Virginia (Alfieri, 1946)/Atto primo

Atto primo

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Personaggi Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Numitoria, Virginia.

Numit. Che piú t’arresti? Vieni: ai lari nostri

tornar si vuole.
Virg.a   O madre, io mai da questo
foro non passo, che al mio piè ritegno
alto pensier non faccia. È questo il campo
donde si udia giá un dí liberi sensi
tuonar da Icilio mio; muto or lo rende
assoluta possanza. Oh, quanto è in lui
giusto il dolore e l’ira!
Numit.   Oggi, s’ei t’ama,
forse alcun dolce ai tanti amari suoi
mescer potrá.
Virg.a   S’ei m’ama?... Oggi?... Che sento!
Numit. Sí, figlia: al fin tuoi caldi voti ascolta,
ed esaudisce il genitore: ei scrive
dal campo, e affretta le tue nozze ei stesso.
Virg.a Al mio sí lungo sospirar, fia vero,
che il fin pur giunga? Oh quanto or me fai lieta!
Numit. Non men che a te, caro a Virginio ognora
Icilio fu: Romani entrambi; e il sono,
piú che di nome, d’opre. Il pensier tuo
piú altamente locar dato non t’era,
che in cor d’Icilio, mai: né pria ti strinse

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il padre a lui, che a tua beltá non fosse

pari in te la virtú; d’Icilio degna,
pria che d’Icilio sposa, ei ti volea.
Virg.a Tal dunque oggi mi crede? Oh inaspettata
immensa gioja! L’ottener tal sposo
pareami il primo d’ogni ben; ma un bene
maggior d’assai fia il meritarlo.
Numit.   Il merti;
ed ei ti merta solo; ei, che mostrarsi
osa Romano ancor, mentre sta Roma
in reo silenzio attonita vilmente,
e, nel servaggio, libera si crede.
Pari fossero a lui que’ vili illustri,
cui narrar dei grand’avi ognor le imprese
giova, e tradirle! In cor d’Icilio han seggio
virtú, valor, senno, incorrotta fede...
Virg.a Nobil non è, ciò basta; e non venduto
ai tiranni di Roma: indi egli piacque
al mio non guasto core. Accolta io veggo
in sua libera al par che ardita fronte
la maestá del popolo di Roma.
In questi tempi iniqui, ove pur anco
trema chi adula, il suo parlar verace,
l’imperterrito cor, la nobil’ira,
i pregj son, che han me da me divisa.
Plebea, mi vanto esser d’Icilio eguale;
piangerei d’esser nata in nobil cuna,
di lui minor pur troppo.
Numit.   In un col latte
t’imbevvi io l’odio del patrizio nome,
serbalo caro; a lor si dee, che sono,
a seconda dell’aura o lieta, o avversa,
or superbi, ora umíli, e infami sempre.
Virg.a Io smentir mie’ natali? Ah! non sai, madre,
ragion, che in me il magnanim’odio addoppi
Privati miei, finor taciuti, oltraggi

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ti narrerò.

Numit.   Vadasi intanto.
Virg.a   Udrai
a che mi espon questa beltá, che grata
mi è sol per quanto a Icilio piace...


SCENA SECONDA

Virginia, Numitoria, Marco, Schiavi.

Marco   È questa,

sí, la donzella è questa. Alle mie case,
schiavi, presa si tragga: ella è mia serva
nata, qual voi.
Numit.   Che ascolto?... E tu, chi sei,
ch’osi serva appellar romana donna?
Marco Nota è tua fraude, e vana; invan ritorla
cerchi ai dovuti ceppi. Ella a te figlia
non nacque mai, né libera. Di Roma
son cittadino anch’io; ne so le leggi;
le temo, e osservo; e dalle leggi or traggo
di ripigliar ciò, che a me spetta, ardire.
Virg.a Io schiava? Io di te schiava?
Numit.   A me non figlia?
E tu, vil mentitor, sarai di Roma
tu cittadino? Agli atti, ai detti infami,
dei tiranni un satellite ti credo,
ed il peggior. Ma sii qual vogli, apprendi,
che noi siam plebe, e d’incorrotta stirpe;
che a’ rei patrizj ogni delitto e fraude
quí spetta, e a’ lor clienti: in oltre, apprendi,
ch’è padre a lei Virginio; e ch’io consorte
son di Virginio; e ch’ei per Roma in campo
or sotto l'armi suda;... e ch’ei fia troppo
a rintuzzar tua vil baldanza...
Marco   E ch’egli,

