Alla conquista di un impero/3. Nell'antro delle tigri di Mompracem
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3. Nell'antro delle tigri di Mompracem
— Regnava allora sull'Assam, — cominciò Yanez, — il fratello dell'attuale rajah, un principe perverso, dedito a tutti i vizi, che era odiato da tutta la popolazione e soprattutto dai suoi parenti, i quali non si sentivano mai sicuri di riveder l'alba del domani. Quel principe aveva uno zio che era capo di una tribù di kotteri, ossia di guerrieri, uomo valorosissimo che più volte aveva difese le frontiere assamesi contro scorrerie dei birmani e che perciò godeva una grande popolarità in tutto il paese.
Sapendosi mal visto dal nipote, il quale si era fisso in capo, senza motivi però, che congiurasse contro di lui per carpirgli il trono e derubarlo delle sue immense ricchezze, si era ritirato fra le sue montagne, in mezzo ai fedeli suoi guerrieri.
Quel valoroso si chiamava Mahur; ne avete mai udito a parlare, Eccellenza?
— Sì, — rispose asciuttamente Kaksa Pharaum.
— Un brutto giorno la carestia piombava sull'Assam. Quell'anno nemmeno una goccia d'acqua era caduta ed il sole aveva arsi i raccolti.
I bramini ed i gurus1 indussero allora il rajah a dare in Goalpara una grandiosa cerimonia religiosa, onde placare la collera delle divinità.
Il principe vi annuì di buon grado e volle che vi assistessero tutti i parenti che vivevano disseminati nel suo stato, non escluso suo zio, il capo dei kotteri, il quale, di nulla sospettando, aveva condotto con sé oltre la moglie, i suoi figli, due maschi ed una bambina che chiamavasi Surama.
Tutti i parenti furono ricevuti cogli onori spettanti ai loro gradi e con grande cordialità da parte del principe regnante ed alloggiati nel palazzo.
Compiuta la cerimonia religiosa, il rajah offrì a tutti i suoi parenti un banchetto grandioso, durante il quale il tiranno, come già gli accadeva sempre, bevette una grande quantità di liquori.
Quel miserabile cercava di eccitarsi, prima di compiere una orrenda strage, già forse meditata da lungo tempo.
Era quasi il tramonto ed il banchetto, allestito nel gran cortile interno del palazzo che era tutto cintato da alte muraglie, stava per finire, quando il rajah, non so con quale scusa si ritirò coi suoi ministri.
Ad un tratto, quando l'allegria degli ospiti aveva raggiunto il massimo grado, un colpo di carabina echeggiò improvvisamente, ed uno dei parenti cadde col cranio fracassato da una palla di carabina.
Lo stupore, causato da quell'assassinio in piena orgia non era ancora cessato, quando un secondo colpo rintronava ed un altro convitato stramazzava, bruttando col suo sangue la tovaglia.
Era il rajah che aveva fatto quel doppio colpo. Il miserabile era comparso su un terrazzino prospiciente sul cortile e faceva fuoco sui suoi parenti. Aveva gli occhi schizzanti dalle orbite, i lineamenti sconvolti: pareva un vero pazzo.
Intorno aveva i suoi ministri che gli porgevano ora tazze colme di liquori ed ora delle carabine cariche.
Uomini, donne e fanciulli si erano messi a correre all'impazzata pel cortile, cercando invano un'uscita, mentre il rajah, urlando come una belva feroce, continuava a sparare facendo nuove vittime. Mahur, che era il più odiato di tutti, fu uno dei primi a cadere. Una palla gli aveva fracassata la spina dorsale.
Poi caddero successivamente sua moglie ed i suoi due figli.
La strage durò una mezz'ora. Trentasette erano i parenti del principe e trentacinque erano caduti sotto i colpi del feroce monarca.
Due soli erano miracolosamente sfuggiti alla morte: Sindhia il giovane fratello del rajah e la figlia del capo dei kotteri, la piccola Surama, che si era nascosta dietro il cadavere di sua madre.
Sindhia era stato segno a tre colpi di carabina e tutti erano andati a vuoto, perché il giovane principe, con dei salti da tigre, ben misurati, si era sempre sottratto alle palle.
In preda ad un terribile spavento, non cessava di gridare al fratello:
«Fammi grazia della vita ed io abbandonerò il tuo regno.
