La Vita
Capitolo 12

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Mentre le azioni guerresche dei due monarchi inglese e spagnolo, continuavano al nord della Francia, gli avvenimenti si svolgevano in Italia in modo poco lieto per la causa spagnola, frustrando il grande proposito strategico di invadere la Francia anche dal Sud.

Sempre allo scopo di giovare ai progetti di Carlo V e di allontanare per quanto possibile i francesi, il Principe scrisse al marchese del Vasto, invitandolo ad agire - se lo ritenesse opportuno - per ricuperare Mondovì, punto importantissimo, in quel momento in mano alle truppe reali. Il marchese accolse il suggerimento e, nonostante il tempo contrario, si avvicinò minacciosamente alla città, tanto che i francesi, intimoriti, vennero a patti, e si allontanarono, mentre entrava in città il nuovo presidio spagnolo. Né si accontentò di tale obiettivo, poiché proseguendo verso Torino si impadronì di Carignano, altro importante nodo fra le tre città detenute dai francesi: Torino, Moncalieri e Pinerolo.

I francesi, dal canto loro, operarono a loro vantaggio in altra zona, occupando Crescentino senza colpo ferire, e tentando invano di impadronirsi di Ivrea, che si difese nobilmente, ricacciandoli. Mossero poi su Carignano tentando di riprenderlo, ma, per la salda resistenza opposta da Pirro Colonna che presiedeva la città, dovettero limitarsi a porre l’assedio.

Il del Vasto, naturalmente, divisò subito di accorrere in aiuto degli assediati, sfidando, se fosse stato necessario, l’esercito francese a battaglia. Andrea Doria, che intuì questo suo generoso divisamento, si affrettò a scrivergli per dissuaderlo, facendogli presente quanto sarebbe stata dannosa alla situazione generale una sconfitta, che non era da escludersi dato il maggior numero delle truppe francesi, e la loro miglior attrezzatura; miglior cosa egli riteneva cercar di portare aiuto a Carignano senza dover affrontare la battaglia, rimandando lo scontro a tempo più opportuno, nel quale le condizioni fossero migliori.

Ma questa sensatissima lettera non giunse al destinatario, poiché prima ancora che fosse inviata, il Principe riceveva dal marchese stesso un lungo messaggio, nel quale erano chiariti i motivi per i quali egli era ormai venuto nella determinazione di attaccare il nemico: dovere morale verso gli assediati; eccellenza delle sue truppe, superiori in qualità alle truppe avverse, se pur inferiori di numero; e infine ragioni che diremo interne, che l’obbligavano a cercare il combattimento subito, nel dubbio di non poterlo effettuare domani a causa del malcontento delle truppe, da tempo prive di soldo.

Lo scontro avvenne la seconda festa di Pasqua del 1544, nella zona pianeggiante di Ceresole, e si svolse in principio a favore degli imperiali col successo delle fanterie spagnole, veramente superbe, per slancio e abilità: ma quando già il duca d’Enghien pensava a una conclusione sfavorevole per le sue armi, avvenne uno di quei capovolgimenti della situazione, che non sono rari nella storia delle guerre. Il marchese del Vasto, per completare la vittoria che già gli si prospettava, gettò nella battaglia la riserva sicura e formidabile delle truppe tedesche, contro le quali l’Enghien scagliò, in un estremo tentativo, la cavalleria francese. Lo sbandamento dei tedeschi fu immediato: il Capelloni, che certamente poté avere precise informazioni da chi aveva partecipato alla battaglia, afferma, che neppure riuscirono a tirare cento colpi di picca: seimila ne restarono sul campo «fracassati e morti come pecore, e non come soldati che in tutte le battaglie solevano dimostrarsi arditi e valorosi».

Facendo fronte a sì crudele destino, il marchese - per quanto ferito e malconcio - si ritirò ad Asti, dove raccolse i dispersi, e si accinse a ricostruire l’esercito.

La triste nuova, se pur addolorò il Principe, non gli tolse la facoltà tipica del condottiero, quella cioè di agire subito nella direzione più atta a rimediare a quanto era successo. Pensò egli infatti che il nemico, approfittando della favorevole situazione, avrebbe, come si dice, tentato di sfruttare il successo, portando la sua azione e la sua minaccia contro il punto più importante: Milano. A questa minaccia bisognava opporre una salda barriera, completando il mai ridotto esercito imperiale con nuove truppe fresche e ben armate.

A tal uopo egli inviò velocissimi messaggia quanti agivano all’ombra e nell’interesse dell’Imperatore, e specialmente al duca Cosimo a Firenze, al Vicerè a Napoli, e all’ambasciatore Giovanni di Vega presso il Pontefice, per ottenere uomini e mezzi. La sua pressante richiesta fu al più presto soddisfatta, e molte fanterie furono radunate da quei signori ed avviate a Lerici, di dove il Principe provvide a farle traghettare fino a Genova, e ad avviarle quindi a Milano. Esse giunsero in tempo per opporsi ai tentativi di Piero Strozzi che, nell’interesse del Re, cercava di occupare la città, e che fu poi definitivamente sconfitto sullo Scrivia, tra Novi e Serravalle, mentre cercava scampo verso il mare.

Mentre questo avveniva in Italia, nel nord l’Imperatore otteneva brillanti successi sul territorio francese, assediando e prendendo S. Dizier, e giungendo, attraverso un paese devastato, a due giornate di marcia da Parigi; Francesco I, in tale frangente, temette di perdere il regno, tanto che, stando i due eserciti di fronte, il Re, per non correre il rischio di una sconfitta decisiva, fuggì di notte, strappando anche i campanelli dalle bardature dei muli, per paura d’essere sentito dal nemico. Affrettatosi a chiedere la pace, trovò favorevole accoglimento presso l’Imperatore - che a sua volta temeva l’inverno in paese nemico e privo d’ogni risorsa - tanto che, con inusitata rapidità, essa fu firmata a Crespy, il 18 settembre 1544. Veniva stabilito che ognuno dei due contendenti avrebbe restituito quanto acquisito dopo la tregua di Nizza, in particolare ai duchi di Savoia, di Lorena e di Mantova; Carlo V rinunciava alla Borgogna, e Francesco I a Napoli e a Sicilia, impegnandosi altresì a non aiutare l’ex-re di Navarra a riprendere il trono. Nacque anche fra i due un nuovo accordo per riprendere la guerra contro il Sultano dei Turchi.

A questo trattato - che, non aveva avuto buona accoglienza nemmeno presso il Pontefice - non aderì il Re d’Inghilterra, che continuò per conto suo la lotta contro il Re di Francia.

Il Barbarossa, dopo l’insuccesso di Nizza, sostò con la sua armata a Tolone, ma infine, ritenendo ormai inutile l’opera sua, riparti diretto all’Oriente, e costeggiò la costa francese e poi la ligure, senza recar danno e disturbo alle popolazioni. Il Principe, che poco si fidava di lui, pensò bene di tenerlo sotto sorveglianza, e lo fece seguire lungo tutte le coste da un’armata di trenta galee, comandata da Giannettino, fin quasi in Sicilia: e che questo provvedimento, che oggi si chiamerebbe di polizia, fosse giustificato, lo prova il fatto che, appena allontanatosi per far ritorno Giannettino, il vecchio corsaro attaccò l’isola di Lipari, facendo prigionieri tutti gli abitanti grandi e piccoli, e portandoli al suo Sultano, a Costantinopoli. Quivi, egli moriva, pochi mesi dopo.