Alla conquista di un impero/17. La confessione del fakiro

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17. La confessione del fakiro


Tantia divorato da una sete spaventevole, bruciato dal sole che lo colpiva direttamente sul nudo cranio, arso internamente dal pimento e compresso dalla terra, pareva che fosse proprio all'estremo delle sue forze.

Gli occhi gli uscivano dalle orbite, aveva la schiuma alle labbra ed il suo braccio anchilosato subiva dei fremiti, come se da un momento all'altro dovesse spezzarsi sotto gli sforzi disperati che faceva il suo proprietario, per abbassarlo verso la bacinella piena d'acqua.

Urla spaventevoli, che rassomigliavano agli ululati d'un lupo idrofobo, gli sfuggivano di quando in quando dal petto oppresso dalla terra.

Vedendo Sandokan e Tremal-Naik, i suoi occhi s'iniettarono di sangue ed il suo viso assunse un aspetto orribile.

— Acqua! — ruggì.

— Sì, quanta ne vorrai, se ti deciderai a parlare — rispose Sandokan sedendosi di fronte al miserabile. — Voglio farti una proposta. Dimmi prima quanto ti hanno dato per rapire quella giovane indiana o per aiutare i rapitori. —

Il gussain fece una smorfia, e non rispose.

— Poco fa ho deciso il demjadar dei seikki a dirmi tutto quello che io desideravo, e quello è un fiero soldato e non già uno stupido fanatico come sei tu.

Segui il suo esempio e avrai acqua e anche delle rupie. Se ti rifiuti io non mi occuperò più di te e ti lascerò morire entro la tua buca. Scegli!

Rupie! rantolò Tantia, guardando fisso la Tigre della Malesia.

— Cento, anche duecento. —

Il gussain ebbe un fremito.

— Duecento! — esclamò con voce appena intelligibile.

Ebbe ancora un'ultima esitazione, poi rispose:

— Parlerò... se mi farai avere un sorso d'acqua.

— Finalmente, — esclamò Sandokan. — Ero sicuro che tu ti saresti deciso a confessare. —

Prese la bacinella e l'accostò alle labbra del gussain, lasciandogli bere alcuni sorsi.

— Te la do per scioglierti meglio la lingua, — disse. — Se vuoi il resto devi dirmi tutto.

Per conto di chi hai lavorato?

— Pel favorito del rajah rispose Tantia che pareva fosse rinato dopo quei pochi sorsi d'acqua.

— Chi è costui?

— L'uomo bianco. —

Sandokan e Tremal-Naik si guardarono l'un l'altro.

— Deve essere quel greco, — disse il primo.

— Certo, — rispose il secondo.

La fronte di Sandokan si era abbuiata.

— Mi sembri inquieto, — disse Tremal-Naik.

— Ho mille ragioni per esserlo, — rispose il famoso pirata. — Se quel cane ha fatto rapire Surama, vuol dire che in qualche modo è venuto a conoscenza dei nostri progetti e ciò, se fosse vero, sarebbe grave.

Vi è la testa di Yanez in giuoco.

— Non spaventarmi, Sandokan.

— Oh! Non l'ha ancora perduta e noi non siamo ancora morti. Tu sai di che cosa sono capace io, e quella testa non cadrà se io non lo voglio e tu sai anche quanto io amo Yanez più che se fosse mio fratello, più che se fosse mio figlio.

— Lo so: non potrebbe esistere una Tigre della Malesia senza il suo amico portoghese. —

Sandokan che si era un po' allontanato dal gussain, onde non potesse udire il suo discorso, tornò verso la buca.

— Vediamo, — disse. — Forse noi ci creiamo dei timori che non esistono.

Può trattarsi d'una semplice vendetta. —

Si rivolse a Tantia che lo fissava sempre intensamente e gli chiese:

— Il favorito l'hai veduto tu?

— No.

— Chi ti ha dato l'ordine di rapire la donna?

— Un ministro, amico intimo del favorito.

— E come hai fatto?

— Prima l'ho addormentata con dei fiori, poi l'ho calata dalla finestra. Sotto vi erano dei servi del favorito.

— E dove l'hanno portata?

— Nella casa dell'uomo bianco.

— Dove si trova?

— Sulla piazza di Bogra.

— Bindar! —

L'assamese che si trovava a breve distanza, masticando una noce d'areca con un pizzico di calce, fu lesto ad accorrere.

— Tu sai dove si trova la piazza di Bogra? — gli chiese Sandokan.

— Sì, sahib.