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da te ingannato, la mal compra figlia

nata crede di te: né con qual’arte
la non sua prole supponesti a lui,
seppe, né sa. Dove fia d’uopo, addurne
mi udrai le prove. La mia schiava intanto
meco ne venga. Io mentitor non sono,
né di Virginio tremo: all’ombra sacra
securo io sto d’inviolabil legge.
Virg.a Madre, e fia ch’io ti perda? e teco, a un tratto,
e padre, e sposo, e libertá?...
Numit.   Ne attesto
il cielo, e Roma; ell’è mia figlia.
Marco   Indarno
giuri; m’oltraggi indarno. O i servi miei
tosto ella segua; o tratta a forza andranne.
Ad incorrotto tribunal supremo,
se il vuoi tu poscia, ampia ragion son presto
a dar dell’opra mia.
Numit.   D’inermi donne
maggior ti credi; ecco il tuo ardir: ma lieve
pur non saratti usarne forza. Il campo
mal scegliesti all’infamia: il roman foro
quest’è; nol pensi? Or cessa; il popol tutto
a nostre grida accorrerá: fien mille
i difensor di vergine innocente.
Virg.a E se pur nullo difensor sorgesse,
svenarmi quí, pria che menarmi schiava,
carnefici, v’è forza. Io d’alto padre
figlia, certo, son io; mi sento in petto
libera palpitar romana l’alma;
altra l’avrei, ben altra, ove pur nata
d’un vil tuo par schiava piú vil foss’io.
Marco Ripiglierai fra le natíe catene
tosto i pensier servili; in un cangiato
destino e stile avrai. Ma intanto il tempo
scorre in vane contese: or via...

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Numit.   Menarmi

presa dovrete in un con essa.
Virg.a   O madre,
forza non v’ha, che a te mi svelga.
Marco   Indarno. —
Disgiunta sia, strappata dalla falsa
madre la schiava fuggitiva.
Virg.a   O prodi
romani, a me, s’è in voi pietade...
Numit.   O figli
generosi di Marte, al par di voi
romana, al par di voi libera nacque
questa, ch’io stringo al sen materno: a forza
me la torran quest’empj? agli occhi vostri?
A Roma in mezzo? ai sacri templi in faccia?


SCENA TERZA

Icilio, Popolo, Numitoria, Virginia, Marco.

Icilio Qual tumulto? Quai grida? Oh ciel! che veggio?

Virginia!... e a lei...
Virg.a   Deh! vieni...
Numit.   Il ciel ti manda;
corri, affrettati, vola. Alto periglio
sovrasta alla tua sposa.
Virg.a   A te son tolta,
alla madre, ed a me. Costui di schiava
tacciata m’ha.
Icilio   Di schiava! O vil, son queste
le forti imprese tue? Pugnar nel foro
meglio sai tu che in campo? O d’ogni schiavo
schiavo peggior, tu questa vergin’osi
appellar serva?
Marco   Icilio, uso alle risse,
fra le discordie e i torbidi cresciuto,

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ben è dover, che a rinnovar tumulti

