Al mio futuro biografo
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XIV
AL MIO FUTURO BIOGRAFO
Ahi! giá ti vedo, il volto
grave di cento cose,
girar su me sepolto
con un cestel, non so
5se pien di spine o rose,
per rompermi la pace,
che libera e tenace
sotto il mio sasso avrò.
Odi, fratello in Cristo,
10poche parole. E poi,
risolto il dritto misto
che tra me corre e te,
di’ quel che diavol vuoi;
ché giá, dopo le squille,
15parer Tersite o Achille
poco importar mi dé’.
Nacqui negli ermi piani
lá della mia Dasindo,
de’ passeri montani
20al canto mattinier.
Nacqui fanciul di Pindo
nell’anno in che Luigi
portò dentro Parigi
la Carta e lo stranier.
25Furono a me dilette
le cacce in sull’aurora.
Oh quante allodolette
spiccai dall’aria a vol!
E, quando sparve l’ora
30del garrulo trastullo,
lunatico fanciullo
vissi romito e sol.
Poi, faticato e lasso
dal barbaro latino,
35di Metastasio e Tasso
il canto m’arrivò;
e il birbo novellino,
sedendo fra le rose,
strofe d’amor compose
40e vaghi eroi sognò.
E in quei vaneggiamenti
fu al birichin palese
il pomo dei parenti,
che tolse loro il ciel.
45Biografo cortese,
quel dolce frutto invoglia:
chi ne beccò la foglia
brama saggiarne il miel.
Se tu di carne e d’ossa
50quel dolce frutto amasti,
confido che la fossa
mi spargerai di fior.
Ma, se co’ piedi casti
valichi il fango nostro,
55cerca al tuo santo inchiostro
cadavere miglior.
Ché non è uffizio pio
porre il cilicio ai morti,
quando aggiustâr con Dio
60i conti di quaggiú.
Il diavolo i piú forti,
in veste d’Eva, adugna.
Difficile è la pugna
tra il sangue e la virtú.
65Confesso il peccatuccio,
teco arrossendo; e giuro,
senza portar cappuccio,
che me ne morde il cor.
Degli altri sei son puro
70o gli ho commessi in modo,
che quasi me ne lodo,
felice peccator.
Superbo, ma in cospetto
delle viltá potenti.
75Cúpido, ma al diletto
d’ogni perpetuo ver.
Avaro, ma d’accenti
col volgo degli sciocchi.
Iroso, ma ai pidocchi
80del secolo banchier.
Invido, ma alla fama
delle stupende imprese,
qual chi le ammira ed ama
se non le sa compir.
85E, se talor mi prese
l’accidia della vita,
qualche virtú romita
la fece rifiorir.
Biografo, di questo
90le tavolette incidi.
Poco m’importa il resto,
ma pur nol tacerò.
Se giudicar t’affidi
le mie vergate carte,
95sappi dappria che l’arte
del cor le immaginò.
Ella a’ dí lieti e foschi
le immaginò su’ fiumi,
per cieche valli, in boschi,
100sui monti, alle cittá;
e, fin che la consumi
il suo celeste foco,
in ogni tempo e loco
are a suoi canti avrá.
105Schietta e pensosa il manto
volle suo proprio. E gli occhi
mai di mentito pianto
né di vil riso armò.
Rotte le trine e i fiocchi,
110onde lo stil s’ingerga,
i bossoli e la verga
de’ giocolier spregiò.
Biografo, non darmi
nota di spirto altèro.
115Gl’inemendati carmi
lascio emendarli a te.
Ma, se t’è legge il vero,
se t’è la musa amica,
non sia l’amara ortica
120che mi germogli al piè.
Castigator discendi
sulla soperchia fronda,
e a lei la pira accendi;
non io mi turberò.
125Però che, quando abbonda
di bamboli l’ostello,
forte, elegante e bello
essere ognun non può.
Questo è il tuo dritto. Or senti
130una mia prece ancora.
Se spento fra gli spenti
non mi volesse il ciel,
e qualche illustre aurora
mi salutasse l’urna,
135non l’upupa notturna,
l’infido corvo o il gel;
deh! per pietá, se al giusto
travi discerni e paglie,
non minacciarmi un busto,
140biografo gentil,
ch’io non perdei battaglie
non feci chiuder fòri,
né sigillai gli amori
in sagristia civil.
145Risparmia al mio villaggio
la spesa e la scultura.
Egli è modesto e saggio:
deh! lascialo cosí.
Sfidiam la sepoltura.
150insiem, con due sorrisi;
ché, scalpellati o incisi,
giá non si torna al dí.
Poi, senza cippi ed archi,
in valli ignote e cupe
155russano i patriarchi
nudi d’orgoglio il cor.
Di Leutra sulla rupe
Epaminonda giace:
la polvere d’Aiace
160stride insepolta ancor.
Dormono Omero e i bardi
senz’urna, in qualche fosso;
e il povero Siccardi
potrebbe anch’ei dormir,
165senza sentirsi addosso,
mercé del roman fisco,
un comico obelisco,
riso dell’avvenir.
Son le funeree moli
170cosí frequenti adesso,
che un gioco di piuoli
il camposanto appar.
Possibile che un gesso,
una pastella, un bronzo
175muti in Platone il bonzo
in Paolo un Escobár?
Biografo, se m’ami,
abbi ogni farsa a vile.
Lá tra quei densi rami
180ti piaccia il guardo aprir.
Non vedi una gentile,
sotto quel salcio, sola
la mia funèbre aiuola
di rose ricoprir?
185Ella è la dolce figlia
dell’amor mio felice:
è della mia famiglia
quanto mi resta in don.
D’una gentil radice
190è il solitario frutto;
per me com’ella è tutto,
nulla pel mondo io son.
Di quelle rose ognuna
è il monumento mio;
195il raggio della luna
n’è il tacito doppier;
dei venti il mormorio
della mia fama è l’eco;
e che mi cal se meco
200perisca il mio pensier?
Ei perirá, siccome
la gioia del banchetto,
o su virginee chiome
il serto del mattin;
205ma in étere piú schietto,
per mondi piú sicuri
spero che meco ei duri
perpetuo pellegrin.
E qui la penna io pongo
210scherzosa e impensierita;
perché quest’Io, dittongo
di riso e di dolor,
se parla colla vita,
si sente arguto e forte;
215se parla colla morte,
smarrisce ogni vigor.
Biografo, vorresti
un ultimo consiglio?
Quando degli ossi pesti
220il fascio io deporrò,
per un granel di miglio
non far necrologie,
e senza, udir bugie,
piú cheto io dormirò.