— Benissimo: continua gussain.

— Che cosa vuoi sapere ancora? — chiese Tantia. — Ti ho detto perfino troppo.

— Ma hai guadagnato duecento rupie.

— Me le darai?

— Io sono un uomo che quando prometto mantengo, non scordartelo, fakiro, rispose Sandokan.

— Allora posso aggiungere qualche cosa d'altro a quanto ti ho detto, — disse Tantia.

— Ossia?

— Io ho saputo che il chitmudgar del favorito, ha dato da bere a quella giovane donna non so quale miscela per farla parlare. —

Sandokan ebbe un soprassalto.

— Ed ha parlato? — chiese con ansietà.

— Certo, poiché hanno assalito la pagoda dove tu ti nascondevi.

— Che abbia compromesso Yanez? — si chiese a mezza voce Sandokan mentre la sua fronte si copriva d'un freddo sudore.

Si mise poi a passeggiare per la spianata colle mani chiuse, il viso alterato. Un improvviso scoppio di furore lo assalì d'un tratto:

— Cane d'un greco! — gridò tendendo un braccio in direzione della capitale dell'Assam. — Non lascerò questo paese se non ti avrò prima strappato il cuore! Come ho uccisa la Tigre dell'India, ucciderò anche te! —

Anche Tremal-Naik appariva molto preoccupato e nervoso. Egli si chiedeva insistentemente quali parole erano riusciti a strappare dalle labbra di Surama. Egli aveva già provato, quando aveva cercato di lottare cogli strangolatori della jungla nera, l'effetto di quei misteriosi narcotici, che solo certi indiani conoscono.

Se erano riusciti a scoprire lo scopo della loro presenza nel principato d'Assam, doveva succedere una catastrofe completa, pensava.

Sandokan dopo d'aver passeggiato qualche minuto, stringendo continuamente le pugna e aggrottando di quando in quando la fronte, tornò precipitosamente verso il gussain.

— Hai più nulla da aggiungere a quanto hai detto?

— No, sahib.

— Ti avverto che tu rimarrai nelle nostre mani fino al nostro ritorno e che se hai mentito ti farò levare la pelle.

— Ti aspetterò tranquillo — rispose il fakiro.

— Invece di duecento rupie ne hai guadagnate quattrocento, che ti verranno contate subito.

— Io sono tuo anima e corpo.

— Vedremo, — rispose Sandokan.

Si volse verso i malesi dicendo loro:

— Levate quest'uomo dalla buca e dategli da mangiare e da bere finché vorrà. Vegliate però attentamente anche su lui.

Ed ora mio caro Tremal-Naik, prepariamoci a partire. Surama sarà salva, se non sopravvengono altri incidenti.

— Chi condurremo con noi?

— Bindar, Kammamuri e sei uomini; gli altri rimarranno a guardia dei prigionieri.

— Saremo sufficienti per tentare il colpo?

— In caso di bisogno chiameremo in nostro aiuto i sei malesi che ha Yanez. Non perdiamo tempo e partiamo. —

Sandokan ed i suoi compagni, dopo d'aver raccomandato a Sambigliong di tenere un piccolo posto di guardia sulle rive della palude, lasciavano la pagoda per raggiungere il Brahmaputra.

Essendo quasi mezzo giorno non dovevano correre alcun pericolo nella traversata della jungla, poiché ordinariamente le belve, a menoché non siano eccessivamente affamate, durante le ore più calde del giorno si tengono sdraiate nelle loro tane. Solo la notte si mettono in caccia, favorendo le tenebre i colpi di sorpresa.

La traversata infatti la compirono senza vedere alcun animale pericoloso. Solo qualche coppia di bighama, ossia di cani selvaggi, li seguì per qualche tratto urlando senza osare di attaccarli.

Giunti sulle rive della palude trovarono la bangle nel medesimo luogo ove l'avevano lasciata, segno evidente che nessuno si era spinto fin là.

Le guardie del rajah non avendo potuto seguire le tracce dei fuggiaschi in causa del fiume dovevano aver abbandonato l'inseguimento.

— Bindar, — disse Sandokan salendo a bordo della barcaccia, — governa in modo da farci giungere in città a notte inoltrata. Non voglio che ci vedano entrare nel palazzo di Surama, che dovrà servirci da quartier generale. —

S'imbarcarono levando l'ancora, ritirarono l'ormeggio ed imboccarono il canale che doveva condurli nel Brahmaputra remando lentamente, non avendo molta fretta.

