Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Capitolo IV

Capitolo IV

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CAPITOLO IV.

[Anno 1846]


Precauzioni prese dall’antorità per prevenire ed attenuare gli effetti dell’atto di amnistia. — II cardinale Vannicelli legato pontificio in Bologna, obbedendo alle istruzioni della segreteria di stato a questo effetto, pubblica un atto che gli attirò lo sdegno e l’esecrazione dei liberali. — Esterrefstti tutti gli altri legati, delegati o governatori delle Provincie non ubbidirono (salvo monsignore Orlandini) alla segreteria di stato. — Le autorità scapitano in considerazione. — Trionfo degli amnistiati. — Squallore e depressione dei gregoriani. — Avvenimenti e disposizioni governative di luglio e agosto 1846. — Nomina del cardinale Gizzi a segretario di stato.


Il papa era contento, contenta la sua corte, i palatini e gli aderenti loro, e contenta pure una parte grandissima dei Romani, vedendo che allo squallore degli ultimi giorni del pontificato gregoriano, ed alla trepidazione dei giorni di sede vacante, sottentrata era la gioia e il tripudio universale. Roma in somma era in festa.

E siccome un po’ la vera gioia, un po’ quella fittizia e il fanatismo, e le arti di partito e di setta, un poMn fine la speculazione intrecciavansi, tu vedevi in un subito e ritratti del Santo Padre, e sonetti, e cantate, e relazioni delle feste, e cravatte, e sciarpe coi colori pontificali, e spinette, e fazzoletti, che dicevansi alla Pio IX, e fiori e trasparenti, e lampioni di carta di ogni forma e colore. Musiche e luminarie sì facevano, mentre vedevansi vetture in continuo moto, sicchè Roma sembrava a nuova vita risorta. Eppure tutto ciò era un inganno nella sua origine primitiva; inganno che doveva portare in seguito amarissimi frutti. Ciò noi vedemmo tutti: ed ora che con mente calma e tranquilla n’è dato di volgere lo sguardo retrospettivo ai tempi decorsi, e alle follie che produssero, ben si [p. 73 modifica]addice al severo stilo della storia di ritrarre e vituperare le circostanze tutte che ne accompagnarono lo svolgimento. E mentre dobbiamo congratularci di appartenere al secolo immortale che fece sparire le distanze, mediante il vapore e il telegrafo elettrico, e che costrinse la natura stessa a riprodurre le opere sue, in grazia della fotografia, dobbiamo piangere a calde lacrime per lo scadimento morale io cui siamo piombati, e che caratterizza pur troppo il secolo in cui viviamo. Ahi trista troppo, ma incontrastabile verità! Le feste e i tripudi del luglio 1846 furono la dichiarazione di guerra, non al papa soltanto, nè al sovrano di un piccolo stato di tre milioni di abitanti, che volevasi esautorare, ma al centro diffonditore dell’umano incivilimento.

E i figli non solo di questa Italia, che andar dovrebbe superba di sostenere il papato, il quale ne forma la sua prima grandezza, ma i figli ingrati pur anco di tutte le altre nazioni che succhiarono un giorno il latte della civiltà da questa Roma (cui ben si addice il nome di eterna), corsero con turpe consiglio a combatterla, squarciando e dilaniando barbaramente così le membra stesse di quella madre amorosa che die loro il latte della civiltà, e ciò in nome della civiltà stessa, che magnificavano a parole, e conculcavan coi fatti.

Che poi le feste, le lodi, le ovazioni a Pio IX fossero per parte di molti una finzione, e un inganno, col’disse chiaramente il Mazzini, nel suo discorso ai Romani del 6 marzo 1849, colle parole seguenti: «Noi siamo stati finora in un periodo di menzogna, nel quale gli uni gridavano evviva a chi non stimavano, perchè credevano di giovarsene, gli altri nascondevan la loro credenza, perche dicevano non essere tempo di rivelarla.1» A queste parole del Mazzini fa eco il Montanelli.

[p. 74 modifica]Ritornando, dopo questo giusto sfogo di sdegno, alla narrazion dei fatti, diremo che siccome le feste, i tripudi, e l’insolito movimento suscitatosi aumentare dovevano la circolazione del danaro, sottentrò alla contentezza ideale (la quale in parte era naturale e spontanea, in parte artificiale e innestata), la contentezza reale figlia deir interesse, perchè artisti, rivenditori, e manuali, trovandovi il loro tornaconto, benedicevano ancor essi a chi, con un semplice atto di perdono, aveva saputo cambiare la faccia delle cose in un istante.

E siccome dalle frutta che ne rampollano giudicasi della qualità della pianta, così dal bene che godevasi si argomentava generalmente, dovere essere una cosa buona la causa che lo aveva prodotto.

Intanto eransi dirette dalla segreteria di stato ai legati, delegati e presidi delle provincie, lettere circolari, portanti la data del 14 luglio, il cui oggetto si era quello di provvedere che il perdono dei passati traviamenti non desse una troppo pericolosa speranza (sono queste le parole della circolare) d’impunità a chi meditasse turbare nuovamente lo stato.

