Abrakadabra/Prologo/V.
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CAPITOLO V.
Rassegna delle idee.
I contadini si inginocchiarono come alla perorazione del Passio, e il curato impartì ad essi la benedizione.
Il sindaco e il farmacista non osarono far repliche.
Tutti gli occhi eran fissi nel signore, aspettando che egli gettasse in mezzo alla quistione una parola decisiva come la spada di Brenno.
Il signore si levò in piedi, e girò intorno una occhiata che fece abbassare tutte le ciglia.
Il medico e i domestici accorsero a lui, come infermieri al primo delirio di un malato.
Regnava nella sala un silenzio solenne. — Abrakadabra! Abrakadabra! Abrakadabra! tuonò la voce del signore.
E portò la mano alla fronte, rimanendo nella attitudine dell’abbarbagliato che invoca dalle tenebre una luce più veritiera.
Ma quella sera l'Abrakadabra non doveva essere l’ultima parola del signore.
Trascorsi pochi minuti, egli ritrasse la mano dalla fronte, e volgendosi ai tre antagonisti in sembiante più calmo:
«Grazie! mille grazie a voi tutti! — esclamò — se la vostra polemica, non mi ha dato l’ultimo verbo della idea, ha però versato molta luce sul caos. Io sento che le acque si separano dalla terra, che l’aria ed il fuoco prendono il loro posto. Fra poco raccoglierò i miei pensieri per ordinarli sotto questo raggio di luce, e forse domani potrò gridare eureka!»
Ciò detto, il signore fece un gesto di congedo, al quale tutti obbedirono. Il medico e i domestici, che parevano esitare, dovettero uscire dalla sala fulminati da un’occhiata inesorabile.
Poichè tutti furono usciti, il signore sedette, appoggiò i gomiti alla tavola, e, raccolta la testa fra le mani, si fece a passare in rassegna le proprie idee, adunandole per ordinarle o respingerle, come farebbe un generale con un esercito di sconfitti.
« — Ragione? forse che tutti non hanno ragione?... e non sarebbe più logico il dire che tutti hanno torto?... Il triangolo è necessario, perfetto. Ciascun lato presenta la medesima superficie. Leggete per diritto, leggete per rovescio, capovolgete — le cifre non si mutano, la figura non si scompone — Abrakadabra! — Perchè adunque tanto strepito di polemiche?.... Acquietamoci una volta! Conveniamo che il moto non viene da noi, che l’uomo è uno strumento, un meccanismo subordinato all’intelligenza mondiale. La regola è stabilita, nè può mutarsi. Tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che tentiamo è perfettamente logico, perchè necessario. Ciò che si chiama errore, contraddizione, inganno, è una necessità sapientissima nell’ordine, nell’armonia universale.
«Perchè si dice progresso?.... Moto è la parola. Se l’umanità progredisse nel meglio; quanto sarebbero da compiangere i nostri antenati, che vissero seimila anni prima di noi! Pure anch’essi lavoravano per la medesima illusione.... e si affannavano in questo moto d’idee e di tentativi che non dà requie allo spirito umano. — Seimila anni di corsa; e dove siamo arrivati?.... — Al punto di partenza. Valeva la pena di mettersi in cammino?....
«Eppure, tutti i giorni si parte, e si corre... Non vi è dunque una meta?... Il farmacista, nel limite delle sue idee politiche, vi dirà che la sua meta è la repubblica universale. Il sindaco non vuol andare così lontano — egli si arresterebbe alla unificazione completa dell’Italia, con un voto di simpatia per le nazionalità oppresse. Tutto ciò può avverarsi. Ma quando il sindaco e il farmacista saranno arrivati?... Da capo, signori! L’umanità non può arrestarsi — bisogna riprendere la corsa, lasciarsi rimorchiare... o farsi stritolare, che è peggio!
«Chi rallenta, chi si fa rimorchiare è moderato — chi si ferma e pretende arrestare, è reazionario. — Convenzioni! Moda! — Quest’ultima parola mi chiarisce l’idea.
«La moda è prepotente; o tosto o tardi, tutti dobbiamo uniformarci al figurino dell’epoca. Gli ultimi che adottarono la coda, appendice delle teste rivoluzionarie di un’epoca liberalissima, furono gli ultimi a tagliarsela. Per averla portata fuori di tempo, il mondo li chiamò reazionarii, e il codinismo passò in proverbio.
«I primi che mettono fuori il figurino di una idea, son chiamati liberali. La moda viene accettata, si propaga, si allarga — a lungo andare, tutti debbono svestire l’abito vecchio, per adottare la nuova foggia. Ma dopo alcuni anni comparisce un altro figurino, un figurino che alla sua volta si chiama progresso, civiltà, democrazia, socialismo, ciò che meglio vi piace. Gli iniziatori della moda precedente, i liberali di un’altra epoca, vorrebbero resistere e persistere. Essi gridano il non possumus del curato, e in rapporto ai nuovi tempi divengono reazionarii.
