Affronti e Confronti/IV
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«Buonasera, signore e signori. Da questa sera, e per alcune puntate, intervisteremo in eurovisione e senza intervalli pubblicitari Enea Galetti, un non vedente di quarant’anni. Buonasera, signor Galetti».
«Buonasera a lei, dottor Biagi, e a tutti i telespettatori».
«Lo scopo di queste puntate è quello di intervistare una persona e metterla a confronto con la realtà di oggi, rispetto a quella di una volta. Enea Galetti ci farà entrare insieme a voi nel mondo dei non vedenti, un mondo buio (o così crediamo), ma la persona intervistata sarà un’ottima guida, che non ci farà inciampare contro gli ostacoli, perché quel mondo che noi immaginiamo buio è, in realtà, molto luminoso, di una luce che noi normodotati non sempre siamo capaci di vedere. Ci accorgeremo che la cecità è un grave disagio, ma con essa si può vivere in modo tranquillo. In molti casi, non sarà possibile guarirla, ma ci si può rendere autonomi, aumentando nel non vedente un grande senso di consapevolezza che non va confuso con l’orgoglio, di cui spesso si sente dire che è peccato: si tratta, piuttosto, di autoconsapevolezza che, nel caso di non vedenti, certo non guasta. Mi scusi se sono sempre io a parlare, ma come persona, più ancora che come giornalista, ho sentito la necessità di dire queste cose che vengono dal profondo del cuore. Ed ora iniziamo.
Come prima domanda, in modo generico, vorrei chiederle cosa si può raccontare in quarant’anni di vita. Cosa ci può dire degli anni che ha vissuto finora? Glielo chiedo perché io ne ho 84».
«La ringrazio, dottor Biagi, soprattutto perché alla sua età si può essere ancora lucidi e saggi: si può, cioè, ancora ragionare, comprendere ed essere compresi dagli altri. Posso risponderle che a quarant’anni, innanzitutto, si è giovani e si può raccontare un pezzo di storia, fatto di tanti avvenimenti.
Si può parlare degli episodi più ricorrenti, ad esempio, durante l’infanzia e l’adolescenza. Ci si può soffermare sui fatti più salienti ed analizzarli da persona adulta; oppure (ma questo non è certamente il mio caso) si può anche dire di aver vissuto inutilmente e che, per scelte sbagliate, sono stati buttati via quarant’anni preziosi del proprio tempo.
Peggio ancora sarebbe il fatto che si è arrivati fino in fondo – magari oltre i novanta – e, tutta la nostra vita è stata gettata via, e che ormai è troppo tardi, soprattutto se, a quell’età, non si può più ragionare. Vi sono, al contrario, persone che pur essendo “molto in là”, oltre ad essere ancora sagge si sentono giovani dentro».
«Mi risulta che lei sia non vedente dalla nascita. La scienza può fare qualcosa nel suo caso? Ha mai sofferto a causa di questo suo malessere? Voglio anzi scusarmi per questa mia domanda, forse un po’ troppo delicata».
«Non c’è neppure bisogno di scusarsi, dottor Biagi, perché questa sua domanda ci consentirà di aprire un discorso delicato ma importante. Alla sua prima domanda le rispondo subito che, attualmente, non esiste alcuna soluzione al mio problema, diagnosticato dagli oculisti che mi hanno visitato come fibroplasia retrolentale, perché la mia retina si è bruciata per un’eccessiva dose di ossigeno in incubatrice.
Io, infatti, sono nato prematuro.
Per quanto riguarda quello che lei chiama “malessere”, posso dire che lo si può considerare tale, che a volte mi ha fatto soffrire, ma solo fino ad un certo punto.
Inizialmente ne ho risentito, perché qualcuno mi diceva insistentemente che dovevo assolutamente riacquistare la vista e che, se la scienza non poteva porvi rimedio, avevo tutto il diritto di rivolgermi al Padre Eterno. Per qualche tempo credetti a ciò che la gente diceva, ma poi mi dissi: “Non devi chiedere a Dio di riacquistare la vista. E se non te la concedesse, cosa farai?”. Così pensai che era meglio chiedergli il dono della fede. Ed ora eccomi qua.
A questo punto, dottor Biagi, occorre entrare nel vivo di quel discorso del quale ho accennato poc’anzi. Occorre dire che io vivo nella massima serenità e che ho imparato a vivere senza il senso della vista. In altre parole ho imparato ad accettare la mia situazione. In realtà posso dire che non mi sono mai scoraggiato più di tanto, in quanto non vedente; ogni persona che nasca non vedente dovrebbe accettare questa situazione ed i casi in cui non viene accettata sono molto rari.