Si uniformò il cardinale Vannicelli legato di Bologna alle ricevute istruzioni della segreteria di stato, sottoscritte dal prelato Santucci, dirigendo alle magistrature comunali della provincia un ordine circolare in data del 21, ove, fra le altre cose, dicevasi, parlando dell’amnistia: «Che se il Santo Padre si è determinato a tale atto di segnalata grazia, anche per rimeritare con un solenne benefizio le espressioni di fedeltà, che d’ogni parte furono umiliato al suo trono, sino dai primi momenti della faustissima di lui esaltazione, esige altresì il beneficio da parte eziandio delle magistrature per grata e doverosa corrispondenza, ch’esse adoprino tutti i mezzi e la influenza del loro potere, allo scopo di prevenire e cooperare a reprimere qualunque attentato alla sicurezza dello stato, e dei pacifici abitanti, invocando, nel caso di simili [p. 75 modifica] disgraziate emergenze, le istruzioni e il potere dell’autorità governativa; sicchè sia dato estirparne subito i primi germi, evitando la propagazione di quei mali, di cui facemmo pur troppo lunga e triste esperienza.»

Queste furono le espressioni della tanto imprecata e maledetta circolare dell’eminentissimo Vannicelli; circolare che non fu spontanea, ma venne imposta dall’autorità superiore, e ohe provocò un subbuglio immenso nella provincia, attirando sul cardinale disistima non solo, ma odio ed esecrazione.

Nè a parole soltanto proruppero le ire e gli sdegni; ma uno scritto, quanto mai villano e oltraggioso, clandestinamente si diffuse per Bologna, coll’intendimento di denigrare la riputazione del cardinale. Esso terminava cosi:

«Sappiate pertanto, che quell’amore che ciecamente il buon popolo bolognese vi aveva nudrito, è del tutto morto, annichilito; ohe tutti hanno visto, a traverso la larva che vi ricuopre, che a nulla valgono le melate proclamazioni, ohe d’ora in ora, senza alcun bisogno, e quasi mendicando favore, andate promulgando! Non è più tempo d’infingersi. Nulla omai più vi resta, che di porvi allo schermo di que’ mostri ohe in addietro vi furon sgabello, e di continuo vi stanno a’ fianchi, e seggono alle vostre mense, posoiachè, invece dell’affezione di un popolo intero, schietto e cordiale, qual’è il popolo di Bologna, ne preferiste invece l’odio suo, la sua esecrazione.»

L’operato però del cardinale lungi dal provocare disapprovazione, fu anzi encomiato dal nuovo segretario di stato cardinale Gizzi, con un suo dispaccio dell3 agosto 1846., ove rinvengonsi le parole seguenti:

«Prendo motivo dal venerato dispaccio di vostra eminenza dell’8 corrente n. 1487., di sempre più encomiare le cure indefesse da lei adoperate per la cessazione della clamorosa esultanza di codesta popolazione, a motivo del noto perdono.»

[p. 76 modifica]Il procedere pertanto del cardinale legato di Bologna fu consentaneo alle istruzioni della corte di Roma non solo, ma ne ottenne l’approvazione da quello stesso segretario di stato, ch’era in allora in grazia dei progressisti. Pur non ostante, il pessimo effetto prodotto nell’animo dei Bolognesi, ed i clamori che suscitò, furon tali, ed intimorirono siffattamente tutti gli altri legati, delegati, o presidi delle provincie, o le magistrature comunali, o in fine le autorità locali, qualunque si fossero, che, tranne monsignore Orlandini, delegato dì Viterbo, che il 24 di luglio adempiè al dover suo pubblicando una circolare alle magistrature di quella delegazione, tutti gli altri impauriti dalle conseguenze e dalle minacele, se ne astennero. 2 E questi furono i primi frutti di quella libertà che pretendevasi di voler fondare.

Un tentativo male riuscito suole partorire disistima e discredito verso chi provocollo, coraggio e ardimento in quello, o quelli contro i quali era diretto. E difatti, da quel momento, non vi fu più confine veruno nè ai segni più rinvigoriti di esultanza per l’atto famoso del pontefice, nè alle manifestazioni di odio e disprezzo pel partito vilipeso e caduto in esecrazione. Quindi non più potere rimase alle autorità, le quali esterrefatte, da per tutto mollemente blandivano, e ovunque cedevano ai vincitori il mal contrastato terreno.

Tale fu lo stato di Roma e delle provincie in quei primi momenti, che, mentre assumeva apparenza e colore di festa e letizia generale, portava già in sè i germi distruggitori della nascente anarchia.

Lo storico Farini magnifica ed esagera con omiopatica dose di buona fede i tentativi e le mene della setta dei sanfedisti, «per avversare le opere clementi e civlli del nuovo governo, e vilipendere quel nome di Pio IX, che gli altri portavano alle stelle.» Che cosa facesse la setta così detta dei sanfedisti, noi vedemmo; ciò che fecer le [p. 77 modifica]altre di parte avversa, toccammo con mano ed ancora ne risentiamo le tristi conseguenze.