Sono figlio di tuo padre. Tu non hai il diritto di uccidermi».
Il rajah, completamente ubriaco, rimaneva sordo a quelle grida disperate e sparò ancora due colpi, senza riuscire a coglierlo, tanto era lesto suo fratello; poi, preso forse da un improvviso pentimento, abbassò la carabina che un ufficiale gli aveva data, gridando al fuggiasco:
«Se è vero che tu abbandonerai per sempre il mio stato ti fo grazia della vita, ad una condizione».
«Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai», rispose il disgraziato.
«Io getterò in aria una rupia; se tu la coglierai con una palla della carabina, ti lascerò partire pel Bengala senza farti alcun male.»
«Accetto», rispose allora il giovane principe.
Il rajah gli gettò l'arma che Sindhia prese al volo.
«Ti avverto», urlò il pazzo, «che se manchi la moneta subirai la medesima sorte degli altri.»
«Gettala!»
Il rajah fece volare in aria il pezzo d'argento. Si udì subito uno sparo e non fu la moneta bucata, bensì il petto del tiranno.
Sindhia, invece di far fuoco sulla moneta, aveva voltata rapidamente l'arma contro suo fratello e l'aveva fulminato, spaccandogli il cuore.
I ministri e gli ufficiali si prosternarono dinanzi al giovane principe, che aveva liberato il regno da quel mostro e senz'altro lo accettarono come rajah dell'Assam.
— Voi, mylord, mi avete narrata una storia che qualunque assamese conosce a fondo, — disse il ministro.
— Non il seguito però, — rispose Yanez, versandosi un altro bicchiere ed accendendo una seconda sigaretta. — Sapreste dirmi che cosa è avvenuto della piccola Surama, figlia del capo dei kotteri? —
Kaksa Pharaum alzò le spalle, dicendo poi:
— Chi può essersi occupato d'una bambina?
— Eppure quella bambina era nata ben vicina al trono dell'Assam.
— Continuate, mylord.
— Quando Sindhia seppe che Surama era sfuggita alla morte, invece di accoglierla alla corte o almeno di farla ricondurre fra le tribù devote a suo padre, la fece segretamente vendere a dei thugs che percorrevano allora il paese per procurarsi delle bajadere.
— Ah! — fece il ministro.
— Credete Eccellenza che abbia agito bene il rajah vostro signore? — chiese Yanez, diventato improvvisamente serio.
— Non so. È morta poi?
— No, Eccellenza, Surama è diventata una bellissima fanciulla ora e non ha che un solo desiderio: quello di strappare a suo cugino la corona dell'Assam. —
Kaksa Pharaum aveva fatto un soprassalto.
— Dite, mylord? — chiese spaventato.
— Che riuscirà nel suo intento, — rispose freddamente Yanez.
— E chi l'aiuterà? —
Il portoghese s'alzò e puntando l'indice verso la Tigre della Malesia che non aveva cessato di fumare, gli rispose:
— Quell'uomo là innanzi a tutto, che ha rovesciato troni e che ha vinto la terribile Tigre dell'India, Suyodhana, il famoso capo dei thugs indiani, e poi io.
L'orgogliosa e la grande Inghilterra, dominatrice di mezzo mondo, ha piegato talvolta il capo dinanzi a noi, tigri di Mompracem. —
Il ministro si era a sua volta alzato, guardando con profonda ansietà ora Yanez ed ora Sandokan.
— Chi siete voi, dunque? — chiese finalmente, balbettando.
— Degli uomini che nemmeno i vostri più formidabili uragani potrebbero arrestare, — rispose Yanez, con voce grave.
— E che cosa volete voi da me? Perché mi avete trasportato in questo luogo che io non ho mai veduto? —
Yanez, invece di rispondere, riempì nuovamente le tazze e ne porse una al ministro, dicendogli colla sua voce insinuante:
— Bevete prima, Eccellenza. Questo squisito liquore vi rischiarirà le idee meglio del vostro detestabile toddy. Bevetene pure liberamente: non vi farà male. —
Il ministro, che si sentiva invadere da un invincibile tremito nervoso, credette opportuno di non rifiutarsi.
Yanez si raccolse un momento, poi, fissando il disgraziato ministro che aveva le labbra smorte, gli chiese:
— Chi è l'europeo che si trova alla corte del rajah?