Chi invece non l’accetta (o fa molta fatica ad accettarla), sono coloro i quali hanno perso la vista più tardi. In un certo senso queste persone sono più giustificate, perché hanno bisogno di affrontare questa nuova realtà così sconvolgente. Una cosa molto interessante è che questi individui, nei loro sogni, vedono le immagini, ma quando si svegliano è un vero dramma rientrando nella realtà. Molti di noi – e tra questi ci sono io – sono ciechi assoluti e quindi anche nei sogni si comportano come nella realtà. In breve, il senso della vista, nei nostri sogni, non esiste, come pure non esiste il concetto di immagine, che viene sostituito da quello di immaginazione; per noi, non vedere è più accettabile. Eppure, a volte mi chiedo cosa sarà di me se dovessi ritrovarmi con il dono della vista. Forse – ma non ci giurerei – sarebbe un vero choc».
«Grazie, signor Galetti, lei mi ha dato una risposta molto esauriente. Anzi, credevo si rifiutasse di rispondermi, vista la delicatezza del tema. Ora, dai miei appunti, risulta che lei legge molti libri. Che libri le piace leggere? Ha letto anche qualche mio libro?».
«Sì, esattamente nel 1987 ho letto Mille camere».
«E come l’ha trovato?».
«Interessante».
«Interessante è un po’ poco. Scherzo, signor Galetti. Prosegua pure».
«Dunque, come dice lei, di libri ne ho letti e ne leggo tanti. Soltanto nel 2002 tra libri in Braille e registrati su cassetta, dal 1° gennaio al 31 dicembre ne ho letti 34. Principalmente preferisco i romanzi ed i libri di letteratura classica, ma, naturalmente, vi sono anche molte eccezioni. Non di rado, capita di leggere dei libri di storia, di politica o di opinioni. A quest’ultimo filone, appartiene, ad esempio, La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci. Credo che vi sia anche La forza della ragione, che, attualmente, non mi risulta essere stato trascritto in Braille. Penso che non sia da escludere neppure Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci, uscito appena qualche settimana fa».
«Signor Galetti, nella sua risposta ho sentito parlare di registrazioni su cassetta. Ne deduco che il Braille non sia l’unico sistema che voi non vedenti utilizzate».
«In un certo senso è così. Oltre al Braille, vi sono, appunto, le cassette, per arrivare, infine, alla tecnologia informatica. Questi sistemi, anzi diciamo queste alternative al Braille, hanno una certa importanza nella nostra vita. Va però detto che il Braille è insostituibile, perché è l’unico sistema che può essere esplorato in modo completo con il tatto.
Su questo problema vi sono tra di noi due correnti di pensiero: quella dei conservatori, o “braillisti”, e quella dei progressisti, che della modernità ne fanno un vanto. Io non appartengo a nessuna delle due, mi ritengo una persona possibilista, che accetta cioè entrambe le situazioni. I “braillisti” sostengono che un libro debba essere letto esclusivamente e rigorosamente in Braille e che una voce registrata su nastro non fa altro che leggere al posto di chi non vede, e quindi il non vedente ne resta escluso, perché non legge, ma ascolta e non prende parte attiva alla lettura. In questo caso, la lettura verrebbe impoverita, mentre per chi non vede è importante leggere, in quanto le parole e le punteggiature, nonché gli spazi tra una parola o tra una riga e l’altra, scorrono sotto i nostri polpastrelli consentendoci in questo modo di raggiungere la piena autonomia. Con le cassette, invece, tutto questo non si ottiene.
Io, al contrario, affermo che le cassette, in molte situazioni, si rivelano davvero utili. La lettura non si impoverisce e in molti casi occorre utilizzarle, specialmente laddove il libro che si vuole leggere non esista in Braille. E allora, perché privarsi di quel libro che si può tranquillamente ascoltare, anziché leggere? Ovvero, perché cercare a tutti i costi un libro in Braille quando questo è disponibile solo su nastro e rinunciarvi solo perché un’altra persona legge al posto nostro?».
«Quindi, lei legge i libri in base a ciò che la tecnologia offre. Ciò mi fa pensare che i libri in scrittura Braille non siano sufficienti a soddisfare il vostro bisogno di leggere, in proporzione a ciò che il mercato librario offre a tutti noi».
«Proprio così, dottor Biagi e, per usare una frase fatta di Mike Bongiorno “La risposta è esatta”. Come ha giustamente affermato, non tutti i libri sono disponibili in Braille; sarebbe un’impresa mastodontica e ciò non basterebbe a soddisfare le esigenze di mercato. Trascrivere un libro in Braille significa scrivere e stampare una serie di volumi che, fra l’altro, sono molto ingombranti. Anche il prezzo di acquisto risulta particolarmente elevato e quindi svantaggioso. Vi sono sistemi più veloci per leggere un libro, anche perché, per la sua trascrizione, sono richiesti tempi abbastanza lunghi, tali per cui è molto più probabile che un libro sia disponibile su cassetta o scaricabile da siti internet a noi dedicati, piuttosto che l’uscita di un libro in Braille nell’immediato futuro... In breve, tutti si possono permettere un registratore a cassette, e quasi tutti possono disporre di un computer. Ciò che costa, in quest’ultimo caso, sono i software e le attrezzature costruite appositamente per noi. Fortunatamente, sono previste delle convenzioni che ci elargiscono parte del contributo. Al contrario, alcuni libri in Braille vengono trascritti in tempi abbastanza rapidi.
