Agricoltura del Pianeta/V
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RUSSIA, TROIKA SENZA GUIDA CHE CORRE ALL’IGNOTO
Mentre a Mosca Governo e Parlamento dispongono la nascita di un'agricoltura fondata sull'azienda privata, nel granaio della Federazione, la fertile steppa tra il Caspio e il Mar Nero, l'orologio è fermo ai tempi del collettivismo. I dirigenti e i duemila operai del colcos Sarajeva sono convinti che l'organismo entro il quale operano sia paradigma di funzionalità agraria, che nulla debba essere mutato.
I versi del poeta e l'orologio della storia
"Troika, veloce troika, troika costruita dal mugik con la scure, dove ti porta la corsa folle nella steppa? Russia, Russia amata, che corri rapida come la troika, quale è la tua meta, quale è il tuo destino?"
Mentre Anatoli Pakhmov, il funzionario dell'Agropromsoyuz che mi accompagna alla scoperta dell'agricoltura dell'ultimo lembo della Federazione Russa tra il Caspio e la Georgia, traduce in russo la metafora di Nicolaj Gogol che ho declamato in italiano, osservo, meravigliato, i miei interlocutori. Di fronte a me Victor Ivanovich Marcov, ingegnere meccanico, presidente del colcos Sarajeva, 24.000 ettari, 2.000 soci-dipendenti, attorno a lui tre dei membri del comitato direttivo, i volti arrossati dalla discussione che ci accalora, ormai, da due ore, e dalla vodka che in Russia è complemento necessario di ogni discussione. Il nostro confronto sul futuro della Russia dopo il crollo del comunismo ha già sfiorato, ripetutamente, il limite oltre il quale secondo il metro italiano una discussione diventa alterco. Ma ad ogni cenno di smorzare il tono, Anatoli, una lunga esperienza all'ambasciata dell'Avana, ha sorriso divertito: sull'orlo dell'alterco, infatti, Victor Ivanovich ha sempre ricolmato, con autorità presidenziale, i bicchieri, e dopo il bicchiere di vodka il dibattito ha ripreso, sistematicamente, in tono più sommesso di almeno due ottave. Per risalire, poi, ancora, fino al brindisi successivo.
Il confronto è arrivato, così, alla domanda solenne del mio interlocutore: "Antonio Ivanovich, cosa pensi del futuro della Russia, di questa Russia spezzata e senza più certezze?", la domanda cui non ho saputo rispondere che con la metafora dello scrittore che incarna l'amore di ogni russo per la sua terra. Anatoli ha tradotto la mia versione di Gogol. I miei interlocutori mi fissano in attesa della spiegazione. Un altro sommo scrittore russo, proseguo, Dostoeskij, ha immaginato, ricostruendo il dibattimento di un processo, che il procuratore e l'avvocato difensore combattessero il più acceso duello oratorio proponendo due interpretazioni opposte della metafora di Gogol. Senza nessuna certezza sulla lettera, ma ricordando il significato delle due arringhe, sviluppo la mia risposta:
"La troika della nostra patria, signori -proclama il procuratore-, è una troika impazzita, davanti al cui impeto i popoli d'Europa si ritirano sgomenti. Ma non si ritireranno per sempre: per fermare la folle corsa che li minaccia, un giorno si uniranno, e schiacceranno la Russia." "La Russia non è una troika impazzita, è un cocchio maestoso -ribatte il difensore di Dimitri Karamazov-, che procede nel suo cammino verso mete luminose di civiltà: tutti i popoli d'Europa ne osservano il procedere, l'accolgono tra loro, tributano alla nostra patria l'onore che spetta ad un membro di diritto del consesso delle nazioni civili."
