Sopra le vie del nuovo impero/Meditazione sull'Acropoli

Meditazione sull’Acropoli

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Le tre soluzioni Il mostro a due teste ed i valori morali
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Meditazione sull’Acropoli.


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Atene, Agosto.

Ancora un anno fa ero qui a domandarmi il segreto di questa piccola Atene di cui è pieno il mondo. Il mondo non s’è allargato abbastanza per essa, nè si è abbastanza mutato da quello che era duemil’anni fa, poichè i continenti nuovi non sono meno degli antichi pieni di lei. Che è questo? Qual è il segreto della fortuna straordinaria di questa piccola città, più straordinaria della fortuna stessa d’Alessandro che conquistò due continenti, più straordinaria della fortuna stessa di Roma che conquistò e ordinò tre continenti, più straordinaria della fortuna stessa del popolo ebraico che ci dette una religione, poichè vediamo come anche questa religione si consuma, mentre sentiamo che la religione che ci viene da questa piccola città, è inconsumabile? Perchè il mondo, [p. 204 modifica]tutto il mondo legge ancora, come se fosse la sua storia contemporanea, lo straordinario romanzo che fu composto qui più di duemil’anni fa nel giro di pochi anni, in questa conchetta larga appena una spanna, tra questi monticelli, dinanzi a quella vasca di mare?

Questo perchè sta nella sua bellezza, sta nella sua arte?

Io son tornato anche stasera sull’Acropoli; come l’anno scorso così anche quest’anno ci son tornato quante volte ho potuto; la conosco all’aurora e al tramonto, l’ho vista sorgere dalla prima luce del giorno, sparire nell’ombra della notte; ho percorso palmo a palmo, coi piedi o con gli occhi, le rocce de’ suoi fianchi e la roccia del ripiano; sino a un anno fa avevo desiderato ardentemente di vederla, per tutt’un anno l’ho rivista dentro di me, in questi giorni è ancora la mia meta; non c’è forse ora del giorno della quale non abbia visto la varia luce filare tra le colonne del Partenone. Ho visto attraverso a queste colonne di cui il marmo è diventato oro, tutta la corona che fanno l’Imetto, il Pentelico, il Parnès, Salamina, Egina e il mare colorarsi di tutti i colori dal viola al fuoco. Ho visto questa corona costruita dalle mani della natura e questo gioiello d’oro costruito [p. 205 modifica]dalle mani dell’uomo diventare tutta un’armonia, quell’armonia ellenica che primi e più di tutti i greci gli ateniesi ricercarono dentro se medesimi, nelle cose esterne, nelle loro proprie opere, nelle linee congiuntive tra queste e quelle; quella armonia che fu bellezza e fu sapienza, fu vita e fu l’eutanasia, quella armonia che ognuno di voi, lettori, conosce, di cui è pieno il mondo, che è inestinguibile attraverso i millennii. L’ho vista nascere come si sente nascere un canto. Proprio come un canto esce dalle corde d’un istrumento e spazia finchè ha virtù di spaziare e di salire, così ho visto quella perfetta armonia ellenica d’Atene muoversi dalle colonne del Partenone e irradiarsi per tutto il cerchio de’ monti e del mare e salire dalla roccia sulla quale stavo seduto, sino alla volta del purissimo cielo. Purissima armonia d’Atene! Molte sere quest’anno e l’anno scorso ho fatto come i campagnuoli i quali portano a casa la loro messe. Così io ho portato sull’Acropoli la mia messe ateniese della giornata. E tutte le visioni che avevo raccolto percorrendo la città, m’avevano preparato: la stele funeraria d’Hegeso che è nel Ceramico, la giovinetta che sceglie il gioiello per adornarsi avanti di morire, m’aveva messo in astato di grazia e di perfezione perchè io [p. 206 modifica]capissi la Vittoria che si scioglie il sandalo che è nel museo dell’Acropoli. Così ho potuto vedere quest’altra grazia giovinetta giunta volando, così bene l’ho potuta vedere che mi son compiaciuto che la distruzione del tempo le avesse portata via la faccia, perchè tutto il nostro sentimento si raccolga sul suo corpo, anzi su quel velo dalle innumerevoli pieghe musicato dal volo, che è ciò che l’artista volle esprimere. Chi dirà questa grazia delle cose delicate, questa melodia della grazia dell’armoniosa Atene che non si può raccontare a chi non l’ha vista? Eppure sono uscito dal museo dell’Acropoli e ho visto tutta Atene trasformarsi in questa grazia che è il fiore della sua armonia, delicatezza, leggerezza, melodia di volo. Le colonne del Partenone erano delicate e melodiose come le pieghe di quel velo; la corona dell’Imetto, del Pentelico, del Parnès e del mare era leggiera come una ghirlanda intorno a quelle colonne; il cielo sopra era la gioia, il riso della stessa grazia. Grazia dell’amabile Atene che non si può esprimere se non dicendo che dà quella gioia che manda alle labbra il riso silenzioso. Ma un’altra sera vidi sull’Acropoli addensarsi la tempesta; le rocce de’ suoi fianchi, mentre salivo, m’erano apparse rosse come se fossero arroventate; il Pireo era [p. 207 modifica]schiacciato sotto una foschia, e questa su Salamina era rotta da raggi di sole sanguigni, il mare sotto era di piombo; il Parnès tonava e lampeggiava: quando, intorno al Partenone m’apparve la strage delle colonne, i tamburi, ossa sparse, ammonticchiate. Vidi la distruzione del tempo. Vidi su quella roccia flagellata allora sotto i miei occhi dai lampi la distruzione del ferro e del fuoco nel tempo lontano. C’erano lì, incastrati nelle mura di Temistocle, le colonne, i fregi, altri pezzi de’ più antichi Partenoni; si portavano allora allora sotto i miei occhi in fretta e furia, a furia di braccia; i persiani erano passati col ferro e col fuoco, stavano per tornare; di giù dal teatro, dall’altra parte, Eschilo tonava e lampeggiava. Così m’apparve la tragedia d’Atene, bellezza terribile sull’Acropoli alla cui formazione avevano lavorato e lavoravano unanimi le forze della distruzione e quelle della creazione.

