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XII XIV


XIII



Ritornai con Aldo in albergo, poi lui si congedò. Quindi andai al bar che era ancora aperto per via di due clienti che si erano attardati. Dissi: «Per favore, signor Martucci, mi prepari una camomilla».

«Sì», fece lui, «vedo che anche le celebrità si agitano», e si mise a ridere. Poi riprese: «È agitato o non riesce a dormire?».

«Domani, lo saprà». Lui assentì, quindi mi preparò la camomilla e io andai a dormire. In quel momento non mi accorsi che al bar, fra i vari clienti, c’era anche Leandro.

Una volta entrato in camera, prima di metterci a dormire, mi disse: «Questa sera, mentre eravamo a tavola, ho sentito che domani la festa sarà alle dieci. Sono sicuro che hai in mente qualcosa». «Buonanotte, Leandro. Quanto al resto, lo saprai domani».

L’indomani, a colazione, ero particolarmente allegro. Era venerdì. La prima persona che ruppe il silenzio fu Nina.

«Tra un po’ inizia la festa».

Edoardo interferì.

«Allora, signor Enea, tutto a posto? Voglio dire...».

«Sì», lo interruppi, «stia tranquillo. Quanto a te, Tony, insomma, quando... voglio dire adesso tocca a te».

«Sì, ho capito» mi replicò Tony.

Poi Edoardo riprese:

«Ma perché questa festa è stata anticipata alle dieci?». «Ogni cosa a suo tempo». «Ma allora», proseguì Leandro, «non ci conviene uscire a fare un giretto dopo colazione?».

«Meglio di no! Piuttosto, hai portato la telecamera?».

«No, ma vado subito a prenderla. Prima, però, finiamo di fare colazione».

«Insomma», disse Lisa, «non puoi anticiparci nulla?».

«No».

«Beh», proseguì Leandro, «questa volta sui giornali non c’è molto. Ci sono soltanto un paio di articoli sulle classifiche, delle quali hai parlato nelle precedenti trasmissioni. E poi sono molto brevi».

«A proposito», riprese Tony, «di noi la gente dice che abbiamo buona memoria, ma tu, come fai a ricordarti tutte queste cose, soprattutto per ciò che riguarda le classifiche? Sembra quasi che tu abbia vissuto ascoltando musica tutto il giorno; dove hai trovato tutto quel tempo? Non avrai mica marinato la scuola per attaccarti alla radio o alle cassette?».

«La musica l’ho sempre seguita fin da piccolo. Riguardo ai compiti da svolgere, a volte li saltavo. Cose che si facevano da bambini. Capisci? Per il resto, da bambino facevo le mie birichinate, qualcuna anche alle elementari, poi, alle medie, ho smesso».

«Io invece», riprese Tony, «una volta l’ho fatta davvero bella, quand’ero in seconda media. Nella pausa mattutina, tra le dieci e mezza e le undici meno un quarto, dopo aver fatto merenda, estrassi la sigaretta e l’accendino; me li aveva dati un ragazzo più grande di me, volevo provare anch’io a fumare, come tutti. Seduto al banco avevo acceso la sigaretta. Dopo due o tre boccate riconobbi i passi della mia insegnante di religione, un’insegnante non vedente. Per seguire le lezioni avevo il banco vicino alla cattedra. Feci appena in tempo a spegnerla e a rimetterla in tasca. L’insegnante chiese a più riprese chi avesse fumato. Poi allungò la mano per cercare dove fossi. Nessuno, infatti, aveva risposto. Poi disse: “Tony, puzzi di tabacco! Sei stato tu a fumare! Fuori di qui!”. Le dissi che si sbagliava, ma poi, messo alle strette, dissi che ero stato io, aggiungendo che non era peccato fumare in classe. Lei si arrabbiò ancora di più, anche perché gli altri si erano messi a ridere, e mi sbatté fuori, nonostante io la supplicassi.