«Abrakadabra! ibis! redibis! Ciò che ieri era il bene, oggi rappresenta il male; ciò che pei nostri predecessori era la meta, per noi diviene il punto di partenza. Sarebbero dunque, anche il bene ed il male, una illusione del convenzionalismo? Il principio delle nazionalità, che rappresenta il non plus ultra del liberalismo contemporaneo, come dovrà apparire meschino e puerile fra un secolo, quando nel pensiero della comunanza di origine e della fratellanza naturale, l’uomo si dirà cosmopolita; quando le frontiere delle Alpi, dei fiumi e dei mari, scompariranno, insieme ai pregiudizii di razza; e l’umanità, che oggi pone il suo vanto nel suddividersi in cento frazioni nemiche, si riunira tutta per formare una sola famiglia!
«Bene, male!... per disingannarci di codeste distinzioni che non hanno senso, rimontiamo alla origine delle cose, a Dio.
«Dio non è una parola — è una idea innata, congenita all’uomo, trasfusa in tutto il creato. Dio è l’essere, la luce, il moto del pensiero. Dio è la perfezione — tutto che emana da lui è perfetto.
«Orbene, a che discutere il torto e la ragione, il bene ed il male? — parole! Poichè l’universo riflette la perfezione di Dio, le leggi che lo governano e gli atomi che lo compongono debbono considerarsi irriprovevoli. Potete voi concepire la perfezione del tutto, escludendo la perfezione delle parti?
«L’uomo, nella sua vanità provvidenziale, facendosi centro della creazione, credette che quest’opera gigantesca e inconcepibile non avesse altro scopo che il di lui individuale vantaggio. Tale è il nostro peccato di origine, la superbia incarnata, da cui si genera il dolore, l’impotente desiderio del meglio.
«Tutto per noi! ecco la strana illusione! — Cerca, prova, rimescola, agita, va, torna, edifica, dissolvi; tutto questo moto, questa operosità incessante dell’uomo non può migliorare di un solo grado la di lui condizione. L’illuso egoista non vuol persuadersi che il suo moto intelligente e appassionato è diretto ad uno scopo più universale, cui è interessata tutta la creazione.
«Se l’umanità potesse raggiungere il meglio a cui tende, allora la sua esistenza diverrebbe un assurdo, il moto cesserebbe, e il mondo intero sarebbe disorganizzato.
«Il vos non vobis è la legge di tutti gli elementi mondiali. — Forse che il sole percorre ogni anno il suo giro indeclinabile a benefizio della propria individualità? Il moto è una legge di sacrifizio per lui come per gli altri pianeti, parimenti subordinati a reciproci rapporti, ad inevitabili dipendenze. Tutto per il cosmos, nulla per noi; ecco la legge di tutte le intelligenze organizzate che si agitano nel creato.
«E l’atomo vanitoso che si classifica ragionevole presumerebbe emanciparsi dalla legge universale! Non deridiamo, non insultiamo! Questa pretesa dell’istinto umano costituisce appunto il motore della sua efficienza. Illuso, inconsapevole, l’uomo segue il suo corso di rotazione. Cercando il meglio nell’esclusivo interesse della propria individualità, il suo moto, la sua azione diviene, come quella delle altre intelligenze mondiali, un perpetuo sacrifizio al bene dell’universo.
»Misterioso, imponente, pieno di sublime poesia è questo sacrifizio di tutti per il tutto. Il sole, questa grande intelligenza luminosa, che non può uscire dalle sue rotaje inesorabili, che non può arrestarsi, che non può svestirsi della sua immensa luce, nè temperare gli ardori della sua combustione perenne — la terra che si affatica nel rapido movimento di ogni giorno, roteante fra i nembi e le folgori, sospinta e ribalzata da più potenti pianeti — la belva che ruggisce per fame, il montone che dev’essere divorato, l’augello che canta per dolore, l’uomo che ride per impotenza, la pianta che piange e geme negli sforzi della vegetazione, la materia e l’intelligenza che si accoppiano per dissolversi nella corruzione — tutto ciò che vediamo o immaginiamo, tutto ciò che si nasconde ai nostri sensi, ma si rivela al nostro spirito — tutto rappresenta l’individualità che si sacrifica all’ordine dell’universo.
»Una volta riconosciuta questa legge, una volta stabilita questa fede, che risulta lucidissima ai sensi, tanto che la mente più pregiudicata non oserebbe rinegarla; è egli più possibile di prender sul serio queste miserabili questioni di parole e di formole, le quali non sono che il risultato di un errore vanitoso, per cui l’uomo vorrebbe disconoscere, adempiendola, la propria missione?
