la congiura del Fieschi non avrebbe potuto aver risultato favorevole in nessun caso. Intanto Genova che - nella sua nobiltà e nel suo popolo - non aveva ragione di dolersi della situazione, non aveva alcun interesse ad avventurarsi nell’ignoto, con la minaccia dì crearsi un tiranno; e poi, se facili sembrarono gli inizi - a tale facilità contribuì l’umana fiducia dei due Doria che non potevano pensare a così basso inganno - non è a dirsi che il successo iniziale avrebbe accompagnato il Conte fino al raggiungimento dei suoi scopi: la Repubblica era salda nei suoi organi, e aveva forze fedeli.

Ché se anche, in disperata ipotesi, la città fosse caduta nelle mani del Fieschi, ciò avrebbe potuto durare soltanto fino all’arrivo delle truppe di don Ferrante Gonzaga, che avrebbero rimesso tutto allo stato di prima.

L’Imperatore, subito informato, volle felicitarsi col Principe per lo scampato pericolo, e più ancora profondamente rammaricarsi per la morte di Giannettino: mandò a tal proposito un suo messo personale, Don Rodrigo di Mendoza, con credenziali anche per il Gonzaga e disposizioni di procedere alla punizione di tutti i colpevoli e alla confisca di tutti i loro beni a vantaggio dei beni privati della Corona.

Il castello di Montoggio fu richiesto dalla Repubblica per distruggerlo, a garanzia della sicurezza della città: ma essendosi Gerolamo rifiutato di consegnarlo, vi fu costretto con le armi.

Fra i problemi da risolvere, quali il ripristino della flotta ridotta in tristi condizioni, la punizione dei maggiori colpevoli - quasi tutti poi fatti prigionieri a Montoggio - e tanti altri, quello che maggiormente preoccupò il Principe, fu la scelta dell’uomo che avrebbe dovuto sostituire Giannettino sulle navi, quale suo luogotenente. Poiché il figlio di questi, Giovanni Andrea, nato nel 1540, aveva solo sette anni, il suo pensiero si volse a Marco, figlio di Adam Centurione. Avendo il padre aderito, Marco divenne così luogotenente di Andrea Doria, col patto ch’egli avrebbe tenuto il comando finché Giovanni Andrea non fosse stato in età di assumerlo, e poi avrebbe continuato a rimanere, con la stessa veste, alle sue dipendenze.