A titolo di esempio le cito un libro porno, che non ho mancato di leggere. Si intitola Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa P. Un altro esempio riguarda un libro di Giovanni Paolo II Varcare le soglie della speranza, la cui intervista è stata fatta da Vittorio Messori; in questo caso la Biblioteca Italiana per Ciechi di Monza ne ha fatto un gentile omaggio agli utenti che ne avessero fatto richiesta. La qual cosa ho fatto anch’io». «Mi permetta una battuta, signor Galetti. Per quanto riguarda il libro di Melissa P. non hanno perso tempo a trascriverlo e ciò è avvenuto in base alle esigenze di mercato».
«Beh, dottor Biagi, in un certo senso è andata così. Personalmente spero che questa ragazza all’epoca quindicenne non abbia messo in pratica tutto ciò che ha scritto nel libro. Morale a parte, chi non mi dice che ciò sia stato in un certo senso “pompato” per fare audience? Le garantisco, dottor Biagi, che ho letto di tutto, anche cose molto più interessanti. Ho letto, ad esempio, qualche libro di storia. Un libro che mi ha interessato moltissimo si intitola Il sangue dei vinti di Gianpaolo Pansa, dove si racconta della guerra civile avvenuta al termine della seconda guerra mondiale, durante la quale alcuni partigiani hanno “pescato” e ucciso a caso nel mucchio molti fascisti, o sospettati tali».
«A proposito, lei è nato diversi anni dopo il crollo del fascismo. Che percezione ha di quel periodo? Secondo lei, si può parlare di un partito di destra equiparato al fascismo?».
«Ai giorni nostri si fanno molte chiacchiere che spesso si rivelano inutili. Oggi c’è molta libertà in un paese come il nostro, nonostante qualcuno paragoni un partito di destra (come quello che ci governa) al fascismo. Molte voci mi sembrano esagerate e, soprattutto, infondate.
Ora, dottor Biagi, lei mi chiede di spiegare agli ascoltatori il mio pensiero sul fascismo.
Ascolti questo mio racconto, che le fornirà una risposta veritiera a questa sua precisa domanda.
La prima volta che sentii pronunciare il termine “fascista” non avevo ancora compiuto nove anni. Era il 1973 e a pronunciare quella parola fu un mio compagno non vedente. In modo molto vago, seppi che essere fascisti significava imporsi con la violenza. Qualche mese più tardi, chiesi spiegazioni a mio padre, il quale mi disse di non nominare più il fascismo, perché il capo dei fascisti, Benito Mussolini, era un vigliacco.
Poi, nel 1975, seppi da mio padre che i fascisti imponevano come forma di violenza quella di costringere chi vi si opponeva a bere grandi quantità di olio di ricino, altre volte ci davano dentro con il manganello, per non dir di peggio.
Mia madre mi consigliò di chiedere tutte queste cose al direttore dell’Istituto dei Ciechi di Milano, un certo Monsignor V.
Quindi, avvenne che qualche settimana dopo lo incontrai e, non appena mi salutò, gli chiesi: “Monsignore, i miei genitori mi hanno consigliato di chiederle se lei abbia mai bevuto olio di ricino”. Monsignor V. si mise a ridere.
Qui, per inciso, occorre precisare – a proposito delle ideologie politiche dei miei genitori – che mia madre era democristiana e mio padre comunista. A proposito di mio padre, occorre aggiungere alcuni altri particolari. Da giovane, a circa trent’anni, fu ricoverato in un sanatorio, poi si sposò. Aveva conosciuto mia madre, dapprima per corrispondenza, poi la incontrò di persona. Alcuni mesi dopo l’uscita dal sanatorio, si sposò con lei. Mio padre era un uomo intelligente, preciso nelle sue abitudini. Mi voleva molto bene come io a lui. Purtroppo, oltre al vizio di fumarsi ogni giorno più di venti sigarette senza filtro, gli piaceva il vino. A proposito del fumo, possedeva anche una pipa ed un pacchetto di tabacco, ma non gliel’ho mai vista accendere. Le sue idee politiche, come già detto, erano antifasciste. Tra poco, spiegherò per quale motivo abbia voluto fare questo discorso. Poi, nel settembre del 1978 mio padre morì.