Cinque minuti dopo, mentre ero ancora in castigo passò un inserviente che doveva pulire le aule. Mi vide e io gli raccontai sottovoce quanto era accaduto. Lui ci pensò su, poi aprì la porta per pulire e vide che l’ultimo banco in fondo all’aula era libero. Così mi fece sedere e l’insegnante continuò la sua lezione. L’inserviente, naturalmente, aveva pulito le aule la sera prima. La mia insegnante, nella foga di proseguire la lezione, non si è neppure accorta che qualcuno aveva aperto pian piano la porta. Insomma la pulizia delle aule era una scusa bell’e buona e lui mi aveva riportato in aula. Così potei continuare a seguire la lezione».

«Tony! Puzzi di tabacco! Fuori di qui!». A pronunciare quella frase era il signor Bardi che aveva assistito a tutta la conversazione, poi, sorridendo, aggiunse che nel suo albergo il divieto di fumare ancora non esisteva, ma, se così fosse stato, esistevano anche delle sale riservate ai fumatori. Poi ci salutò e se ne andò a sbrigare alcune faccende.

«Non vedo l’ora di iniziare questa festa», disse Francesco. «A proposito», proseguì, «io ho quindici anni e non conosco molto bene Battisti, ma mio padre ha alcuni dischi. Però so suonare La canzone del sole e so anche le parole».

Poi Leandro andò a prendere la telecamera e, poco dopo, anch’io salii in camera mia a prendere telecamera, macchina fotografica e, per finire, la pistola caricata a salve, perfetta imitazione di una pistola vera, che io riuscii a nascondere bene. Stavo per uscire, quando mi ricordai dell’occorrente per fumare.

Tutto andò come previsto. Ecco ciò che avvenne.

Alle dieci meno cinque tutti entrarono nella sala, dove si svolse la festa. Consegnai a Leandro la mia telecamera e la macchina fotografica, ma anche lui aveva l’occorrente per filmare.

«Non ho mai visto una sala così addobbata», disse Laura. Io le replicai che bisognava fare le cose in grande.

«Ma tu», proseguì Leandro, «hai detto che ci sarà una rappresentazione, ma di che cosa?».

«Per la verità è già iniziata».

«Scommetto che l’idea è stata sua» proseguì Edoardo. «Io mantengo sempre le promesse. Vedrà, ci diverti-remo. Dico sul serio». «Quando lo dice lei», continuò Nina. «A proposito, questa mattina, lei è proprio elegante, sa?».

«Grazie, Nina. Mi fa davvero piacere. Qui siamo tra amici, senza nessuna distinzione».

«L’importante è andare d’accordo» proseguì Nina. «Da qualche giorno ho conosciuto Jack e mi sembra una brava persona. Ho notato che venendo qui, ci si trova in un ambiente familiare».

Poi estrassi pipa, tabacco e accendino.

«Ah», intervenne Jack, «ecco il nostro fumatore di pipa. Posso darle una mano? Ecco, così va bene. Non bisogna riempirla troppo. Posso accendergliela io o fa da solo?».

Gli risposi che sapevo arrangiarmi, ma lui insistette. «Ecco, inclini un po’ di più l’accendino. Aspetti, se non si offende, faccio io».

Lo ringraziai, poi dovette riaccenderla di nuovo.

Leandro disse:

«Sai, hai fatto venir voglia di fumare anche a me». E così dicendo arrotolò una cartina. Continuai a fumare ancora un po’, quindi cantai: “Adesso tocca a te”. Tony capì e si mise a fumare. Jack chiese cosa fosse tutto quel fumare. Gli risposi:

«Perché invece di far domande non accende una sigaretta anche lei?». Jack era esitante, poi gli dissi che non potevo prestargli l’accendino perché era scarico. Avevo mentito.

Parve pensarci ancora un po’, poi estrasse il suo, coprendo evidentemente con l’indice la parte su cui erano incise le iniziali di Nina. Quest’ultima fu incuriosita da quel gesto, perché disse:

«Non sapevo che tu avessi problemi alla mano destra. In questi giorni la muovevi bene. Hai un bell’accendino. Ma se non hai problemi alla mano, che motivo hai di impugnarlo in quello strano modo? Dai, fa vedere un po’!». «Io... veramente... ecco vorrei...».