— Un uomo bianco che io detesto.
— Benissimo: il suo nome?
— Si fa chiamare Teotokris.
— Teotokris! — mormorò Yanez. — Questo è un nome greco.
— Un greco! — esclamò Sandokan, scuotendosi. — Che cos'è? Io non ho mai udito a parlare di greci.
— Tu non sei un europeo, — disse Yanez. — Sono uomini che godono fama di essere i più furbi dell'intera Europa.
— Avversari temibili?
— Temibilissimi.
— Buoni per te, — rispose la Tigre della Malesia, sorridendo.
Il portoghese gettò via con stizza la sigaretta, poi rivolgendosi al ministro:
— Gode molta considerazione a corte, quello straniero? — gli chiese.
— Più che noi ministri.
— Ah! Benissimo. —
Si era nuovamente alzato. Fece tre o quattro giri intorno alla tavola, torcendosi i baffi e lisciandosi la folta barba, poi, fermandosi dinanzi al ministro che lo guardava attonito, gli chiese a bruciapelo:
— Dov'è che i gurus nascondono la pietra di Salagraman che contiene il famoso capello di Visnù? —
Kaksa Pharaum guardò il portoghese con profondo terrore e rimase muto, come se la lingua gli si fosse improvvisamente paralizzata.
— Mi avete capito, Eccellenza? — chiese Yanez un po' minaccioso.
— La pietra... di Salagraman! — balbettò il ministro.
— Sì.
— Ma... io non so dove si trova. Solo i sacerdoti ed il rajah ve lo potrebbero dire, — rispose Kaksa, riprendendo animo. — Io non so nulla, mylord.
— Voi mentite, — gridò Yanez, alzando la voce. — Anche i ministri del rajah lo sanno: me lo hanno confermato parecchie persone.
— Gli altri forse, non io.
— Come! Il primo ministro di Sindhia ne saprebbe meno dei suoi inferiori? Eccellenza, voi giuocate una pessima carta, ve ne avverto.
— E perché vorreste sapere, mylord, dove si trova nascosta?
— Perché quella pietra mi occorre, — rispose Yanez audacemente. —
Kaksa Pharaum mandò una specie di ruggito.
— Voi rubate quella pietra! — gridò. — Non sapete che il capello che contiene, appartenne, migliaia di anni or sono, ad un dio protettore dell'India? Non sapete che tutti gli stati c'invidiano quella reliquia? Non sapete che, se ci venisse portata via, sarebbe la fine dell'Assam?
— Chi lo ha detto? — chiese Yanez ironicamente.
— Lo hanno affermato i gurus. —
Il portoghese alzò le spalle, mentre la Tigre della Malesia faceva udite un risolino beffardo.
— Vi ho detto, Eccellenza, che a me occorre quella conchiglia: aggiungerò poi, per placare i vostri timori, che non lascerà l'Assam.
Io non la terrò nelle mie mani più di ventiquattro ore, ve lo giuro.
— Allora andate a chiedere al rajah un tale favore. Io non posso accordarlo, perché ignoro ove i sacerdoti della pagoda di Karia la nascondano.
— Ah! Non vuoi dirmelo, — disse Yanez cambiando tono. — La vedremo! —
In quel momento si udì ad echeggiare il gong, sospeso esternamente alla porta.
— Chi viene a disturbarci? — chiese Yanez, aggrottando la fronte.
— Io, padrone: Sambigliong, — rispose una voce.
— Che cosa c'è di nuovo?
— Tremal-Naik è giunto. —
Sandokan aveva lasciata la pipa, e si era alzato precipitosamente.
La porta si aprì ed un uomo comparve, dicendo:
— Buona sera, miei cari amici: eccomi pronto ad aiutarvi. —
Le destre di Sandokan e di Yanez si erano tese verso il nuovo venuto, il quale le aveva strette fortemente, esclamando:
— Ecco un bel giorno: mi pare di tornare giovane insieme a voi. —
L'uomo che così aveva parlato era un bellissimo tipo d'indiano bengalino, di circa quarant'anni, dalla taglia elegante e flessuosa, senz'essere magra, dai lineamenti fini ed energici, la pelle lievemente abbronzata e lucidissima e gli occhi nerissimi e pieni di fuoco.