Questo si sappiamo e vedemmo, che ovunque gl’individui aderenti al passato governo, o per prudenza, o per timore si appiattarono nell’oscurità, e ben fecero, perchè lo spirito di vertigine che rapidamente invase le menti, non poteva consigliar loro di agire diversamente. Il contesto dell’atto era troppo sublime, e doveva per necessità riscaldare le menti, massime de’ giovani, e fare effondere in letizia tutti i cuori generosi. E chi in quel momento non lo avesse approvato in cuor suo, stato sarebbe un dissennato, palesandolo apertamente. Noi non sentivamo che grida di lode. Quei cui non garbeggiavano si tacevano, ma niuno sentivasi che parlasse in senso contrario.

Questo svolgimento insolito di affetti ci suggerisce le osservazioni seguenti, provocate dal ragionare che alcuni privatamente facevano in quei tempi.

Che per opinione di molti, ed anche di parecchi cardinali, T atto di amnistia fosse divenuto in quel momento, an atto di politica necessità, non potrebbe contrastarsi. Si voleva iniziare un’era di pace, ed esaltare il papato, col ritornare alla felicità domestica tante famiglie desolate. Il pensiero era umano, cattolico, ed eminentemente sublime; ma non tutti eran d’accordo sul modo di effettuarlo.

Quello scelto era bello e lodevole senza dubbio; ma peccò forse di troppa dolcezza, poichè nella tessitura dell’atto parve ad essi di riconoscere, meno un atto di perdono, che una reintegrazione, o riabilitazione di diritti, quasi che ingiustamente, o troppo rigorosamente fossero stati per lo innanzi trattati coloro, che a fluire del beneficio eran chiamati.

Rinvenivano inoltre nell’atto anzi detto una sublimità e delicatezza tale di modi, per esporre o lenire la natura del delitto, tale una soavità nei concetti e nelle espressioni, che avresti quasi detto, «essere reo chi perdonava, e il perdonato innocente

[p. 78 modifica]Questo dicevano molti uomini esperti nel maneggio degli affari, i quali, fatti cauti e diffidenti dalle ingratitudini, e dalle nequizie degli uomini, temevano, che aperte le dighe, non fosse più a contenersi il torrente, o per Io meno assai arduo e rischioso riuscir dovesse il poterlo padroneggiare. Questo, ripetiamo, era il linguaggio degli uomini più cauti e circospetti, e che in quel momento rapppresentavan la parte dei pessimisti.

Contrapporremo ora ciò che dicevan gli altri che appelleremo gli ottimisti, e che eran quegli spiriti lieti e tranquilli, che del bello, del buono e del magnanimo deliziavansi, e che incapaci di far male, e meno esperti forse delle malvagità umane, non avrebber creduto possibile che si rispondesse colla ingratitudine e col tradimento -a tanta magnanimità. Essi dicevano: sia pure che l’atto in discorso sovrabbondi forse in dolcezza, varrà esso a disarmare gli ostili sentimenti dei perdonati, e sbarbicare del tutto dagli animi loro perfino gli ultimi filamenti, ed i più esili germogli di quella mala pianta che impresero a coltivare, e che è nei voti del pontefice di distruggere radicalmente.

Intanto però il linguaggio soave dell’atto del perdono emanante dal novello pontefice attirò l’abominio e l’esecrazione sul governo di Gregorio XVI e de’ suoi fautori, e conciliò invece tutte le simpatie in favore di coloro che ne avevano esperimentato i rigori. E lo stato di abiezione e di avvilimento in cui caddero repentinamente ì devoti ed i beneficati dal cessato governo, segnò il primo stadio della incipiente rivoluzione.

Le parole sublimi dell’atto del perdono, da tutti e in Roma e nelle provincie lette, ripetute e festeggiate, furono scintilla elettrica, la quale produsse tale un incendio, che a frenarne l’impeto, ben altro vi voleva che poche stille di acqua, e tali sarebbero riuscite le circolari di segreteria di stato, se pure avesser potuto pubblicarsi. E in Bologna ove pubblicaronsi, vedemmo che produssero invece l’effetto [p. 79 modifica]contrario a quello qhe si voleva; sembrò quell’acqua che si usa nelle fucine per rinvigorire maggiormente il fuoco.

Diremo pertanto che in merito all’atto del perdono.

Il pensiero fu lodevole e necessario.

Il modo di esprimerlo non del tutto perfetto.

I risultati disgraziatamente tristissimi.

Ma se per converso vi fosse stata meno malvagità e ingratitudine in molti di coloro che fruirono del beneficio, per valersene contro il beneficatore, quale immenso bene non sarebbe derivato, e per la religione e pel pontificio governo? Come non si sarebbero ammansiti anche gli animi più esasperati, perfino nelle più lontane regioni? Quale trionfo sarebbe stato per la morale pubblica? L’angelo del perdono e dell’amore colle ali dischiuse avrebbe fatto il giro del globo, e signoreggiato sopra la universa umanità.