Trascorse due settimane, rientrai in collegio, dove frequentai la terza media. Oltre alle varie materie scolastiche, prendevamo anche lezioni di nuoto da un certo professor C., un professore particolarmente burbero e cattivo che io, d’accordo con un mio compagno, avevo soprannominato “il duce”, tanto che questo mio compagno, con l’approssimarsi delle lezioni di nuoto, esclamava: “Allora, domani andrai dal duce?”. Tutti avevano paura di quell’uomo e io, in quell’anno, non misi mai più piede in acqua, grazie ad una tattica che avevo adottato. Anni più tardi, scoprii che la voce austera dell’ex capo fascista, somigliava quasi incredibilmente a quella del professor C. Forse questo discorso risulterà noioso, ma servirà per spiegare tutto quanto.
Ritorniamo, ora, all’inizio di quell’anno scolastico, al 19 settembre del 1978.
L’insegnante di italiano, la professoressa S., ci fece acquistare un libro la cui lettura avvenne in classe; si trattava di L’Agnese va a morire di Renata Viganò.
Il libro narrava la vicenda di Agnese, una donna che, la sera dell’armistizio del 1943, tornando a casa con una cariola carica di panni già lavati, incontra sulla strada un soldato disertore e decide di nasconderlo in casa, dove c’è il marito Palita, un uomo gravemente malato. Purtroppo, però, non si accorge che mentre sta per rincasare, viene spiata in malo modo dalle occhiatacce indiscrete della Minghina, delle sue due figlie e forse anche dell’indifferente marito Augusto. Ora, la Minghina e le sue due figlie erano fasciste. Al contrario, l’Agnese e Palita erano comunisti.
Il mattino seguente, una pattuglia di tedeschi (evidentemente avvertiti dalla sua malvagia vicina di casa) preleva Palita e lo deporterà in Germania. Inutili le suppliche dell’Agnese. Palita morirà mentre sta per arrivare in Germania e lei lo verrà a sapere da un partigiano miracolosamente evaso dal vagone-treno, ammesso che si potesse parlare di vagoni-treno in tempi di guerra, dove la gente veniva stipata al punto da non poter più quasi respirare e morire in modo così atroce durante la deportazione.
Palita, dunque, era morto in settembre, qualche settimana dopo il suo rapimento e l’Agnese verrà a saperlo qualche mese dopo, in prossimità del rigido inverno.
Anche noi leggemmo la pagina della morte di Palita che era autunno inoltrato, quasi vicini all’inverno. Non sto a raccontarle il seguito, ma quel libro racchiudeva in sé alcune circostanze sorprendenti, fermo restando il fatto che la professoressa S. ci insegnò che l’Italia fu liberata dai partigiani e che si doveva loro rispetto e riconoscenza, mentre i fascisti erano villani, tanto che la mia fantasia mi suggerì che se avessi avuto la vista e fossi vissuto a quell’epoca di certo mi sarei arruolato nella Resistenza partigiana.
Ed ora veniamo alle sorprendenti circostanze di quel libro che coincisero con la mia vita.
Anzitutto, come già detto, mio padre era comunista, ma, a differenza di Palita ed Augusto, non fumava la pipa. Mio padre morì il 2 settembre del 1978. Qualche sera prima si offrì di spingere la macchina di un nostro ex vicino di casa. Mia madre lo aveva supplicato di non farlo, ma ogni tentativo fu vano. Anche Palita, con molta probabilità, morì a settembre e, anni prima, a circa trent’anni di età, fu ricoverato in sanatorio, proprio come accadde a mio padre. Naturalmente, la morte di mio padre avvenne in circostanze ben diverse da quella descritta dal libro. Ultimo particolare, quando arrivammo a leggere la scena in cui il partigiano superstite narra all’Agnese la morte del suo caro marito, eravamo quasi a metà novembre. Erano passati poco più di due mesi dalla morte di mio padre e, quasi certamente, anche l’Agnese ne venne a conoscenza in quello stesso periodo. L’uomo in questione, però, precisava all’Agnese che non sapeva dirle in quale località fosse morto, perché era buio e le scritte erano in tedesco ed inoltre il partigiano approfittò del momento in cui il cadavere di Palita veniva brutalmente scaricato dal vagone-merci e gettato a terra sul freddo marciapiede di un’anonima stazione dove qualcuno lo aveva profanato bestemmiandolo e calpestandolo. Né il partigiano superstite seppe dire alla donna se fosse stato e dove sepolto.
A differenza di Palita, mio padre ebbe degna sepoltura, ma ciò che è attinente al libro fu il fatto che l’Agnese non potè vedere morire il marito, come pure né io né mia madre fummo avvertiti della morte di mio padre avvenuta in ospedale alcune ore prima.
Così anch’io, con mia madre, ebbi soltanto qualche idea molto vaga sulle circostanze e sui momenti che precedettero la sua morte, oltre che da qualche particolare emergente dai racconti di alcune persone. Vi sono poi altre differenze tra Palita e mio padre, o meglio, tra lui, l’Agnese ed i miei genitori. Mia madre è abruzzese, mio padre era cremonese, mentre i personaggi in questione erano emiliani. Ho già parlato del fatto che mio padre era comunista; anche Palita e sua moglie lo erano, ma, a differenza di mio padre, Palita non beveva e non aveva figli.