Vestiva come i ricchi indiani modernizzati dalla Young-India, i quali ormai hanno lasciato il dootèe e la dubgah pel costume anglo-indù, più semplice, ma anche più comodo: giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia ricamata e altissima, calzoni stretti pure bianchi e turbantino rigato sul capo.
— E tua figlia Darma? — avevano chiesto ad una voce Yanez e Sandokan.
— È in viaggio per l'Europa, amici — rispose l'indiano. — Moreland desidera far visitare a sua moglie l'Inghilterra.
— Sai già perché ti abbiamo chiamato? — chiese Yanez.
— So tutto: voi volete mantenere la promessa fatta quel terribile giorno in cui il Re del Mare affondava sotto i colpi di cannone del figlio di Suyodhana.
— Di tuo genero, — aggiunse Sandokan, ridendo.
— È vero... Ah! —
Si era vivamente voltato guardando il ministro del rajah, il quale stava immobile presso la tavola, come una mummia.
— Chi è costui? — chiese l'indiano.
— Il primo ministro di S. A. Sindhia, principe regnante dell'Assam, — rispose Yanez. — Toh! Tu giungi proprio in buon punto. Sapresti tu, Tremal-Naik, far parlare quell'uomo che si ostina a non dirmi la verità?
Voi indiani siete dei grandi maestri.
— Non vuol parlare? — disse Tremal-Naik, squadrando il disgraziato che pareva tremasse. — Hanno fatto cantare anche me gli inglesi, quando ero coi thugs.
Kammamuri però è più destro di me in tali faccende. Ti preme, Yanez?
— Sì.
— Hai ricorso alle minacce?
— Ma senza buon esito.
— Ha cenato quel signore?
— Sì.
— È quasi mattina, può quindi fare uno spuntino, o una semplice tiffine2 senza birra però.
È vero che l'accetterete in nostra compagnia?
— Chiamalo Eccellenza, — disse Yanez maliziosamente.
— Ah! Scusate, Eccellenza, — disse Tremal-Naik con accento un po' ironico. — Mi ero scordato che voi siete il primo ministro del rajah. Accettate dunque una fiffine?
— Io di solito non mangio la prima colazione che alle dieci del mattino, — rispose il ministro a denti stretti.
— Voi, Eccellenza, adotterete le abitudini dei miei amici. Sono partito ieri mattina da Calcutta, ho mangiato malissimo lungo la via ferroviaria, peggio ancora nel vostro paese, quindi ho una fame da tigre.
Amici, lasciate che vada ad ordinare a Kammamuri una succolenta colazione. Suppongo che i viveri non mancheranno in questa vecchia pagoda.
— Qui regna l'abbondanza, — rispose Yanez.
— Vieni con me, allora. Kammamuri è un cuoco abilissimo. —
Si presero a braccetto e uscirono insieme, lasciando soli il disgraziato ministro del rajah e Sandokan.
Questi aveva riacceso il suo cibuc e, dopo essersi sdraiato, si era rimesso a fumare silenziosamente, spiando attentamente il prigioniero.
Kaksa Pharaum si era lasciato cadere su una sedia, prendendosi il capo fra le mani. Pareva completamente annichilito da quel succedersi di avvenimenti imprevisti.
I due personaggi stettero parecchi minuti silenziosi, l'uno continuando a fumare e l'altro a meditare sui tristi casi della vita, poi il pirata, staccando dalle labbra la pipa, disse:
— Vuoi un consiglio, Eccellenza? —
Kaksa Pharaum aveva alzata vivamente la testa, fissando i suoi piccoli occhi sul formidabile pirata.
— Che cosa vuoi, sahib? — chiese, battendo i denti.
— Devi dire, se vuoi evitare maggiori guai, quello che desidera sapere il mio amico.
Bada, Eccellenza! È un uomo terribile, che non indietreggerà dinanzi a nessun mezzo feroce.
Io sono la Tigre della Malesia: egli è la Tigre bianca.
Quale sarà il più implacabile? Ah! Io non te lo saprei dire.
— Ma ho già detto che io ignoro dove si trova la pietra di Salagraman.
— Il sigaro che il mio amico ti ha fatto fumare ti ha annebbiato un po' troppo il cervello, — rispose Sandokan. — È necessaria una buona colazione. Vedrai, Eccellenza, come la memoria diventerà limpida. —
Tornò a rovesciarsi sul divano e si rimise a fumare con tutta calma.