Una gran calma regnava sulla palude e sulle sue rive. Solo di quando in quando qualche uccello acquatico s'alzava pesantemente, descrivendo qualche curva intorno alla bangle, poi si lasciava cadere fra i gruppi di canne.

In mezzo alle piante del loto, mezzo affondati nel fango, sonnecchiavano dei grossi coccodrilli, i quali non si degnavano di muoversi nemmeno quando la barca passava accanto a loro.

Fu verso le sei della sera che Sandokan ed i suoi compagni raggiunsero il Brahmaputra.

Due poluar, specie di navigli indiani, i più adatti alla navigazione interna, perché assai leggermente costruiti, colla prora e la poppa ad eguale altezza e muniti di due piccoli alberi che sorreggono due vele quadrate, navigavano a poca distanza l'uno dall'altro radendo quasi la riva opposta, dove la corrente si faceva sentire più forte.

— Che siano barche in crociera? — si chiese Sandokan, che le aveva subito notate.

— Non vedo seikki a bordo, — disse Tremal-Naik. — Mi hanno più l'apparenza di navigli mercantili.

— Vedo una spingarda sulla prora di uno di essi.

— Talvolta quelle barche sono armate non essendo sempre sicuri i corsi d'acqua che attraversano queste regioni.

— Tuttavia li sorveglieremo, — mormorò Sandokan.

— Possiamo accertarci subito se sono dei semplici trafficanti od esploratori.

— In quale modo?

— Rimanendo noi indietro o sopravvanzandoli.

— Proviamo: giacché non abbiamo fretta facciamo ritirare i remi e lasciamoci portare dalla corrente. —

I malesi, subito avvertiti, ritirarono le lunghe pale e la bangle rallentò la sua corsa, andando un po' di traverso.

I due poluar continuarono la loro marcia, aiutati dalla brezza che gonfiava le loro vele ed in pochi minuti si trovarono considerevolmente lungi dalla bangle, sparendo poi entro la curva del fiume.

— Se ne sono andati — disse Tremal-Naik. — Come vedi io non m'ero ingannato. —

Sandokan crollò il capo senza rispondere. Non pareva affatto convinto della tranquillità di quei due piccoli navigli.

— Dubiti? — chiese Tremal-Naik.

— Un pirata fiuta gli avversari a grandi distanze, — disse finalmente la Tigre della Malesia. — Io sono più che sicuro che quei due poluar perlustrano il fiume.

— Ci avrebbero fermati ed interrogati.

— Non siamo ancora giunti a Gauhati.

— Che i seikki ci abbiano seguìti nella nostra ritirata attraverso la jungla? Eppure quella sera io non vidi alcuna barca a darci la caccia.

— E le rive non le conti? Voi siete tutti corridori insuperabili ed un uomo che avesse seguito la riva sinistra avrebbe potuto facilmente tenersi sempre in vista della bangle e notare il luogo ove aveva imboccato il canale della palude.

— E perché non ci hanno assaliti nella jungla?

— Può darsi che non abbiano avuto il coraggio di farlo — rispose Sandokan. — Le mie non sono però che semplici supposizioni e potrei benissimo ingannarmi.

Tuttavia apriamo bene gli occhi e teniamoci pronti a qualunque evento.

Sento per istinto che dovremo lottare con un uomo fortissimo che vale dieci volte il rajah.

— Quel greco?

— Sì, — rispose Sandokan. — È lui il nemico pericoloso.

— È vero. Senza quell'uomo Yanez avrebbe fatto a quest'ora chissà che cosa.

— A me basta avere i seikki sottomano. Se il demjadar riesce a persuaderli a mettersi ai miei servigi, vedrai che pandemonio saprò scatenare io a Gauhati. —

Accese il suo cibuc e si sedette sulla murata di prora, lasciando penzolare le gambe sul fiume che rumoreggiava intorno alla bangle. Il sole stava allora tramontando dietro le alte cime dei palas, quei bellissimi alberi dal tronco nodoso e massiccio, coronato da un fitto padiglione di foglie vellutate, d'un verde azzurrognolo, donde partono degli enormi grappoli fiammeggianti, dai quali si ricava una polvere color di rosa, adoperata dagli indù nelle feste di Holi.

Sulle rive, numerosi contadini battevano, con un ritmo monotono, l'indaco, raccolto durante la giornata e messo a macerare entro vasti mastelli per meglio distaccare le particelle e farle precipitare più presto, avendo gli indiani un modo diverso per trattare tale materia colorante.