«Che cosa?».

Udii lo scatto metallico dell’accendino, segno evidente che anche lui aveva acceso la sua sigaretta. Lo aveva fatto anche diversi giorni prima, mentre parlava con me.

Poi si arrese.

A questo punto ci fu una scena bizzarra. Nina lo aggredì, mentre, con mia grande soddisfazione, Leandro filmava, tenendo nascosta la telecamera. Gli avevo infatti detto di filmare tutto. «Chi ti ha dato quell’accendino?» gridò. «Tu non sei Edoardo. Come fai ad averlo, tu?».

«Aspetta, Nina, non andartene», rispose lui con timidezza.

«Sì, che me ne vado!».

«Aspetta, Nina, ti prego!».

«Cosa sta succedendo, mamma?» intervenne Edda.

Lei rispose:

«Quest’uomo è un ladro. Quello era l’accendino di tuo padre e non lo avrebbe regalato a nessuno. Qualora avesse saputo che fossi morta, o se si fosse accorto di dover morire lui stesso, lo avrebbe buttato via».

«E io, chi sono? Sono pur sempre sua figlia».

«Ma tuo padre non sa dove sei, anzi, non so nemmeno se sia vivo. Una ragione di più per distruggere quell’accendino».

Poi intervenni.

«Suvvia, non litighiamo! Inoltre, lei non può andarsene da qui, perché ho dato ordine di chiudere tutte le porte».

«Lei stia zitto!», urlò, «lei non sa niente!».

«Lei crede?».

«Ho detto silenzio!».

A questo punto intervenne Tony, mentre in sala ci fu un bel po’ di trambusto.

«Non si può andare avanti così. Ora chiamo i carabinieri».

«Ma sei matto?», dissi con voce un po’ alterata. «Lasciamo le cose come stanno».

«Come, lasciamo le cose come stanno!».

«Dammi retta, Tony, va bene così».

«Ma che cosa ha fatto?», si indignò Jack. «Ci penso io, non si preoccupi. E guardi cosa mi ha combinato».

«Calmati, nonno», disse Francesco.

«Tu non metterti in mezzo».

«Tu sei un ladro», disse Nina. «O tu sei un ladro, o Edoardo è un traditore, la qual cosa sarebbe proprio assurda».

«Nina, questo accendino me l’ha regalato Edoardo, ed ora è mio. Non posso farne ciò che voglio?».

«Ci sono le mie iniziali», insistette lei.

«E con questo? Lascia almeno che ti spieghi».

«Non devi darmi nessuna spiegazione», urlò lei, «ridammi subito quell’accendino; piuttosto che darlo ad altri, me lo tengo io, a meno che non riesca a ritrovare Edoardo».

Intervenni ancora.

«Jack, se io fossi lei, darei immediatamente l’accendino alla signora. Glielo dia, il mondo è pieno di accendini. Glielo dia, ho detto, è un ordine...». «Lei non può ordinarmi proprio niente», urlò, «lei mi ha rovinato tutto, invece di aiutare un infelice come me».

Per un momento, anche Nina si schierò – nonostante tutto – dalla parte di quell’infelice. E rivolta a me disse:

«Lei ormai è con le spalle al muro e non può far nulla».

«Non è vero», dissi. «C’è ancora una cosa che posso fare».

Così dicendo, andai verso Jack, gli slacciai il polsino sinistro, gli tirai su la manica e gli feci stendere il braccio. Nina guardò, parve perplessa, quindi guardò di nuovo, perché su quel braccio vi era una cicatrice che ben conosceva.