onde ognora ti pasci, or tu quest’uno
pretesto afferri. Ma, fin ch’avvi in Roma,
a tuo dispetto, sagrosante leggi,
temer poss’io di te? Questa è mia schiava;
sí, questa; il dico; e a chi provarlo importa,
il proverò. Né tu, cred’io, né quanti
simili a te fremon quí in suon di sdegno,
di me giudici siete.
Icilio   Icilio, e i pochi
simili a lui, qui difensor tremendi
dell’innocenza stanno. — Odi mie voci,
popol di Roma. Io, che finor spergiuro
non sono; io, che l’onor non mai tradito,
né venduto ho; che ignobil sangue vanto,
e nobil cor; me udite; a voi parlo io.
Questa innocente libera donzella
è di Virginio figlia... Ad un tal nome
arder vi veggo giá di splendida ira.
Virginio in campo milita per voi:
mirate or tempi scellerati; intanto
all’onte esposta, ed agli oltraggi, in Roma
riman sua figlia. E chi la oltraggia?... Innanzi
fatti, o Marco; ti mostra... E che? tu tremi? —
Eccolo, a voi ben noto; ultimo schiavo
d’Appio tiranno, e suo ministro primo;
d’Appio, d’ogni virtú mortal nemico;
d’Appio oppressor, duro, feroce, altero,
che libertá v’ha tolto, e, per piú scherno,
vita or vi lascia. — A me promessa è sposa
Virginia, e l’amo. Chi son io, non penso,
che a rimembrarvel abbia: io fui giá vostro
tribun, giá vostro difensor,... ma invano;
che al lusinghiero altrui parlar credeste,
piú che al libero mio: pena ne avemmo
il servaggio comune... Or, che piú dico?

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D’Icilio il braccio, il cor, l’ardir vi è noto,

non men che il nome. — A voi libera chieggo
mia sposa, a voi. Costui non ve la chiede;
schiava la dice, e piglia, e a forza tragge. —
Tra Icilio, e Marco, il mentitor qual sia,
danne sentenza tu, popol di Roma.
Marco Leggi, che a voi, popolo re, voi feste,
sagge, tremende, sacre, infranger primi
or le ardireste voi? No; che di Roma
nol soffriranno i Numi. Allor ch’io falso
richieditor convinto sia, sul capo
mi piombi allor del vostro sdegno il grave
peso intero: ma infin che folli vanti,
e atroci ingiurie, e orribili dispregj
d’autoritá legittima sovrana,
son le ragion che a me si oppongon sole;
al suo signor sottrar l’antica schiava,
qual di voi l’ardirebbe?
Icilio   Io primo; e avrommi
compagni a ciò quanti quí son Romani.
Certo, la iniqua tua richiesta asconde
infame arcano: or, qual ragion ti muova,
chi ’l sa? chi ’l può, chi ’l vuol saper? non io;
sol che non segua abbominando effetto.
Roma, da che dei Dieci è fatta preda,
giá sotto vel di legge assai sofferse
forza, vergogna, e stragi. Uso ad oltraggio
pur finor non son io: chi ’l soffre, il merta.
Schiava non può d’Icilio esser la sposa;...
fosse anco nata schiava. — Ove si vide
legge piú ingiusta mai? Schiavi, nel seno
di libertade? Ed a chi schiavi? al fasto
insultator di chi ci opprime. — I servi
per la plebe non son; per noi, che mani
abbiamo, e cor. — Ma servi a mille a mille,
purché nol sia Virginia, abbia pur Roma. —

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Romani, intanto a me si creda: è questa,

vel giuro io, figlia di Virginio: il volto,
gli atti modesti n’ha, gli alti pensieri,
e i forti sensi. Io l’amo; esser de’ mia;
la perderò cosí?
Popolo   Misero sposo!
Costui, chi sa, chi ’l muova?
Icilio   Oh! ben mi avveggo,
pietá di me sentite; ed io la merto;
vedete: il dí, ch’io mi credea giá in sommo
d’ogni letizia, ecco, travolto in fondo
son d’ogni doglia. Assai nimici ho in Roma;
tutti i nimici vostri; assai possenti,
ma scaltri piú. Chi sa? tormi la sposa,
or che m’han tolto libertá, vorranno.
Mirate ardire! e favole si tesse;
e ne vien questi esecutor... Deh! Roma,
a qual partito sei?... Nobili iniqui,
voi siete i servi quí; voi di catene
carchi dovreste andar; voi, che nel core
fraude, timore, ambiziose avare
voglie albergate; voi, cui sempre rode
mal nata invidia, astio, e livor di nostre
virtú plebee, da voi, non che non use,
non conosciute mai. Maligni, ai lacci
porgon le man, purché sia al doppio avvinta
la plebe: il rio servaggio, il mal di tutti
vonno, pria che con noi goder divisa
la dolce libertade: infami, a cui
la nostra gioja è pianto, il dolor gioja.
Ma i tempi, spero, cangieransi; e forse
n’è presso il dí...
Popolo   Deh; il fosse pur! Ma...
Marco   Cessa;
non piú: tribun di plebe or quí vorresti
rifarti forse? A te, ben so, può solo

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omai giovar sedizíone, e sangue;

ma, tolga il ciel, ch’io mezzo oggi ti sia
a sí nefando effetto. Infra costoro
macchina, spargi il tuo veleno ad arte;
forza null’altra a víolenza io voglio
oppor, che quella delle leggi. Or venga
Virginia d’Appio al tribunal; con essa
la falsa madre: ivi le aspetto; ed ivi,
non urla insane, e tempestose grida,
ma tranquilla ragion giudice udrassi.