Altri invece spingevano in acqua colossali bufali per dissetarli, guardandoli attentamente onde i coccodrilli non li afferrassero pel naso o pel muso e li tirassero sotto, cosa comunissima nei fiumi dell'India.

La bangle, verso le nove, giunse in vista dei fanali che splendevano nelle vie principali della capitale dell'Assam. Stava per passare vicino all'isolotto su cui si alzava la pagoda di Karia, quando si trovò improvvisamente dinanzi ai due poluar che chiudevano il passaggio.

Una voce si era subito alzata sul più vicino:

— Ohe! Da dove venite e dove andate?

— Lascia che risponda io, — disse Tremal-Naik a Sandokan.

— Fa' pure, — rispose questi.

Il bengalese alzò la voce gridando:

— Veniamo da una partita di caccia.

— Fatta dove? — chiese la medesima voce di prima.

— Nella palude di Benar, — rispose Tremal-Naik.

— Che cosa avete ucciso?

— Una dozzina di coccodrilli che andremo a raccogliere domani essendo affondati.

— Avete visto degli uomini in quei dintorni?

— Null'altro che dei marabù e delle oche.

— Passate e buona fortuna. —

La bangle, che aveva rallentata la marcia, riprese la corsa a tutta forza di remi, mentre i due poluar allentavano le gomene per lasciarle il passo.

— Che cosa ti ho detto? — disse Sandokan a Tremal-Naik, quando furono lontani dai due navigli. — Noi pirati abbiamo un fiuto straordinario e sentiamo i nemici a distanze incredibili.

— Me ne hai dato or ora una prova, — rispose Tremal-Naik. — Che ci abbiano proprio seguìti?

— Non ne dubito.

— Tuttavia ce la siamo cavata benissimo.

— Per la tua buona idea.

— Dove sbarcheremo?

— Nel centro della città. Questa notte desidero dormire nel palazzo di Surama. Forse là troveremo notizie di Yanez.

Kubang non avrà mancato di fare una visita ai servi.

— È quello che pensavo anch'io. Quel malese è molto intelligente.

— Un gran furbo, — disse Sandokan. — Se non lo fosse non sarebbe un malese.

Bah! evitata la crociera tutto andrà bene. Domani ci metteremo in cerca di Surama e prepareremo al greco od ai suoi uomini un bel tiro.

Credi che nel suo palazzo abbia un chitmudgar?

— Certo, Sandokan, — rispose Tremal-Naik. — Un indiano che si rispetta, deve avere una ventina di servi per lo meno ed un direttore di casa.

— Che si lasci pescare da me ed il colpo sarà fatto. Non si tratta che di sapere i luoghi che frequenta.

— Perché?

— Lascia fare a me: ho la mia idea.

Ehi, Bindar, possiamo approdare?

— Sì, sahib.

— Accosta la riva dunque. —

La bangle in pochi colpi di remo attraversò il fiume e andò ad ancorarsi dinanzi ad un vecchio bastione che difendeva la città verso occidente.

— A terra, — comandò Sandokan, dopo essersi assicurato che dietro la bastionata non vi era nessuno. — Due soli malesi rimangano a guardia della bangle. -

Presero le loro armi e scesero sulla riva che era coperta da fitte macchie di nagatampo, alberi durissimi e che producono dei fiori odorosi e bellissimi, dei quali si adornano le giovani indiane.

— Seguitemi, — disse Sandokan. — Giungeremo al palazzo di Surama inosservati, se non vi saranno intorno delle spie.

— Che cosa temi ancora? — chiese Tremal-Naik.

— Eh! Quel greco è capace di aver teso degli agguati, mio caro. In cammino amici e se vi sarà da menar le mani non fate uso che delle scimitarre.

Nessun colpo di carabina o di pistola.

— Sì, Tigre della Malesia — risposero i malesi.

— Venite! —

Si misero a costeggiare il fiume coperto da enormi tamarindi, che rendevano colla loro ombra l'oscurità più fitta; poi raggiunto il sobborgo orientale, si cacciarono fra le viuzze interne dirigendosi verso il centro della città.

Essendo già molto tardi, pochissimi abitanti si trovavano per le vie e anche quelli s'affrettavano a girare al largo, scambiando probabilmente Sandokan ed i suoi uomini per soldati del rajah in cerca di qualche malvivente.

La mezzanotte non doveva essere lontana quando il drappello sbucò sulla piazza dove sorgeva il palazzo, che Yanez aveva acquistato per la sua bella fidanzata.

Sandokan si era arrestato lanciando un rapido sguardo a destra ed a sinistra.