In proseguimento poi del nostro racconto, dobbiam ricordare, come, coerenti sempre al loro spirito generoso e caritatevole, prestaronsi i Romani a somministrare l’obolo, per sollevare lo stato infelice dei liberati dal carcere, e agevolare loro il ritorno in famiglia. Non vi volle molto per indurli a ciò, perchè trattavasi di opera buona e generosa. Un comitato di specchiatissime persone fu formato all’effetto di dirigere la colletta, e l’erogazione.

Mentre però ci associamo ancor noi in lodare l’opera caritativa, sommamente c’incresce che sia stato tolto ai Romani il merito di aver presa spontaneamente l’iniziativa, anche di quest’atto generoso, stantechè il Montanelli, come narrammo nel capitolo III, racconta di avere esso stesso mandato appositamente persone di sua fiducia in Roma, «onde costituirvi il comitato centrale per ricevere le oblazioni di tutta la nazione.»

Così abbiamo una prova evidente che le dimostrazioni al Santo Padre, le feste nelle città, le sottoscrizioni aperte, la moltiplicità delle stampe, tutto proveniva dalle stesse origini, tutto era segretamente dagli uomini della rivolurione comandato e diretto. Chi amasse conoscere tutte le [p. 80 modifica]particolarità sul comitato, sulle collette, e sulle oblazioni, consulti la Pallade di Filippo Gerardi dell’anno 1846.3

La iniziativa data da Roma alle manifestazioni di pubblica gioia doveva produrre i suoi frutti nelle provincie, le quali gareggiarono in imitarne l’esempio; cosicchè non vi fu città, per grande o piccola che si fosse, ove non si ripetessero presso a poco le stesse feste, gli stessi applausi. Ciò dette luogo alle narrative delle feste, che ovunque pubblicaronsi, e che raccolte in Roma per Clemente Puccinelli, formarono 15 distribuzioni in un volume in-8.

Così terminarono le feste dell’amnistia, che occuparono la seconda metà di luglio, e quasi tutto agosto perchè, terminate le medesime, sottentrarono le narrazioni la eoi lettura teneva occupati tutti gli animi, e così si venne a protrarre con incessanti e replicate sensazioni, l’effetto prodotto dalla pubblicazione dell’atto.

Ma non mancarono i promotori delle dimostrazioni di escogitarne altra più clamorosa o significativa per il giorno 8 del futuro settembre, affinchè la coda delle prime consertandosi col capo delle seconde, non si desse nè tempo, nè tregua alle già esaltate immaginazioni di porsi in calma, perchè in ciò consisteva il segreto dell’abilissimo direttore in siffatte materie Giuseppe Mazzini. Infondere pertanto moto, vita, operosità nei cittadini, organizzare una catena non interrotta di tripudi, erano questi i mezzi stabiliti dal direttore. Il fine poi che volevasi raggiungere era quello di eccitare entusiasmi, avidità di cose nuove e spettacolose, confusione, sbalordimento, ebrietà; di cotale guisa, che la ragione calma e riflessiva non mai potesse subentrare e riguadagnare l’impero sulle menti. Di questa colossale dimostrazione pertanto intratterremo i nostri lettori nel capitolo seguente.

Prima però di far ciò avvertiremo, che poco notevole per atti solenni fu il mese di luglio, nel quale non abbiam da indicare che il concistoro segreto tenuto dal [p. 81 modifica]Santo Padre il 27 per la provvista di tre ohie»e vescovili. Fu in quella occasione che porse i suoi ringraziamenti al sacro collegio, per averlo innalzato al pontificato. Aggiungeremo che il 31 fu notevole per essersi il Santo Padre recato alla chiesa del Gesù, ad onta delle grida antigesuitiche ch’erano già apertamente in corso.4

Nel mese di agosto poi, e precisamente il giorno 8, la popolazione di Roma rimase edificata per la divozione addimostrata da forse cinquanta amnistiati, che recatisi processionalmente nella chiesa di san Pietro in Vincoli ricerettero quivi il pane eucaristico. Si credette allora atto di devozione sincero, e ne furon tutti edificati. In seguito la condotta degli amnistiati eccitò in molti il sospetto d’inganno e d’ipocrisia, e ne furono scandalizzati. Noi però prenderem parte piuttosto, per ispirìto di cristiana carità, con chi lo credette atto sincero. Narrando il fatto, e le opinioni che suscitò, adempiamo al dovere di storico. Quanto alle particolarità possono leggersi in un opuscolo che fu stampato in quel tempo.5

Il giorno stesso poi è ricordevole per la elezione a segretario di stato dell’eminentissimo Gizzi, con soddisfazione di tutta Roma, perchè fin dal 17 di giugno si disse comunemente, «se non papa, si abbia per nuovo segretario di stato;» cosicchè stante la sua definitiva elezione a tale carico, vennero ad adempiersi i pubblici voti.6