A questo punto il discorso riguardante L’Agnese va a morire può essere – per il momento – concluso. Nel 1979 terminai la terza media, oltre ad una lunga vita vissuta tra le mura del collegio. Fu un anno durante il quale ci insegnarono a odiare Mussolini e Hitler, tant’è che quando gli assistenti mi dicevano che per svegliarmi un po’ di più mi avrebbe fatto bene un po’ di Mussolini, mi sentivo offeso. Tuttavia non nego il fatto che mi sarebbe tanto piaciuto picchiare qualcuno, per il semplice fatto che per buttarmi a terra bastava un pizzicotto e, per offendermi, un’innocente battuta.
Poi proseguii per la mia strada. Quattro anni dopo la fine della terza media, rividi L’Agnese va a morire, trasmesso il 25 aprile del 1983 da Canale Cinque, tanto che chiesi a mia madre di regalarmi il libro, che con pazienza mi lesse in villeggiatura nel periodo estivo. Le mie idee sui partigiani e sui fascisti erano sostanzialmente immutate. Poi, nel 1986 rientrai in istituto (questa volta tornando a casa tutte le sere), per frequentare un corso per centralinisti; ora, mia madre doveva assumersi una nuova responsabilità, quella di accompagnarmi e venirmi a riprendere. Per lei, una simile giornata risultava particolarmente lunga, ma mia madre lo fece senza lamentarsi, pur vivendo nell’attesa di una soluzione migliore. Dopo molte peripezie si riuscì a trovare il signor M., un uomo il cui compito consisteva nell’accompagnare i non vedenti. Scendemmo a patti con lui, mia madre mi avrebbe accompagnato al mattino, mentre lui sarebbe venuto a riprendermi nel pomeriggio per condurmi alla fermata dell’autobus.
Ora, al signor M. piaceva parlare molto e fare molte domande. Era un uomo un po’ strano, ma buono. Ascoltò tutta la mia storia più e più volte. Così emerse il fatto che ero orfano di padre ma, soprattutto, che a mia mamma non veniva riconosciuta alcuna gratificazione morale, se non in rarissimi casi. Saltò fuori che da poco ero andato ad abitare in una casa di 34 metri quadrati, che mia madre ne aveva duramente sofferto e che, nonostante tutto, io mi ci ero abituato, per il solo fatto che ero passato dalla cascina al paese, sia pure in una casa troppo piccola.
“Troppo piccola”, diceva il signor M. Risultò anche che per provvedere ad essere accompagnato quando lui non c’era, avrei dovuto pagarmi un taxi e rimetterci di tasca mia, qualora mia madre non fosse venuta ad accompagnarmi, senza aver diritto a ricevere buoni taxi o rimborsi equivalenti alla spesa eventualmente sostenuta. Non ne avevo alcun diritto poiché non abitavo a Milano; in breve ci doveva pensare il Comune di R. Tutto fu inutile.
Fu a questo punto che il signor M. disse che per me ci voleva il governo fascista. Inorridii.
“Signor M., cosa sta dicendo?”.
Lui mi rispose: “L’unico grande sbaglio di Mussolini è stato quello di allearsi con i Tedeschi e di entrare in guerra al loro fianco. Per il resto ha bonificato i terreni, ha dato a tutti una casa, ha introdotto le ferie e gli assegni familiari, ha dato degli incentivi alle famiglie bisognose, soprattutto a coloro che avevano numerosi figli. Chiedilo pure a tua madre e senti cosa ti risponderà”.
Ne parlai ed ebbi conferma di ciò che mi aveva detto il signor M. Vi fu anche un’altra coincidenza. Proprio in quel periodo il professor L. ci insegnava attualità, storia e usi e costumi. A proposito di storia ci parlò lungamente del fascismo, arricchendo le sue spiegazioni con diversi documentari audio, nei quali, oltre ai commenti e alle canzoni del ventennio, si poteva sentire anche la voce del Duce, che notai non molto diversa da quella del professor C., quello stesso uomo del quale tutti avevamo paura al momento di tuffarci in acqua perché ci maltrattava e del quale ho già parlato chiamandolo “duce”.
Eppure, quando ascoltai la voce di Mussolini ne fui subito attratto, perché dalla potenza della sua voce emergeva la potenza di un uomo. Per alcune settimane insistetti affinché il professor L. mi prestasse le cassette. All’epoca non avevo il duplicatore ma sapevo esattamente a chi darle perché potesse farmene una copia. Inoltre, un altro mio amico mi disse che possedeva alcuni canti del fascio. “Devi duplicarmeli subito”, gli dissi. Avute in consegna quelle cassette, le ascoltai a casa a basso volume.