Un silenzio profondo regnava nel salotto. Si sarebbe detto che all'infuori di quei due personaggi nessuno abitava la vecchia pagoda sotterranea.
Kaksa Pharaum, più che mai spaventato, era tornato ad accasciarsi sulla sua sedia, col capo fra le mani. La Tigre della Malesia non fiatava, anzi si studiava di non fare alcun rumore colle labbra.
I suoi occhi però pieni di fuoco, non si staccavano un solo momento dal ministro. Si comprendeva che stava in guardia.
Trascorse una mezz'ora, poi la porta tornò ad aprirsi ed un altro indiano entrò, tenendo fra le mani un piatto fumante che conteneva dei pesci annegati in una salsa nerastra.
Era un uomo presso la quarantina, piuttosto alto di statura e membruto, tutto vestito di bianco, col viso molto abbronzato che aveva dei riflessi dell'ottone e che aveva agli orecchi dei pendenti d'oro che gli davano un non so che di grazioso e di strano.
— Ah! — esclamò Sandokan, deponendo la pipa. — Sei tu, Kammamuri? Ben felice di vederti, sempre in salute e sempre fedele al tuo padrone.
— I maharatti muoiono al servizio del loro signore, — rispose l'indiano. — Salute a te, invincibile Tigre della Malesia. —
Altri quattro uomini erano entrati, portando altri tondi pieni di cibi diversi, bottiglie di birra e salviette.
Kammamuri depose il suo tondo dinanzi al ministro, mentre entravano Yanez e Tremal-Naik.
La Tigre della Malesia si era alzata per sedersi di fronte al prigioniero, il quale guardava con terrore or l'uno ed ora gli altri, senza però pronunciare una sillaba.
— Perdonate, Eccellenza, se la colazione che io vi offro è ben inferiore alla cena che vi ho mangiata, ma siamo un po' discosti dal centro della città ed i negozi non sono ancora aperti.
Fate onore al nostro modesto pasto e rasserenatevi. Avete una cera da funerale.
— Io non ho fame, mylord, — balbettò il disgraziato.
— Mandate giù pochi bocconi per tenerci compagnia.
— E se mi rifiutassi?
— In tal caso vi costringerei colla forza. Non si fa l'offesa d'un rifiuto ad un mylord.
La nostra cucina d'altronde non è meno buona della vostra: assaggiate e vi persuaderete. Poi riprenderemo il nostro discorso. —
Come abbiamo detto, Kammamuri aveva posto dinanzi al ministro il primo tondo che aveva portato e che conteneva dei pesci che nuotavano entro una salsa nerastra, costringendolo in tal modo ad inghiottire solo quell'intingolo.
Il povero diavolo, vedendo fisso sopra di sé e minacciosi gli occhi di Yanez, si decise finalmente a mangiare quantunque non avesse affatto appetito.
Gli altri non avevano tardato ad imitarlo, vuotando rapidamente i piatti che avevano dinanzi e che non sembravano contenere un intingolo diverso, almeno apparentemente.
Kaksa Pharaum aveva con grandi sforzi inghiottiti alcuni bocconi, quando lasciò cadere bruscamente la forchetta guardando il portoghese con smarrimento.
— Che cosa avete, Eccellenza? — chiese Yanez, fingendo con gran stupore.
— Che mi sento bruciare le viscere, — rispose Kaksa Pharaum che era diventato smorto.
— Non mettete anche voi del pimento nei vostri intingoli?
— Non così forte.
— Continuate a mangiare.
— No... datemi da bere... brucio.
— Da bere? Che cosa?
— Di quella birra, — rispose il disgraziato.
— Ah no, Eccellenza. Questa è esclusivamente per noi e poi voi, come indiano, non potreste berne poiché noi inglesi, onde aumentare la fermentazione della birra, vi mettiamo qualche pezzetto di grasso di mucca.
Voi, Eccellenza, sapete meglio di me che, per voi indiani, quell'animale è sacro e chi ne mangia andrà soggetto a pene tremende quando sarà morto. —
Sandokan e Tremal-Naik fecero uno sforzo supremo per trattenere una clamorosa risata. Ne poteva inventare altre quel demonio di portoghese? Perfino il grasso di mucca nella birra inglese!