Venendo a parlare dei miglioramenti sociali diremo che quanto alle strade ferrate, in favore delle quali cotanto era pronunziata in allora la pubblica opinione, fino dal 14 luglio era stato presentato al Santo Padre il progetto della società principe Conti e compagni.7 E che [p. 82 modifica]il 22 agosto venne creata dal Santo Padre una commissione consultiva per quest’oggetto, per esaminare, discutere e riferire sulle proferte, o progetti che si fossero presentati. Componevasi la commissione dei monsignori

Roberti
Marini
Grassellini
Antonelli, non che del duca di Rignano
D. Mario Massimo.8

Relativamente al progetto del principe cosimo Conti e compagni, progetto che si durerà ora fatica a credere che fosse stato presentato come cosa seria, e da doversi prendere in considerazione, rileveremo essere intendimento dei promotori di provare che qualunque intrapresa, anche la più colossale, fosse agevolmente eseguibile coll’associazione delle minime frazioni, il che teoricamente non può contrastarsi, in quanto che i grandi capitali son composti di frazioni riunite, e le grandi armate di unità di uomini, e potremmo pur dire, lo stesso nostro globo di granellini di sabbia; ma quel venirci a dire sul serio che una intrapresa di venticinque milioni di scudi romani non abbisognava altrimenti di grandi nomi, di grandi capitalisti, e che poteva farla il popolo stesso associandosi soltanto, e compartecipandovi col risparmio per cinque anni di cinque baiocchi e mezzo al giorno per ciascuno, le son cose che possono raccontarsi, ma non credersi si facilmente. E pure tutto ciò esiste stampato in fronte al progetto stesso, il cui titolo per la sua singolarità trascrìviamo, ed è il seguente:


«Progetto Nazionale


»della società principe Conti e compagni per le strade ferrate nello stato pontificio, col quale gli utili si dividono a tutto beneficio del popolo, che può prendervi [p. 83 modifica]parte col risparmio giornaliero di baiocchi cinque e mezzo. Il progetto fu presentato al Santo Padre Pio IX il 14 lugllo 1846.»

» Roma, Tipografia de’ classici sacri. Via Felice, numero 121, 1846.»

Quel dirsi però, nel contesto del Progetto, che gran parte della miseria del popolo, e delle classi meno agiate, proviene dalla distribuzione delle ricchezze, le quali ammassate in poche persone, che non le rifondono colla stessa proporzione, si rendono nell’universale infruttuose e dì danno; quell’aggiungere che da più secoli coloro che avevano i danari, facevano incetta di ogni utile impresa; e quell’incitare i poveri contro i ricchi, i proletari contro i proprietari, e le moltitudini bisognose contro le singolarità fortunate e potenti, non erano al certo cose da lodarsi, ma in quei momenti di frenesia e d’irrefrenabile esaltazione d’idee, lungi dal biasimarle, incontravano il favore del pubblico. Piacevano quelle tenerezze pel popolo, andavano a grado quelle insinuazioncelle di odio ai grandi capitalisti, e sopra tutto quel glorificare che si faceva lo spirito di associazione. L’andazzo del giorno voleva insomma idee sconnesse, per accattivarsi simpatia e favore.

Non sentivasi dunque che parlare ed estollere al cielo il gran progetto, e vantarsi molti nei trivi e pei caffè, che si era fatta la grande scoperta non esservi più bisogno di ricchi e di grandi capitalisti per eseguire le imprese colossali; il popolo, il popolo solo associandosi potea far tutto. Si disse è vero, che il progetto sentiva, anzichè no, di socialismo, ma a quei schifiltosi che così parlavano, si facevan le beffe, si dava loro la baia, e in conto di oscurantisti ritenevansi e proverbiavansi.

E tant’oltre procederon siffatte vociferazioni, che i capitalisti veri, e i capi di quelle società che eransi formate, si ristettero dal farsi innanzi, perchè delitto di lesa nazione sarebbe stato, in quei tempi, l’avversare la società nazionale. Vi è di più.

[p. 84 modifica]Fin dal 1845 una società erasi formata tra il principe Torlonia e l’inglese Jackson, e l’intraprendente di strade ferrate Bonfil coll’intendimento di effettuare la linea di strada ferrata fra Roma e Bologna. Il compromesso fu sottoscritto, ed in assenza del principe anzidetto, il mio amico e compagno Bruni ed io, in nome del principe, fummo i segnatari dell’atto.

Nel 1845 però, regnante Gregorio XVI, il progetto non ottenne favore, ma il pontificato di Pio IX, e le progettate riforme, schiudevan la strada a riprodurlo. Se non che, sentendo gli schiamazzi contro i grandi capitalisti, e le tendenze semi socialistiche, c’imposer silenzio non solo, ma ci spinsero a rompere gli accordi coi Jackson e Bonfil, restituire il deposito di ventimila lire sterline che avevan fatto, e lasciare alla società nazionale il compimento di sì gigantesca intrapresa. La società bolognese ancora, che vantava i nomi di Pizzardi, Mazzacurati e Rossini, si rappiatto ancor essa, e così restaron le cose.