Ora, nel corridoio del collegio, c’era un radio registratore. In quel corridoio rimanevamo fino al momento di andare in aula. Così inserivo nel registratore le cassette con la voce del Duce e i canti del fascio, avendo cura di mettere al massimo il volume, al solo scopo di fare audience, per capire come la gente avrebbe reagito. Altre volte mi mettevo in uno di quegli stanzini dove c’era una pianola elettrica. Qui, grazie alla mia passione per la musica, imparai in un batter d’occhio le note di alcune canzoni. Le mie preferite erano Giovinezza, Fischia il sasso e Faccetta nera. Ve ne furono anche altre che non sapevo suonare ma delle quali avevo imparato le parole a memoria, come Colonnello, Sole che sorgi, ed una canzone di cui non ricordo il titolo, ma nella quale si parlava dei leoni di Mussolini armati di valor. Anche qui, per quelle canzoni che avevo imparato a suonare, alzavo il volume della pianola lasciando la porta aperta, in modo che tutti potessero udire.
Facevo così per farmi notare da chiunque passasse nei paraggi.
Una sera mia madre notò che, con l’orecchio appoggiato allo stereo, ascoltavo quelle canzoni a basso volume, mi chiese di cosa si trattasse, e io le risposi che non potevo fargliele sentire; poi mi convinse ad alzare il volume, quindi soggiunse che, nonostante tutto, quella era storia e che, quindi, bisognava conoscerla come tale.
Passarono altri anni, durante i quali, di tanto in tanto, ascoltavo quelle canzoni. Poi, nel 1994 rilessi nuovamente L’Agnese va a morire, ma questa volta provai un forte disgusto per ciò che avevano fatto i partigiani. Dissi a me stesso che anche loro ne avevano combinate di tutti i colori, e che molte volte uccidevano persone che non avevano nulla a che fare col fascismo, solo per puro passatempo, o perché qualcuno faceva loro la spia indicandole come fascisti e magari non lo erano. Mi dissi, quindi, che i partigiani erano peggio dei fascisti.
E poi, non va dimenticato che, chiunque avesse voluto ottenere un lavoro o qualche altro beneficio doveva essere iscritto al partito fascista, anche coloro i quali in seguito sono diventati partigiani.
Sette anni dopo la rilettura di quel libro (eravamo ormai nel 2001), lo rilessi senza cambiare idea. Anzi, questa volta ci fu un cambiamento radicale nelle mie idee politiche.
Ecco come andarono le cose. Nel 1982 compii 18 anni, diventando maggiorenne. Ricordo che mia madre mi regalò un rasoio elettrico, che feci riparare due anni fa e che oggi – incredibile – funziona ancora benissimo, ma tutto questo non c’entra affatto col discorso che sto per fare.
Quell’anno, dunque, non si parlò di votazioni; se ne parlò, invece, l’anno seguente. Ora, a quell’epoca, l’unico partito che poteva vincere qualsiasi elezione era da sempre la Democrazia Cristiana che di democratico o di cristiano aveva solo il nome. Mi spiego. Ogni partito ha il diritto di governare o di essere nell’opposizione e quindi, a mio avviso, un partito che vince invariabilmente, sempre e in qualunque caso, benché per elezioni popolari, non è degno di essere chiamato democratico. Se poi per cristiano intendiamo il semplice fatto che fosse fondato da un prete, allora siamo sulla strada sbagliata. Io sono credente e praticante, ma i fatti sono i fatti.
Quell’anno – era il 1983 – dovetti affrontare una situazione personale che non riferirò. Mi limiterò solo a dire che la gente di quel partito avrebbe potuto fare molto di più. Devo anche aggiungere che il parroco (un uomo che sapeva il fatto suo e che spesso teneva le sue omelie in modo energico), predicava di votare secondo coscienza cristiana, intendendo o sottintendendo che bisognava votare solo ed esclusivamente quel partito. Guai ad essere comunisti, così malvisti dalla Chiesa perché considerati dei senzadio. E ancora guai a chi votava un qualsiasi altro partito diverso dalla Democrazia Cristiana.
Dissi a me stesso che qualcosa non andava; così decisi di votare per il Pci, del quale la Chiesa parlava e – soprattutto – sparlava malissimo. Quella fu la mia prima votazione.
Un anno dopo ci furono altre elezioni (non ricordo in che ambito) vinte proprio dal Pci, forse perché era da poco morto Berlinguer. Poi, trascorso un’altro anno, votai per la prima volta la Dc. In seguito votai per i comunisti, per la Dc e anche per i Socialisti. In particolare, quando iniziai a lavorare alternai il voto tra Dc e Pci, quest’ultimo perché – così si diceva – difendeva e tutelava gli interessi dei lavoratori.
Poi ci fu tangentopoli, in coincidenza della quale mia madre mi convinse a votare per Aniasi, per il semplice motivo che ricevetti una lettera intestata a me con la propaganda in suo favore.