Yanez, che conservava una serietà meravigliosa, empì una tazza di birra e la porse al ministro dicendogli:
— Se volete, bevete pure. —
Kaksa Pharaum aveva fatto un gesto d'orrore.
— No... mai... un indiano... meglio la morte... dell'acqua mylord... dell'acqua! — aveva gridato. — Ho il fuoco nel ventre!
— Dell'acqua! — rispose Yanez. — Dove volete che andiamo a prenderne, Eccellenza? Non vi è alcun pozzo in questa pagoda sotterranea ed il fiume è più lontano di quello che credete.
— Muoio!
— Bah! Noi non abbiamo alcun interesse a sopprimervi. Tutt'altro.
— Mi avete avvelenato... ho dei carboni accesi nel petto! — urlò il disgraziato. — Dell'acqua! dell'acqua!
— La volete proprio? —
Kaksa Pharaum si era alzato, comprimendosi con le mani il ventre.
Aveva la schiuma alle labbra e gli occhi gli uscivano dalle orbite.
— Dell'acqua... miserabili! — urlava spaventosamente.
La sua voce non aveva più nulla d'umano. Dalle labbra gli uscivano dei ruggiti che impressionavano perfino la Tigre della Malesia.
Anche Yanez si era alzato di fronte al ministro.
— Parlerai? — gli chiese freddamente.
— No! — urlò il disgraziato.
— E allora noi non ti daremo una goccia d'acqua.
— Sono avvelenato.
— Ti dico di no.
— Datemi da bere!
— Kammamuri! Entra! —
Il maharatto, che doveva essere dietro la porta, si fece innanzi portando due bottiglie di cristallo piene d'acqua limpidissima e le depose sulla tavola.
Kaksa Pharaum, all'estremo delle sue sofferenze, aveva allungate le mani per afferrarle, ma Yanez fu pronto a fermarlo.
— Quando mi avrai detto dove si trova la pietra di Salagraman tu potrai bere finché vorrai, — gli disse. — Ti avverto però che tu rimarrai in nostra mano finché l'avremo trovata, quindi sarebbe inutile ingannarci.
— Brucio tutto! Una goccia d'acqua, una sola...
— Dimmi dove è la pietra.
— Non lo so...
— Lo sai, — rispose l'implacabile portoghese.
— Uccidetemi allora.
— No.
— Siete dei miserabili!
— Se lo fossimo, non saresti più vivo.
— Non posso più resistere! —
Yanez prese un bicchiere e lo empì lentamente d'acqua.
Kaksa Pharaum seguiva, cogli occhi smarriti, quel filo d'acqua, ruggendo come una fiera.
— Parlerai? — chiese Yanez, quand'ebbe finito.
— Sì... sì... — rantolò il ministro. — Dov'è dunque?
— Nella pagoda di Karia.
— Lo sapevamo anche noi. Dove?
— Nel sotterraneo che s'apre sotto la statua di Siva.
— Avanti.
— Vi è una pietra... un anello di bronzo... alzatela... sotto in un cofano...
— Giura su Siva che hai detto la verità.
— Lo... giuro... da bere...
— Un momento ancora. Veglia qualcuno nel sotterraneo?
— Due guardie.
— A te. —
Invece di prendere il bicchiere il ministro afferrò una delle due bottiglie e si mise a bere a garganella, come se non dovesse finire più.
La vuotò più che mezza, poi la lasciò bruscamente cadere e stramazzò, come fulminato, fra le braccia di Kammamuri che gli si era messo dietro.
— Coricalo sul divano, — gli disse Yanez. — Per Giove, che droga infernale hai messo dentro quell'intingolo? Mi assicuri che non morrà, è vero?
— Non temete, signor Yanez, — rispose il maharatto. — Non ho messo che una foglia di serhar, una pianta che cresce nel mio paese.
Domani quest'uomo starà benissimo.
— Tu lo sorveglierai e metterai due dei nostri alla porta. Se fugge siamo tutti perduti.
— E noi dunque che cosa faremo? — chiese Sandokan.
— Aspetteremo questa sera e andremo ad impadronirci della famosa pietra di Salagraman e del non meno famoso capello di Visnù.
— Ma perché ci tieni tanto ad avere quella conchiglia?
— Lo saprai più tardi, fratellino. Fidati di me. —