L'ippocampo

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Il cervo L'onda
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L’IPPOCAMPO.

V
IMINE svelto,

pieghevole Musa
furtivamente
fuggita del Coro
5lasciando l’alloro
pel leandro crinale,
mutevole Aretusa
dal viso d’oro,
offri in ristoro
10il tuo sal lucente
al mio cavallo Folo
dagli occhi d’elettro,
dal ventre di veltro,
ch’è solo l’eguale
15del sangue di Medusa
ahi ma senz’ale!
Offrigli il sale,
sonoro al dente,

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o Aretusa,
20nella palma dischiusa
e nuda, senza spavento
ché, per prendere il dono,
ha labbra più leggiere
delle sue gambe
25di vento.
Appena ti lambe,
come per bere!
Del suo piacere
ti bagna; e la tua palma
30appena sente, dietro
le labbra, il fresco
suo dente di puledro,
che brucar l’erba calma
può sì dolcemente
35e rodere il ferro
difficile quando serro
la rapidità focace
pe’ solitarii
lidi io senza pace.

40Come per te, furace
fauna dei pomarii,
un bugno
di miel redolente

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non vale
45simiana acerba,
così per lui biada opima
non vale un pugno
di sale mordace.
Troppo gli piace,
50Aretusa. Ingordo
n’è come capra sima.
Forse ha un ricordo
marino il sangue di Folo.
Egli è forse figliuolo
55degli Ippocampi
dalla coda di squamme.
Ora è fiamme e lampi,
ma prima
era forse argentino
60o cerulo o verdastro
come il flutto, gagliardo
come il flutto decumano.
E nel vespero tardo,
all’apparir dell’astro
65che cresce,
al levar della brezza,
tutto acquoso e salmastro
venuto in su la proda,
mansuefatto,

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70battendo con la coda
di pesce l’arena
per la dolcezza,
sogguardando in atto
d’amore, gocciando bava,
75prono la schiena,
mangiava piano
l’aliga nella mano
cava della Sirena.