Mentre Anatoli traduce osservo, ancora, incredulo, i miei interlocutori. Attenti e sorpresi, i loro volti mi dicono che settant'anni di comunismo non solo hanno allontanato un grande popolo europeo dal consesso delle nazioni di cui era parte, ma lo hanno staccato dalla sue stesse radici: dubito, infatti, che uno solo abbia mai letto i due scrittori che, chissà con quali imprecisioni, sto declamando: entrambi troppo visceralmente convinti che l'anima della Russia fosse nella sua fede cristiana per essere accetti ai discepoli di Marx e agli emuli di Lenin.
Anatoli ha tradotto Dostoeskij in russo: spiegando la metafora cerco di rispondere alla domanda che mi è stata posta. "Victor Ivanovich -argomento-, chi visita il vostro paese oggi si pone le medesime domande che i maggiori tra i vostri scrittori si ponevano nell'ultimo scorcio dell'800, come se in Russia l'orologio della storia fosse stato riportato indietro di cento anni. Allora potevate vantare la più grande letteratura del secolo, grandi chimici e microbiologi, gli studi sull'origine della steppa dei vostri pedologi avevano assicurato alle conoscenze agrarie una disciplina nuova: la scienza del suolo. Avevate diritto a un posto tra i paesi che guidavano il progresso delle nazioni. Dostoeskij sperava che alla Russia quel posto sarebbe stato riconosciuto, e pone la sua speranza in bocca all'avvocato dell'imputato Karamazov. Ma temeva il prevalere di chi voleva imporre con la violenza l'eguaglianza forzata, come prevedeva il procuratore, che vince il processo e umilia il principe del foro venuto da San Pietroburgo. Avete avuto la collettivizzazione coatta, che ha dissolto ogni creatività individuale, e ha eretto il castello che si è sgretolato: adesso nessun altro che voi stessi può decidere dove andrà questo Paese, non potete delegare a nessuno la scelta della direzione della vostra troika. Chi guarda, resistendo all'impulso di ritrarsi spaventato, non può che dichiarare che le scelte che vi si impongono sono difficili e onerose. Ma dovete assumerle e sostenerne il peso, perché dalle vostre scelte dipende il futuro di questo grande Paese.”
Le dimensioni del colosso agrario
Ma se non possono confutare Gogol e Dostoeskij, i miei interlocutori non riescono ad accettare la profezia del secondo, seppure debbano ammettere che l'incertezza del primo sulla meta verso cui corre la patria sia la loro stessa incertezza, e riconoscano che l'angoscia di Dostoeskij sull'eventualità che quella meta sia, ancora, una tragedia, è la loro stessa angoscia.
Su 24.000 ettari il colcos Sarajeva, a Konstantinovska, in provincia di Stavropol, la provincia dove il segretario del Partito Comunista portava, vent'anni fa, il nome di Mikail Serghievich Gorbaciov, produce 4.000 tonnellate di grano, alleva 8.000 bovini, di cui 2.700 vacche da latte dell'antica razza rossa della Steppa, 40.000 montoni Merino, 3.000 suini e 500 cavalli della leggendaria razza con cui la cavalleria cosacca sfidò i timar turchi e i dragoni di Napoleone. Un cospicuo impegno di miglioramento fondiario ha sagomato la pianura ondulata in grandi appezzamenti di 400 ettari, circondati da folti frangivento per ridurre l'erosione, ha realizzato le condotte che portano l'acqua ad una superficie ogni anno maggiore: con il clima semiarido della Steppa, meno di 500 millimetri di pioggia annua, condizione indispensabile per sfruttare la straordinaria fertilità naturale di questa terra.