Nel 1994 votai per la Dc, non ricordo se per Segni o Martinazzoli. Credetti che votare per Berlusconi fosse votare contro il parere della Chiesa e che Berlusconi sarebbe stato come neoeletto un uomo incapace di entrare nella vita politica, e quindi di governare l’Italia.
Ancora altre elezioni nel 1995. Questa volta votai Pds. Un anno dopo votai per Prodi, e così via, fino ad arrivare al 2001.
Qui, devo dire che ci fu una svolta; dapprima ne fui poco convinto, ma poi decisi di votare per Berlusconi. Il motivo? La tribuna elettorale fu disastrosa, gli avversari attaccavano il futuro premier da qualunque parte, assillandolo, senza che questi si difendesse come avrebbe dovuto. Così pensai che tutta quella propaganda fosse stata appositamente architettata dagli anti-berlusconiani.
In quel periodo, nell’ufficio in cui lavoro, vi furono numerose discussioni tra una mia collega di sinistra ed un tecnico, un berlusconiano a tutti gli effetti. Una volta, la mia collega gli chiese se in tutto il Novecento ci fosse stato un pensatore o intellettuale di destra che avesse fatto qualcosa di giusto, come invece avevano fatto quelli di sinistra. Lui non ebbe neppure il tempo di rispondere perché in quel momento le dissi: “Sì, Mussolini”. Anche il tecnico rimase perplesso per la mia risposta. In ogni caso, qualche mese dopo iniziò la campagna elettorale e, visto come andavano le cose, decisi che gli attacchi unilaterali erano sbagliati. Fu in questo modo che decisi di dare il voto a Forza Italia per la prima volta, giurando a me stesso che non avrei mai più votato per le sinistre. Ritengo inoltre sbagliata la tendenza a paragonare la destra al fascismo. Di quel periodo storico, una cosa è sicura, Mussolini fece l’errore grave di farsi trascinare in una pericolosa alleanza con i Tedeschi, e di seguirli fino al termine della guerra, che fin dall’inizio era chiaro avrebbe perso inesorabilmente.
Ora io mi chiedo chi lo abbia ucciso, perché a distanza di sessant’anni sono venuti fuori nomi diversi e la storia di quegli eventi è stata manipolata a piacere. C’è anche da chiedersi cosa venne fuori dall’autopsia, se la Petacci fosse stata uccisa solo per essere stata la sua amante, se l’ex Duce non pensasse ad una resa con gli Alleati, consegnandosi a loro, in modo da non farsi prendere dai partigiani che, di sicuro, lo avrebbero ammazzato, se abbia avuto una gran paura e se, infine, sia morto da vero eroe della patria e il consegnarsi a gente straniera equivalesse ad un tradimento verso la nostra nazione. Per farla breve, chissà se il Duce sapeva di morire!
Una cosa è certa. Vittorio Emanuele III abbandonò l’Italia come traditore, il figlio Umberto II governò l’Italia come reggente alla corona solo per un mese. Poi il popolo repubblicano vinse, anche se con poca differenza di voti su quello monarchico, ed il probabile futuro Re dovette pagare con l’esilio la colpa di suo padre. Esilio che, come sappiamo, si è concluso da poco. I figli di Umberto II erano ancora piccoli, non erano in grado di comprendere quella triste realtà. Poi Vittorio Emanuele junior (lo chiamerò così perché non venga confuso con suo nonno) commise un abominevole delitto, e questo fu solo il primo di tanti episodi. I successivi non furono delitti contro persone, come fu invece per l’omicidio del giovane velista tedesco Dick Hammer. Tali episodi furono comunque abominevoli e non fecero che prolungare quell’esilio. Così, anche Emanuele Filiberto, figlio di Vittorio Emanuele junior, dovette pagare per gli errori fatti dal bisnonno, insieme agli altri.
A questo punto, dottor Biagi, facciamo ancora un ulteriore passo indietro e più precisamente al 29 luglio 1900, giorno in cui l’anarchico Gaetano Bresci uccise Umberto I. A tal proposito occorre fare una valutazione storica, nonché l’aggiustamento per approssimazione di qualche calcolo che ci consentirà di tirare le somme sulla vita di Bresci. Ebbene, fu proprio il Bresci a cambiare il destino della storia, fino ad arrivare al referendum che decretò la fine della monarchia. Umberto I era padre di Vittorio Emanuele III. Il futuro Re governò fino al 1946. Durante il suo regno vi fu la nostra prima entrata in guerra nel 1915, poi una profonda crisi di governo nell’immediato dopoguerra, fino alla nomina di Mussolini, quindi venne la dittatura, poi arrivò Hitler ed il resto venne di conseguenza.