— Vedo due indiani fermi dinanzi al palazzo, — disse a Tremal-Naik.

— Non mi sono sfuggiti, — rispose il bengalese.

— Che siano due spie di quel maledetto greco?

— Può darsi. Egli ha interesse a far sorvegliare il palazzo.

— Cerchiamo di prenderli in mezzo. Ci faremo credere guardie del rajah intenti ad eseguire una ronda notturna. —

I due indiani però, accortisi della presenza del drappello, si allontanarono rapidamente non ostante che Tremal-Naik avesse subito gridato dietro a loro:

— Alt! Servizio del rajah!

— Non devono essere due galantuomini, — disse Sandokan quando li vide scomparire entro una viuzza tenebrosa. — Lasciamoli andare. —

Poi volgendosi verso Kammamuri continuò:

— Tu resta qui di guardia coi malesi. La nostra spedizione notturna non è ancor finita e prima che sorga il sole voglio fare la conoscenza colla dimora privata di quel cane di greco. —

Salì la gradinata seguìto da Tremal-Naik e da Bindar e percosse, senza troppo fracasso, la lastra di bronzo sospesa allo stipite della porta.

Il guardiano notturno che vegliava nel corridoio, fu pronto ad aprire e riconoscendo in quegli uomini gli amici della sua padrona, fece un profondo inchino.

— Conducimi subito dal maggiordomo, — disse Sandokan. — Sbrigati, ho fretta.

— Entra nel salotto, sahib. Fra mezzo minuto ti raggiungerò. —

Sandokan ed i suoi due compagni aprirono la porta ed entrarono in una elegantissima stanzetta che era ancora illuminata.

Si erano appena seduti dinanzi ad uno splendido tavolino d'ebano di Ceylan filettato in oro, quando il maggiordomo del palazzo, appena coperto da un dootèe di tela gialla, si precipitava nel salotto, esclamando con voce singhiozzante:

— Ah signori! Quale disgrazia.

— La conosciamo, — disse Sandokan. — È inutile che tu perdi il tempo a raccontarcela. Il sahib bianco della tua signora s'è fatto vedere?

— No.

— Ha mandato nessuno?

— Quell'uomo dalla faccia olivastra, con una lettera per la padrona.

— Dammela subito. I minuti sono preziosi in questo momento. —

Il maggiordomo s'avvicinò ad un cofanetto laccato con intarsi di madreperla e prese un piccolo piego, porgendolo al pirata.

Questi ruppe il suggello e lesse rapidamente ciò che stava scritto dentro.

— Yanez non sa ancora nulla, — disse poi a Tremal-Naik — Kubang ha conservato bene il segreto.

— E poi?

— Avverte Surama di non inquietarsi per lui e che il favorito guarisce rapidamente. Già tutti i bricconi hanno la pelle a prova di acciaio e di piombo.

— E null'altro?

— L'incarica di far sapere a noi che pel momento non corre alcun pericolo e che si è già guadagnata la stima e la confidenza del rajah.

Giacché si trova benissimo alla corte e non sa che gli hanno rapito la fidanzata, lasciamolo tranquillo, operiamo da noi soli. —

Poi volgendosi verso il maggiordomo che stava ritto dinanzi a lui, in attesa dei suoi ordini, gli chiese:

— È avvenuto nessun altro fatto dopo il rapimento della tua padrona?

— No, sahib. Ho notato però che alla sera ronzano attorno al palazzo, fino a notte tardissima, delle persone.

— Ah! — esclamò Sandokan. — Si sorveglia qui. Non ne dubitavo. Hai fatto delle ricerche?

— Sì, sahib e sempre infruttuose.

— Hai avvertito la polizia?

— Non ho osato, temendo che la padrona sia stata rapita per ordine del rajah.

— Hai fatto benissimo. Tremal-Naik, Bindar, rimettiamoci in caccia.

— Ed io, signore, che cosa devo fare? — chiese il maggiordomo.

— Assolutamente nulla fino al nostro ritorno. Gli uomini che il sahib bianco ha lasciati a guardia di Surama sono sempre qui?

— Sì.

— Li avvertirai di tenersi pronti; posso aver bisogno anche di loro per rinforzar la mia scorta.

Domani sera, a notte inoltrata, noi saremo qui. Addio. —

Uscì dal salotto e raggiunse i suoi uomini che si erano seduti sulla gradinata.

— Deponete le carabine, — disse loro. — Conservate solo le pistole e le scimitarre.

Ed ora in caccia! —