Le rese di tutte le produzioni costituiscono, secondo i dirigenti, che le confrontano, non irragionevolmente, con quelle degli altri colcos della regione, una serie di primati: 35 quintali per ettaro il grano, 212 l'insilato di mais, che tocca i 400 negli appezzamenti irrigui, 3.350 litri per lattazione, che varcano la soglia dei 5.000 nelle stalle condotte dai responsabili più capaci e solerti. Oltre ad accrescere le rese, come tutti gli organismi agrari d'avanguardia, il colcos Sarajeva è impegnato da anni nell'allestimento di laboratori per la trasformazione dei propri prodotti, una strategia obbligata per accrescere il valore delle derrate, evitando la strozzatura che nell'ex-Unione Sovietica separa dal mercato ogni produzione agraria, quegli organismi di ammasso nei cui depositi deperiscono e si deteriorano gli avari raccolti della generosa terra russa. Negli opifici dell'organismo si conservano, così, angurie e pomodori sotto sale, secondo l'antica tradizione contadina, si sala il pesce degli stagni, si conciano le pelli dei montoni.
Un confronto che è sentenza
Ma se la produttività dei soci-dipendenti della Sarajeva realizza una serie di primati nella cornice dell'agricoltura collettivistica, quei primati si convertono nella prova della catastrofe se misurati con gli standard occidentali: e se la Russia vuole trasformare la sua economia secondo i principi del libero mercato il confronto è inevitabile.
La disfatta è altrettanto irreparabile misurando le produzioni in termini di rese per ettaro, o per capo di bestiame, quanto in termini di produttività per addetto. Ricavare 35 quintali di grano dal suolo che i manuali di agronomia additano come la migliore terra da frumento del Mondo è curioso paradosso, anche considerando che all'eccezionalità del suolo corrisponde una piovosità assai meno propizia. Sulla stessa terra l'irrigazione dovrebbe permettere di ricavare 1.000 quintali di insilato di mais, non i 400 vantati come primato da Victor Marcovich.
Che la Steppa sia più generosa di quanto la facciano apparire le produzioni che ne ottengono i suoi figli, lo ha provato l'esperienza diretta di un grande gruppo italiano, la Tecnimont del gruppo Ferruzzi, che negli anni scorsi concordò con le autorità moscovite un ambizioso progetto di sviluppo agricolo nella regione di Stavropol. La realizzazione del piano, che prevedeva la costruzione di grandi impianti di trasformazione, è sospesa, attualmente, per le incertezze politiche e finanziarie, ma due anni di esperienze condotte dai tecnici italiani hanno dimostrato, mi ha riferito, prima della partenza, Umberto Mangiagalli, direttore del progetto, la possibilità di raddoppiare le rese di tutte le colture. La condizione: l'adozione di procedure agronomiche più aggiornate, l'impiego di mezzi tecnici più efficienti.
Altrettanto inaccettabili i rendimenti che si registrano nelle stalle: 33 quintali di latte per mucca equivalgono alla condanna economica di un allevamento. La Rossa della Steppa non è capace di fare di meglio? Bisogna sostituirla? No, mi informa Victor Marcovich: i registri di stalla testimoniano di animali che hanno superato gli 80 quintali. Partendo dai figli delle campionesse, con la fecondazione artificiale in meno di dieci anni si dovrebbe poter aumentare la media di 10-20 quintali. Quale ostacolo ha impedito di farlo?
In termini di produttività del lavoro lo iato con l'Occidente è ancora più incolmabile: 250 agricoltori americani coltiverebbero agevolmente i 24.000 ettari della Sarajeva; 60 allevatori olandesi accudirebbero senza preoccupazione alle 2.700 mucche, nei tempi morti curando i 3.000 maiali; 20 italiani governerebbero i 5.000 bovini all'ingrasso; 40 neozelandesi i 40.000 Merino; 10 butteri maremmani i 500 cavalli. Aggiungiamo 50 addetti agli ortaggi, una produzione secondaria, e agli stagni. Il totale resta al di sotto dei 450 addetti. Aggiungiamo, ancora, gli operai dell'officina, che provvede alla manutenzione di quasi 200 trattori e mietitrebbie, quelli del piccolo caseificio, del macello e della conceria, i contabili e i tecnici, che, insieme, secondo gli standard occidentali, non dovrebbero superare le 150 persone. Il totale salirebbe a 600 addetti: poco più di un quarto dei soci-dipendenti della Sarajeva.