Vediamo ora di leggere la storia in un altro senso. Umberto I fu ucciso per i motti del 1898, quando il Re diede ordine al generale Bava Beccaris di far fuoco sulla folla che protestava contro il prezzo del pane. Al momento della sua uccisione Umberto I aveva 56 anni, e quindi, se ciò non fosse avvenuto, avrebbe campato ancora un bel po’, forse avrebbe impedito che entrassimo in guerra nel 1915, quindi non avrebbe consentito al potere fascista di creare un regime di dittatura. Ipotizzando che fosse morto a ottant’anni, avrebbe impedito la dittatura, il delitto Matteotti ed altri episodi accaduti in seguito. Il trono sarebbe passato in ogni caso al figlio Vittorio Emanuele III, il quale, pur impedendo ad Umberto II di immischiarsi nella vita politica, non avrebbe mai dato poteri a Mussolini, e non ci sarebbero state alleanze con i Tedeschi.
Al contrario, se Bresci, a sua volta, non fosse stato ucciso in prigione nel 1901, avrebbe passato un bel pezzo della sua vita a marcire in carcere. All’epoca dell’uccisione di Re Umberto, il Bresci aveva 31 anni. Quindi, si sarebbero susseguiti gli avvenimenti che ormai conosciamo. Mussolini, con la testa altrove, non si sarebbe minimamente preoccupato del Bresci; ci avrebbe invece pensato la repubblica a liberarlo nel 1946, quando Bresci avrebbe compiuto 77 anni. Ormai l’ergastolano sarebbe uscito incapace di commettere altri delitti, le ragioni che lo avrebbero fatto marcire in cella per tutta la vita sarebbero state insensate, vista la fine della dittatura». «Bene, signor Galetti, con questo lungo intervento concludiamo la nostra trasmissione, che si è rivelata molto interessante e che vi invitiamo a seguire ogni sera sempre alla stessa ora. Domani Enea Galetti sarà ancora qui con noi, ad affrontare altri nuovi argomenti attraverso i quali speriamo possa sorprenderci con qualche altra incredibile affermazione, il tutto fino a martedì prossimo. Arrivederci e buonanotte, alla prossima». «Arrivederla, dottor Biagi».
Così dicendo mi fece accompagnare da un suo assistente fino al pianterreno. Erano circa le ventitre e cinque minuti. Quindi, al pianterreno trovai Aldo, il quale, mentre salii sul taxi, mi disse: «Dovrò darti del lei, in fondo, grazie alla tv sei diventato famoso».
«Ma no, mi dia pure del tu».
«La cosa è reciproca».
Intanto mise in moto. Alle 23.19 arrivai in albergo.
«Alla prossima», fece lui, «tanto il mio numero ce l’hai».
«Benissimo, buonanotte, Aldo».
«Anche a te».
Entrando in albergo sulla sinistra, dopo la hall, mi accorsi che c’era il bar. All’epoca non c’era ancora il divieto di fumare, ma l’hotel era attrezzato anche di una sala fumatori supplementare. Nel bar vi erano tre uomini, due dei quali avevano acceso una sigaretta.
«Ha bisogno di essere accompagnato da qualche parte, signore?». «Mi fermo giusto il tempo per un caffè, poi, se lo vorrà, potrà accompagnarmi all’ascensore». «D’accordo, glielo preparo subito; nel frattempo, posso offrirle una sigaretta?».
«Sì, grazie».
Poi mi porse un pacchetto mezzo vuoto e l’accendino, chiedendomi se fossi stato capace di accenderla, quindi mi misi a fumare.
«Vedo che lei tira boccate di fumo, ma non lo aspira».
«Sì, in effetti preferisco la pipa e se aspiro mi viene da tossire, e poi, il sapore del tabacco lo gusto lo stesso». «Lei è stato intervistato da Biagi, vero? Io ero un po’ distratto, perché dovevo badare al bar. Ed ora, eccole il caffè con la bustina di zucchero. Cognac?».
«Ma sì, grazie! Cosa le devo?».
«Per stasera offro io, pagherà la prossima volta».
Qualche minuto dopo, terminata la sigaretta, bevvi il caffè corretto ancora caldo. Poi dissi al signor Martucci (questo era infatti il nome del barista) di accompagnarmi in ascensore. Quindi estrassi la mia sim ed aprii la porta. «Allora, com’è andata?», disse Leandro che, proprio in quel momento, stava per prendere sonno. «Come, non hai guardato l’intervista?».
«Sì, ma volevo un tuo parere».
«È andata benissimo».
«Ti vedevo un po’ emozionato».
«Sì, ma ho cercato di dominarmi. Dopo tutto bisogna abituarsi».
Dicendo questo mi spogliai per indossare il pigiama, quindi mi misi sotto le coperte, dove mi rigirai più volte per circa mezz’ora prima di addormentarmi. Erano le 23.42 quando mi misi a letto, poi alle 0.15, trovata la mia posizione più comoda, mi addormentai, mentre Leandro, come vedremo, aveva il sonno facile ed il risveglio difficile. A lui erano bastati cinque minuti dal momento in cui mi ero coricato e già russava come un bolide, ma ciò non mi diede alcun fastidio.