La commissione per tanto eletta dal Santo Padre, come è detto di sopra, non crediamo che avesse molto ad operare, perchè coi progetti immaginari non si fanno le opere colossali; e difatti non fu se non che il 7 novembre che la detta commissione diede segni di vita, come si dirà in appresso, emettendo una notificazione per la costruzione delle strade ferrate, e la indicazione di quelle che si volevano dall’autorità.9

Le intenzioni spiegate dal Santo Padre nei primordi del suo pontificato furono soprammodo benevoli. Tatto inteso a promuovere quei miglioramenti amministrativi, che mantener potessero, e rinvigorire le benedizioni del suo popolo, tutti i reclami ascoltava, alle patite ingiurie, ai danni, alle iatture, ai delitti perpetrati a danno dei privati nel miglior modo provvedeva, ed a tale effetto stabiliva perfino un’udienza pubblica. All’improvviso e senza fasto [p. 85 modifica]recavaai a visitare le scuole notturne, e i conventi; le deputazioni lietamente accoglieva; dei bisogni delle popolazioni che rappresentavano s** informava, e con benevoli parole, con savi consigli, e con larghi sussidi confortava. Le carceri visitava pur anco, e mentre parole di consolazione a tutti prodigava, s’informava pur tuttavia e della qualità e della quantità del vitto, che loro somministravasi , e con severi ammonimenti all’estirpazione degli abusi premurosamente provvedeva. E mentre faceva buon viso ai progetti sulle strade ferrate, e sulla introduzione del gas, pensava alla riforma dei codici, alla pubblica educazione, ed al sollievo delle moltitudini bisognose. Piovevaao gli scritti e i ricorsi da Roma e dalle provincie, e il solo prendere contezza di tutto logorava talmente il suo tempo, da non lasciargli nè tregua, nè riposo.

Noi non crediamo di esagerare asserendo, che mai, o poche volte, si vide sulla sede di san Pietro un papa animato da più rette e pia benevoli intenzioni, di quelle del sommo pontefice Pio IX, gloriosamente regnante, come diremo che poche volte si fece cotanto strazio, dalla malvagità degli uomini, di così rette intenzioni, e si corrispose con più nera ingratitudine alla elargizione di tanti e sì segnalati beneficî. E noi nel progredire di questi scritti, non solo non mancheremo di designare i tratti d’ingratitudine coi quali si ricambiarono le sue sollecitudini, ma avremo il corano eziandio di toccare rispettosamente quegli atti, o condiscendenze, che sembrarono a molti, o di avere favorito, o di aver somministrato pretesti per favorire il movimento, che è quanto dire, aprire l’adito alla rivoluzione.

Coerente a queste benevole disposizioni, volle il Santo Padre, che si spedisse una circolare sottoscritta dal cardinale Gizzi ai capi delle provincie ed alle magistrature locali, all’oggetto importantissimo di proporre provvedimenti per migliorare la educazione civile e religiosa dell’infima classe del popolo.

[p. 86 modifica]Piacque il pensiero, ma non a tutti. Oli esaltati vi rinvennero traccie di animo ostile al progresso, diremo anzi contrario decisamente alla rivoluzione, stante le parole seguenti:

«Questa benefica disposizione, feconda di utili risultamenti sotto i rapporti religiosi, morali, e civili, presenta una prova novella della premura, con cui Sua Santità attende a promuovere il bene reale, positivo, e pratico del suo stato, e de’ suoi amatissimi sudditi. A questo bene saranno sempre dirette le mire di Sua Beatitudine, intimamente persuasa, che dal conseguimento di esso può solo derivare la prosperità de’ suoi popoli, e non già dall’adottare certe teorie, che di loro natura non sono applicabili alla situazione ed alla indole dello stato della chiesa, dall’associarsi a certe tendente, dalle quali la stessa Santità Sua è del tutto aliena; teorie e tendenze che da molti savi vengono disapprovate, e che comprometterebbero manifestamente quella tranquillità interna ed esterna, di cui abbisogna ogni governo che ami di procurare il benessere de’ suoi sudditi.» 10

Un simile linguaggio è troppo chiaro per non sentirne il peso in tutta la sua forza. È il Santo Padre che premunisce contro le massime tendenti a pervertire la gioventù, e chiaramente ammonisce di non approvarle soltanto, ma anzi di abborrirle del tutto.

I savi consigli però non piacevano a coloro cui interessava di far credere tutto il contrario di ciò che diceva la circolare. Ne presero nota però, dissimularono, e feeeiro come suol dirsi orecchie da mercante, desiderosi e decisi com’erano (volendo o no il pontefice) di progredire impavidi nei loro divisamenti.

La circolare anzidetta ci suggerisce subito alcune riflessioni che crediamo di dover qui sottoporre.

[p. 87 modifica]Era informato il pontefice che la rivoluzione, ammantatasi d’ipocrisia, mentre inneggiava a Pio IX, abborriva papa e papato. Voleva il pontefice qualche utile riforma, e qualche miglioramento, compatibile colla organizzazione del governo pontificio, il quale è, e dev’essere, essenzialmente ecclesiastico, e costituire un che sui generis, che chiameremo eccezionale.