"E' colpa del ministro"
Sono state le mie osservazioni sulla produttività del colcos a accendere il dibattito che i ripetuti brindisi hanno evitato si trasformasse in alterco. "I vostri campi sono ben squadrati, le macchine curate, anche se durerebbero più a lungo in una rimessa anziché sotto la neve, le stalle sono pulite, i cavalli splendidi, i vostri Merino altrettanto floridi di quelli che pascolano sugli altopiani della Nuova Zelanda -ho riconosciuto a Victor Marcovich-: ma rispetto alle agricolture con cui dovete misurarvi le vostre produzioni sono basse, e impiegano troppa manodopera. Se il vostro, su questa terra, è un colcos modello, non è difficile capire perché l'Unione Sovietica sia stata costretta a importare, negli ultimi vent'anni, quantità astronomiche di derrate dai paesi capitalisti, 15-25 milioni di tonnellate di cereali, ogni anno, dagli Stati Uniti, milioni di tonnellate di burro, latte in polvere e carne dalla Comunità Europea."
L'appunto ha infiammato il mio interlocutore, che lo ha respinto con foga: il colcos, si è accalorato, è un apparato funzionale e produttivo, la Sarajeva è una macchina agricola eccellente, i soci-dipendenti sono solerti e capaci, lui, vanta, è arrivato alla presidenza per competenza, battendo, nello scrutinio segreto, il candidato del Partito. "Se non produciamo quanto potremmo -si infervora- è colpa del Governo, che ci fa mancare macchine e concimi, che non ci rifornisce di sementi al momento necessario, che ritira frumento e carne e li paga con ritardi che dissolvono tutti i nostri piani. E' colpa di Gorbaciov, che quando era segretario a Stavropol non ha fatto nulla di buono per l'agricoltura, e che quando è arrivato a Mosca per l'agricoltura ha fatto ancora meno. Che ci diano i mezzi, e sapremo competere con gli agricoltori occidentali!"
"I mezzi produttivi -ho ribattuto-, gli agricoltori occidentali non li attendono dallo Stato, li acquistano, sul mercato, in correlazione alle proprie esigenze. Se sbagliano, comprando strumenti troppo costosi, o poco efficienti, pagano l'errore col proprio portafoglio. Se l'errore è grave, anziché il portafoglio ricolmo si ritrovano sommersi dalle cambiali, e devono cambiare mestiere. A Constantinoskaja siete più bravi che in altri colcos, ma quanti presidenti e amministratori di colcos sarebbero già stati costretti, in Occidente, a cambiare mestiere? Il Governo ha fornito meno mezzi produttivi a voi perché ha dovuto continuare a darne anche agli inetti, che li hanno sprecati. Se, invece di Mikail Serghievich Gorbaciov, al ministero dell'agricoltura ci fosse stato, negli anni '70, Karl Marx, non avrebbe potuto fare niente di meglio!"
Le mie critiche all'agricoltura collettiva nel colcos che ne rappresenta la realizzazione più efficiente ci hanno condotto al tema della privatizzazione, la radicale svolta imposta da Boris Eltsin, la grande incognita del futuro dell'agricoltura russa. Sulla privatizzazione in tutti i colcos si sono svolti formali referendum: su 2.000 soci-dipendenti, a Serajeva la riforma non ha registrato un solo consenso. Ma la privatizzazione è tema rovente: fautori e avversari concordano nel riconoscere che le forme in cui essa si tradurrà in realtà determineranno la fisionomia della società russa di domani: è stato quel convincimento a condurre il nostro confronto alle incognite della corsa della troika russa al galoppo verso un destino ignoto. Privatizzazione e creazione di un libero mercato sono, però, temi di tale rilievo che ad essi dovremo dedicare una tappa specifica di questo viaggio attraverso il pianeta Russia in turbinosa trasformazione.
TERRA E VITA n. 12, 21 marzo 1992