SCENA QUARTA

Icilio, Virginia, Numitoria, Popolo.

Icilio Menarla io stesso al tribunal prometto. —

Romani, (ai pochi, ai liberi, ed ai forti
io parlo) avervi al gran giudicio spero
spettatori, e v’invito: ultima lite
fia questa nostra. Ogni marito e padre
saprá, se figli abbia e consorte in Roma.


SCENA QUINTA

Icilio, Numitoria, Virginia.

Numit. Oh rei costumi! Oh iniquitá di tempi!...

Misere madri!...
Virg.a   O sposo, agli occhi tuoi
pregio finor non ebbi altro che il padre;
priva di lui, come ardirò nomarmi
tua sposa?
Icilio   Ognora di Virginio figlia,
d’Icilio sposa, e quel ch’è piú, Romana,
sarai, tel giuro. Al mio destin ti elessi
fida compagna; a me ti estimo io pari

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in virtude. Al mio labro Amor non detta

piú molli sensi; il braccio, il cor daratti
prove d’amor, se d’uopo fia, ben altre. —
Ma, la cagion, che a farti oltraggio spinge
quel vil, sapreste voi?
Virg.a   Ch’egli è, dicevi,
d’Appio tiranno il rio ministro.
Icilio   Schiavo
d’ogni sua voglia egli è...
Virg.a   Nota pur troppo
m’è la cagione dunque. Appio, è gran tempo,
d’iniquo amore arde per me...
Icilio   Che ascolto?...
Oh rabbia!
Numit.   Oh ciel! perduti siamo.
Icilio   Io vivo;
ho un ferro ancor. — Non paventate, o donne,
fin ch’io respiro.
Virg.a   Odi sfrenato ardire.
Or di sedurre, or d’ingannar piú volte
l’onestá mia tentò: lusinghe, preghi,
promesse, doni, anco minacce, e quanto
dell’onestade ai nobili par prezzo,
tutto spiegò. Dissimulai l’atroce
insoffribile ingiuria: in campo il padre
si stava; e udita invan da me l’avrebbe
sola e inerme la madre. — Alfin pur giorno
sorge per me diverso: io son tua sposa,
piú omai non taccio. O de’ Romani primo,
non che l’offesa, or la vendetta è tua.
Rivi di pianto tacita versai;
e al mio dolor pietosa, lagrimava
spesso la madre, e non sapea qual fosse.
Ecco l’orrido arcano. — Appio la fraude
ora, e la forza, all’arti prime aggiunge;
giudice, e parte egli è: ti sarò tolta

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pria d’esser tua: deh! almeno in guisa niuna

ei non m’abbia, che morta.
Icilio   Anzi ch’ei t’abbia,
prima che scorra il sangue tuo, di sangue
Roma inondar si vedrá tutta; il mio,
quel d’ogni prode, verserassi tutto.
Ch’altro è quest’Appio, a chi morir ben vuole,
che un sol, minor di tutti?
Numit.   Appio t’avanza
d’arte pur troppo.
Icilio   Ancor che iniquo e crudo,
di legge il vel serbò finor; presente
fia Roma intera al gran giudizio: ancora
da disperar non è. Quí senno e mano
vuolsi: ma troppo è necessario il padre.
Non lungi è il campo: il richiamarnel tosto
cura mi fia sollecita. Frattanto
andiam; vi sono ai vostri lari io scorta.
Sollievo a voi, tristo, ma il sol ch’io possa
darvi per or, sia la certezza, o donne,
ch’ove a giustizia non rimangan vie,
col brando aprirne una a vendetta io giuro.