Poi, mentre singhiozzava, tentò di dire:

«Ma tu... tu... tu sei...», e non riuscì ad andare avanti, perché si mise a piangere. Lui, molto commosso, disse:

«Sì, Nina, io sono Edoardo. Dimmi almeno che mi riconosci. In questi giorni non mi hai nemmeno riconosciuto. Io invece sì, perché, vedendo tua nipote Agata, in quella profumeria, è stato come rivedere il tuo viso da giovane. Ero sicuro che vedendo quella cicatrice...».

Nina, che evidentemente, si era un po’ ripresa dal pianto e dallo sbalordimento, disse:

«Sì, ti ho riconosciuto dalla cicatrice. Perdonami, ti prego. Sei cambiato di molto come aspetto fisico. Per questo non ti ho riconosciuto. Mi hai raccontato tante cose di te, che ti sei sposato, che hai avuto dei figli e che ti è morta la moglie. Ma io, da quel momento in poi, da quando cioè ti sei sposato, non ho mai avuto tue notizie. Sei scomparso nel nulla. Perché non ti sei fatto più sentire?».

«Non volevo che mia moglie sapesse di te, e che io ero già padre di una bambina. Comunque son passati tanti anni e un giorno, quasi un anno prima che morisse, le ho raccontato tutto. Ho cercato anche di rintracciarti. In particolare, un giorno ero depresso più del solito. In undici mesi ho avuto due lutti. Se, aprendo il cassetto, avessi trovato la pistola, giuro che mi sarei suicidato. Non l’ho trovata. Ho trovato, invece, il tuo accendino, che avevo messo via alcuni anni prima. Poi mandai un’inserzione a Portobello per rintracciarti. Tu, forse, avevi cambiato indirizzo; quando credetti di ricevere una risposta, con la quale sarei stato convocato in trasmissione, Tortora venne arrestato. Per il resto, sai già tutto».

«Ti rendi conto di quel che stai dicendo? Tu ricompari all’improvviso come il padre che non ho mai avuto», disse Edda, in tono nervoso.

«Figlia mia, io ti capisco, hai una reazione normale. Ma, te ne prego, non arrabbiarti con lui, né tanto meno con me».

«Io ho avuto quasi l’impressione di recitare», osservò Tony, terminata la discussione.

«Beh, in un certo senso, ognuno di noi ha recitato. Io, poi, ho fatto in modo che ogni persona non sapesse ciò che faceva l’altra. Ed ora, se permettete, vi racconterò come sono andate le cose. Ad iniziare questa storia, fu proprio Nina».

«Non è andata così», disse Edoardo. «Tutto ebbe inizio quando lei, durante la trasmissione di Biagi, ha parlato del fascismo. Ricorda, cosa le ho raccontato il giorno seguente?».

Lo ricordavo benissimo. Poi Tony riprese a parlare.

«A me sembra di aver recitato, compiendo il gesto di fumare». Gli risposi:

«Anche tu hai avuto una parte importante in questa storia». Poi cominciai a raccontare.

«Ricorda, Nina, quando due giorni fa fummo seduti allo stesso tavolo a pranzo? Lei iniziò con la storia del solco, storia per la quale tutti – diciamo tutta la sala – si mise a ridere».

«A me viene da ridere ancora adesso», disse Nina.

Ripresi:

«Bene, terminato il pranzo, Edoardo mi condusse in un’altra sala fumatori, dove, tra una sigaretta e l’altra, mi raccontò la sua storia. Inizialmente, credetti che volesse soltanto sfogarsi con me, o chiedermi di dargli qualche consiglio. Mi parlò della guerra, di tutto ciò che accadde dopo, mi fece anche toccare la cicatrice sul braccio che lei, Nina, deve aver già visto sin da quell’epoca. Ed è a questo punto che entra in scena il famoso accendino che Edoardo mi fece toccare, facendomi notare le sue iniziali. A partire da quell’accendisigari, la storia cominciò ad interessarmi sul serio. Mi narrò anche che, quando arrivò a Roma, girò parecchi alberghi, inutilmente. Poi entrò in una profumeria, dove, vedendo Agata – ora anche lei qui presente in sala – rivide l’immagine di Nina da giovane.