»Non fanno pietà queste gare mal definite tra il passato e il presente? queste lotte di principii ugualmente erronei? queste verità dell’oggi che domani si trasmuteranno in menzogne? queste riforme che scaturiscono dall’antico e sono da uomini antichi respinte come nuove? queste sillabe accozzate che vorrebbero dar corpo ad una larva? queste larve che si decompongono e svaniscono il giorno in cui prendono corpo? queste scoperte della scienza che accusano la stoltezza dei nostri predecessori e fra un secolo accuseranno la nostra? questi trovati dell’arte e dell’industria che forniscono un diletto creando mille bisogni? queste rivoluzioni che massacrano le moltitudini per istabilire una idea? queste idee che aspettano di essere accettate e tradotte nell’azione pratica per divenire intollerabili ed esecrate?
»E quanto ardore nelle polemiche! quanto entusiasmo negli assurdi!... qual cecità nelle contraddizioni! — Un dabben farmacista crede di aver inventato il liberalismo perchè osa dire: ammazziamo chi vorrebbe soperchiarci! Questa politica era già nella mente solitaria di Caino, il figliuolo primogenito dell’uomo. Ma la storia è troppo antica — non è meraviglia che il farmacista l’abbia dimenticata.
»E il curato, che pretende egli col suo non possumus? Arrestare il movimento? Uccidere l’idea? — Non ha egli appreso dalla istoria che una idea, antica o nuova non importa, purchè lusinghi questo istintivo desiderio del meglio che è il principio motore della umanità, deve fare il suo cammino, svolgersi e completarsi nella esperienza fino a quando l’esperienza non la riprovi? Non si avvede egli, il buon curato, che il suo non possumus sato al moto delle idee come la zavorra alle navi — invece di sommergere, equilibra ed assicura?
«E il sindaco, ignora egli che le violenze e le stragi sono del pari una necessità del movimento? che, per dar passo alla locomotiva, il ferro e la polvere debbono prepararle il cammino, distruggendo la vegetazione, appianando la montagna, divergendo il torrente?
«Non è questa la istoria inevitabile del movimento umano?... Ma chi bada alla storia? Chi la comprende? L’uomo è sempre nuovo sulla terra. L’esperienza de’ suoi predecessori non è lezione per lui se non in quanto lo ammonisca che essi nulla hanno fatto di bene, che tutto bisogna rifare.
«Oh! se l’uomo potesse leggere l’avvenire! Forse riconoscerebbe la sua vera missione, l’inanità de’ suoi sforzi per migliorare la condizione propria, e la sua divina efficacia nel cooperare all’equilibrio ed allo sviluppo del cosmos! Ove ciò avvenisse, un nobile orgoglio potrebbe egli sostituire alla vanità disillusa dell’io, e dire con più soda convinzione: io sono una leva della intelligenza di Dio — agisco per lui e con lui — tutto che produco è perfetto — e forse, l’atomo perduto nell’universo, compiuto il sacrificio del dolore operoso, si riunirà, si identificherà in quell’Essere Uno, che è la Causa e l’Effetto dei mondi.
«Scriviamo la storia dell’avvenire. Dessa troverà fede più che la storia del passato. Per essa la vanità e la follia si acquieteranno in un concetto filosofico e morale...!
«Per scrivere questa storia, non è mestieri di profonda dottrina, nè di penose investigazioni, nè di lunghi e meditati raffronti. La logica naturale può dettarla. Raccogliamo le idee dei nostri tempi, i principii innovatori che oggi si presentano in germe; seguiamo il loro movimento, il loro sviluppo — completiamo tutte le aspirazioni dell’epoca nostra traducendole in fatti; l’avvenire non avrà più segreti per noi. La nostra istoria potrà ingannarsi nelle date. — Cosa sono le date? — Una divisione convenzionale del tempo indivisibile. Che importa se gli avvenimenti non sieno numerizzati e disposti a rubriche come le cartelle del notaio? Non basta il saperli veri, necessariamente esatti come il prodotto di una addizione, come la logica di un calcolo algebrico?
«Osiamo dunque!... Poichè la definizione mi sfugge; poichè il verbo si rifiuta ad esprimere l’idea — sforziamoci di tradurla in una serie di fatti!
«Che è mai l’Abrakadabra se non il programma, lo scheletro di tutta la istoria umana? Completiamolo — riempiamo le lacune, vestiamolo di muscoli e di nervi! Ch’egli si muova, si agiti, precorra gli spazii dell’avvenire!... Tutti lo riconosceranno, lo comprenderanno, e l’umanità dovrà arrendersi all’evidenza del suo concetto...»