Alla rivoluzione per altro poco ciò interessare. Volere essa ben altro dall’acclamato Pio IX, volerlo propugnatore e vindice della indipendenza italiana. Volerne fare un Alessandro III, o un Giulio II, per discacciare il tedesco dal suolo d’Italia. E la sua voce, e il suo braccio, se fosse possibile, volgere a quest’unico intendimento.

Dover esso spuntare i fulmini del Vaticano pei caldeggiatori di queste idee, ritemprarli e forbirli contro il tedesco. Porsi a capo infine della crociata contro il medesimo, costituendo così il Primato d’Italia. Questo voleva il partito in allora più forte perchè agir poteva a visiera alzata seguendo lo schema del famoso Gioberti. Questo partito è vero desiderava di lasciare il papa alla testa. Ma un papa a sua foggia, imbastardito se vuoi, secolarizzato, ammodernato’, e ritraente il mostruoso innesto condannato da Orazio nell’arte poetica.11

Ma l’altro partito, quello cioè degli Unitari repubblicani italiani più ardente ed eccessivo, voleva il papa momentaneamente, onde servirsi del suo appoggio, e della sua voce soltanto, per cacciare il barbaro dal suolo d’Italia. Scacciato poi, esautorare e sbandeggiare il papato, unico inciampo a suo parere alla unione d’Italia.

E così col volere chi una cosa, e chi l’altra, davanci ì riformatori italiani novella prova di quella disunione che è stata sempre il retaggio e la piaga insanabile d’Italia.

[p. 88 modifica]Pio IX d’altra parte, quantunque fosse alieno dall’imitare le geste degli armigeri e bellicosi Alessandro III e Giulio II, non voleva perdere il frutto del già iniziato rappacificamento fra Roma e le provincie, fra i papalini ed i liberali, e quindi non censurava apertamente, ma prudentemente premuniva contro le tendenze degli utopisti, mediante la circolare anzidetta, bastandogli di far comprendere che essi volevan cose, ch’egli non poteva concedere, e ch’egli in somma non poteva andare fin dove gli altri volevano spingerlo.

Ma non credano già i nostri lettori che questi ammonimenti facessero impressione, e producesser frutto. La rivoluzione scaltramente s’era già impossessata dell’indirizzo della opinione pubblica. Si leggeva e commentava ciò ch’essa metteva in evidenza; ma ciò che non si voleva che si divulgasse, poco o nulla si leggeva, poco o nulla si commentava, e cadeva nell’oblio istantaneamente. E della circolare del cardinale Gizzi accadde quello stesso che accadde della notificazione di monsignor Santucci del 19 di luglio. Qual fuoco fatuo apparvero in un momento entrambe, ma subito si fé silenzio, si pose della cenere sopra, ed operossi in guisa, che niuno ne comprendesse il vero valore. Se ne vuole una prova? Si cerchi pure nel Diario di Roma sì l’uno come l’altro atto, e vana sarà la ricerca. Potevano dunque giammai gli esteri, leggendo le cose nostre, rinvenire traccia veruna di quella lotta costante fra la rivoluzione e il potere, di cui in queste carte somministreremo ad ogni istante le prove? Non già. Leggendo gli atti pubblici del governo avresti detto regnare in tutto e fra tutti la più amorevole concordia, essere tutti uniti, volere tutti una cosa sola. Eppure ben altrimenti passavansi le nostre faccende. Era una guerra larvata, stringevansi tutti con apparente amorevolezza la mano, mentre guardavansi in cagnesco, portando nel cuore l’ira, la diffidenza, il sospetto.

Che se pure avesse taluno avvertito che quelle parole [p. 89 modifica]nella circolare significar volevano qualche cosa, tu ti sentivi in un subito rispondere: «Che quelle non erano nè parole, nè sentimenti del papa, sibbene della segreteria di stato, accogliente pur troppo i rampolli superstiti delle idee gregoriane. Essere il papa solo a volere il bene, ma venirne contrariato da chi lo circondava. E volete vedere, aggiungevano, se la cosa è così? Il papa sottoscrive l’atto amorevole dell’amnistia, e la segreteria di stato emana circolari in senso di sfiducia verso le popolazioni. Il papa vede con animo benevolo le prime dimostrazioni romane, e monsignor Santucci prega in suo nome il popolo romano di desistere. Altra circolare si emana dalla segreteria di stato il 24 agosto, ove s’insinuano diffidenze, che non con sta affatto essere nutrite dal Santo Padre. Dunque le idee sue non sono conformi con quelle della segreteria di stato.» E siccome le apparenze erano in favore di chi la ragionava così, queste idee mettevano ogni giorno radici più profonde nel popolo.

Abbiam creduto di premettere queste considerazioni, a dilucidazione di ciò che si dirà in appresso, per ispiegare quell’ambiguo e misterioso procedere sia dell’autorità verso i progressisti, sia di questi verso l’autorità. Se non si porta dentro pian piano la face della critica investigatrìce, non potrassi veder chiaro in tanta oscurità di cose.