Quindi si informò circa l’arrivo di Nina, perché l’avrebbe sicuramente riconosciuta. Poco fa, dalla sua voce, abbiamo ascoltato come egli, anni prima, abbia avuto l’intenzione di suicidarsi, cercando quella pistola che non trovò. Quel Ronson con le iniziali fu la sua salvezza.

Quando lei, Nina, arrivò in albergo, lui la riconobbe (nel frattempo, infatti, Edoardo vi aveva trovato alloggio), ma lei non riconobbe lui. Alla fine di quel misterioso racconto, si consigliò con me sul da farsi, adducendo, fra l’altro, che se lui avesse estratto l’accendino, lei lo avrebbe scambiato per un ladro. Dovete sapere, infatti, che Edoardo, non essendo stato riconosciuto da Nina, si faceva chiamare Giacomo, o Jack, come usava spesso; in breve usò il suo nome di battaglia.

Quindi, Nina, ieri lei ha voluto parlare un po’ con me e...». «Ecco perché mi ha fatto quella domanda, chiedendomi cosa avrei fatto nel caso Edoardo fosse ancora vivo».

«Quando le feci quella domanda, io sapevo già tutto, ma poiché questa è una storia un po’ delicata, non ho mai detto niente a nessuno. Al termine del racconto di Edoardo, diedi istruzioni a ciascuno sul da farsi.

Quando stamattina ci siamo messi tutti insieme a fumare, l’ho fatto perché, accendendomi la pipa, avrei fatto venir voglia di fumare anche agli altri. Anche Edoardo avrebbe fumato insieme a noi e, per farlo, sarebbe stato costretto ad estrarre il famoso accendino e ciò che è successo lo avete visto poco fa. Nessuno di voi due doveva sapere ciò che già sapevo. Anche Nina mi raccontò tutta la sua storia. Mi parlò di Edoardo; ognuno di voi mi ha parlato in modo un po’ diverso, ma entrambe le vicende avevano qualcosa in comune: l’accendino. Incredibile! Edoardo cerca una pistola per uccidersi, ma viene salvato da un accendino che Nina gli aveva regalato. Ci sono voluti diversi anni, ma poi, per due strade diverse vi siete ritrovati ed è questa la cosa più importante.

Ora, Edda, ciò che lei deve fare, è abbracciare suo padre e volergli bene. Quel padre che lei non ha mai conosciuto, ora è qui e non aspetta altro. E tu, Agata, anche tu ora sei qui con tuo nonno. Abbi pietà di un povero vecchio, che ora vuole rifarsi una vita con tua nonna, in modo da vivere i suoi ultimi anni in serenità. Forse questi per lui saranno gli anni migliori. Non disprezzarlo, perché il suo pianto era di disperazione».

«Insomma», tagliò corto Leandro, «sembri un giudice o un poliziotto sulle tracce del colpevole».

«Fortunatamente, di colpevoli non ce ne sono», proseguì Lisa.

«Mi scusi, Enea, se prima Edoardo ed io l’abbiamo trattata un po’ bruscamente», intervenne Nina. «Ma adesso, ciò che conta è di aver ritrovato il mio Edoardo. Visto che lui è vedovo e io non mi sono mai unita a nessuno, potremmo anche decidere di sposarci».

Le risposi che ciò sarebbe stato ben fatto e che i rispettivi figli e figliastri, anche se inizialmente scossi, a lungo andare avrebbero accondisceso senz’altro, perché alla fine ciò che contava era la felicità dei rispettivi genitori. «Insomma», disse Lisa, «tutto è bene ciò che finisce bene». «No, Lisa. Anzi, il bello arriva proprio adesso. Leandro mi ha paragonato ad un poliziotto, e come per ogni poli-ziotto che si rispetti...».

Così dicendo estrassi la pistola.

«Non preoccupatevi! Quest’arma è carica, ma è a salve». Poi andai verso Edoardo.

«Ora», dissi, «allunghi il braccio in alto e spari i tre colpi con cui è caricata».

«No, di pistole non voglio sentirne parlare».

«Ha ragione, Edoardo. In un eccesso di entusiasmo le giuro di non averci pensato».

«Bene, allora faccia lei». E così dicendo mi porse l’arma, ma poi la rimisi subito in tasca, perché avevo dimenticato qualcosa.

«Ah», dissi a Edoardo, «per prima cosa, vada a prendere uno dei mazzi di fiori posti sul tavolo e lo consegni alla sua compagna».

Così fece. Poi tutti gridammo all’unisono: «Bacio, bacio, bacio!». E bacio fu! Tra applausi ed urla di acclamazione. Quindi ripresi la rivoltella, avvertendo i presenti che di lì a qualche secondo avrei sparato. Poi, Tony, volendo rendersi utile nel recitare la sua parte urlò:

«Fuoco!».

Quell’esclamazione non era prevista, ma a quel richiamo sparai. Fu in quel momento che le porte si aprirono e la festa iniziò con grande giubilo.

Prima di iniziare a mangiare e bere, io ebbi il tempo di mandare uno squillo sul telefonino di Alberto, lui capì, così che, trascorso qualche minuto da quel segnale, ci furono i fuochi d’artificio, cosa che nessuno si aspettava.

Fu un evento davvero strepitoso, vennero distribuite numerose portate e champagne a volontà, al punto che tutto il personale dell’albergo ne fu sbalordito; alcune persone mi strinsero la mano. I due compagni ritrovati furono molto contenti. Edoardo disse che qualora avessero deciso di sposarsi, sarei stato invitato al loro matrimonio con Leandro e la famiglia Dondi. Gli risposi che non saremmo mancati per una simile occasione.

Avevo creato un po’ di litigio per via dell’accendino, ma, in compenso, avevo unito due famiglie, augurai loro tanta felicità, pur sapendo il normale smarrimento. Poi Francesco mi chiese come avessi fatto a fare amicizia con i suoi nonni, anzi, con il nonno e la sua nuova nonna; anche Agata e Edda erano presenti, così spiegai loro ogni cosa.

Al termine del pranzo, Leandro ci disse che saremmo dovuti uscire subito, per recuperare l’uscita di quel mattino, che, per via della festa, non era avvenuta. Propose anche che quella che lui chiamava la nuova coppia restasse tranquillamente in albergo, perché i due certamente avevano molte cose da raccontarsi e raccontare ai propri cari.

«Neanche per sogno», disse Nina. «Faremo alcuni tavoli a parte, ma poi al termine del pranzo usciremo con voi».

Al nostro gruppo si unì anche Francesco, il quale non aveva mai visto Roma. Fu una gita piuttosto lunga, uscimmo alle due meno un quarto e rientrammo alle sette e dieci. A tal proposito, Leandro disse che, avvisando l’albergo per tempo, ce l’avremmo fatta ugualmente, anche se io avessi avuto fretta per l’intervista. Quante emozioni, quel giorno, e ancora non sapevo che, durante lo svolgimento della festa, erano presenti due giornalisti e fotografi, i quali si erano più o meno informati dei fatti, anche se non in modo completo ed esauriente.

La sera, durante la cena, ascoltammo ancora musica, come del resto ogni volta che ci si ritrovava a tavola. In quel mentre arrivò Tina, quella stessa Clementina che abbiamo incontrato più volte nel corso di questa storia e che, benché si fosse presentata come Tina, preferivo pur sempre chiamarla col suo vero nome.

«Ho alcuni biglietti riservati per lunedì pomeriggio, circa una quindicina; se volete potremmo andare a vedere un programma di operetta umoristica. I biglietti sono gratuiti».

Leandro disse che non se la sentiva. Per la verità non me la sentivo nemmeno io, eppure dissi di sì, non fosse altro che per stare in compagnia. Clementina disse che le piaceva l’opera e che, se Leandro non fosse venuto, mi avrebbe accompagnato lei. Poi, al termine della cena, ci fu la solita routine. Arrivai in Rai giusto in tempo.