Combinossi nel giorno 29 di agosto l’arrivo in Roma, tanto del principe di Joinville, inviato dal re dei Francesi Luigi Filippo suo padre, per complimentare Sua Santità, quanto quello del conte Solaro della Margherita primo ministro e segretario di stato di S. M. il re di Sardegna.12

Tanto il Farini, quanto il Grandoni, che pure con molta diligenza annotavano e trascrivevano le cose meritevoli di ricordo, si astennero dal parlare della venuta del conte Solaro della Margherita, il quale, vuoi per la nobiltà del carattere, vuoi per la prudenza e l’avvedutezza che lo [p. 90 modifica]distinguevano, vuoi infine, per l’alta rappresentanza dì cui era rivestito, ci pare che valesse la pena di parlarne. Quanto al principe di Joinville, il solo Farini, parlando degli onori che in quei primi tempi rendevansì al pontefice, ne racconta colle seguenti parole l’arrivo: «Luigi Filippo, re di Francia, mandava il figlio principe di Joinville a complimentare e congratularsi con lui.»13

Il giorno 2 settembre fu memorando, perchè, mentre si celebrava nella chiesa dell’archiginnasio romano una messa funebre in suffragio dell’anima di Sua Santità papa Gregorio XVI, e l’abate, poi monsignor Palma, ne recitava l’elogio funebre14, solennizzavano i Gesuiti, con una sontuosa accademia di poesia nel collegio romano, il sublime atto del perdono sotto il titolo di Trionfo della clemenza, e ne consegnavan quindi la descrizione alle stampe, in un libro in-16, pei tipi del Monaldi.15

Strana combinazione! In quel giorno in cui nella università romana, che rappresentava il pensiero moderno, si tessevano elogi a Gregorio XVI, considerato come il campione del pensiero antico, in quel giorno stesso dai padri Gesuiti, accusati di rappresentare i rancidumi di quelle idee, lodavasi invece l’atto del perdono, espressione glorificata del pensiero moderno.

Altra combinazione! Quell’abate Palma che lodava Gregorio XVI, divenuto poi monsignore, fu, due anni dopo, ucciso per isbaglio da uno dei ribelli al pontefice, nel momento che affacciavasi alla finestra del palazzo Quirinale. Si disse che fu la rivoluzione, la quale per mezzo di un legionario prese le sue vendette contro chi, lodando, Gregorio XVI, venne a vituperare la rivoluzione stessa ch’era da esso aborrita!16

Il giorno 5 del mese stesso, giacchè si era in tempi di [p. 91 modifica]accademie in poesia ed in musica, il collegio Clementino volle dare la sua cantata in onore del papa novello.17 E cosi, anche il clero, gli Ordini regolari, le scolaresche, ed i cittadini, prendevan parte alla pubblica esultanza.

Ma tempo è ormai che per noi si parli della dimostrazione colossale che erasi preparata per gli 8 di settembre, e che formerà il soggetto del capitolo seguente.








Note

  1. Vedi il discorso di Giuseppe Mazzini nell’Epoca degli 8 marzo 1849, n. 290 pag. 1151
  2. Vedi vol. I, documenti, n. 20. B.
  3. Vedi la Pallade di Filippo Gerardi, in-fog. pag. 82 e 83.
  4. Vedi il Diario di Roma del 1 agosto 1846.
  5. Borgatti, Feste di Roma e Bologna, pag. 14 nel vol. XXXVII, Miscellanee, n. 2. — Vedi Documenti, vol. I, n. 22.
  6. Vedi il Diario di Roma degli 8 agosto 1846. — Vedi una biografia del cardinali fra i Documenti vol. I, n. 45.
  7. Vedi il progetto della società principe Conti in sommario, n. 2, non che il vol. I, Documenti n. 7.
  8. Vedi il Diario di Roma, 22 agosto 1846.
  9. Vedi il Diario di Roma del 9 novembre 1846, e la notificazione del 1 nel vol. I, Atti Ufficiali, n. 5.
  10. «Vedi motu-propri, allocuzioni, circolari ec. vol. I, n. 13; il Contemporaneo del 12 decembre 1816 n. di saggio; la Miscellanea del giorno, pag. 167.»
  11. Humano capiti cervicem pictor equinam
    Jvngere si velit, et varias inducere plumas,
    Undique collatis membris, ut turpiter atrum
    Desinat in piscem mvlier formosa superne;
    Spectatum admissi risum teneatis amici?

  12. Vedi il Diario di Roma del 1 settembre 1846 n. 70, prima pagina; Grandoni, pag. 17.
  13. Vedi Farini, Lo stato romano, Firenze, Le Monnier 1853 voi. I, pag. 166.
  14. Vedi il detto opusc. nel vol. I, dei Documenti, n. 80 A.
  15. Vedi Grandoni, pag. 18.
  16. Vedi il Diario di Roma del 5 e del 15 settembre 1846.
  17. Vedi a vol. I dei Documenti, n. 33.