Ma sta in questo soltanto Atene? Sta in ciò che disse? E aggiungo: sta in ciò che fece? Sta nell’aver vinto presso quell’isoletta di Salamina i persiani di Serse che erano tanti e poi tanti che abbeverandosi, come ci racconta Erodoto, prosciugavano i fiumi per i quali passavano? Aggiungo ancora: sta Atene in ciò che patì? In ciò che, per [p. 208 modifica]esempio, patì appunto dalla matta bestialità di Serse e dall’invidia degli altri greci? Sino a poche ore fa non avevo ben afferrato il segreto della storia straordinaria di questa piccola Atene. Anche stasera ero sceso dall’Acropoli domandandomi senza potermi rispondere. Ma sentivo dentro il mio spirito come un groppo che doveva essersi andato formando, lo sentivo, in Italia per gli avvenimenti di quest’anno, per la guerra; un groppo che avevo portato in viaggio sino a Rodi e poi da Rodi a Atene. Sentivo la novità che era avvenuta per noi italiani, e sentivo che Atene aveva qualcosa da dirmi proprio per questa novità. E a un tratto, mentre me n’andavo per una via, mi s’è fatta la luce come si fa la luce. Atene mi ha detto: — Sai tu perchè sono ciò che sono? Per quello che dissi, sì, per quello che feci, sì, per quello che patii, sì; ma soprattutto per il sentimento da cui trassi il mio dire, il mio fare e il mio patire. E il sentimento fu uno: amai immensamente me stessa. — Così m’ha detto Atene. Ed ora, mentre scrivo, vado chiarendomi quanto ciò sia vero.

In verità tutta la storia d’Atene consiste in tre roccette, l’Acropoli, l’Areopago, il Pnice, le quali sono così fra loro vicine e sono così piccole che s’appuntano allungando tre dita. La natura non aveva dato [p. 209 modifica]altro che queste e poche rocce di più: Atene è poche roccette, l’Attica è rocciosa quanto piccola. Tucidide racconta come la sterilità fece la prosperità dell’Attica e d’Atene. «Ma l’Attica conservò sempre gli stessi abitanti, perchè sino dai tempi antichi era impossibile nascessero contese in terreno sì sterile, e valga per prova che la Grecia a causa delle sue mutazioni non crebbe altrove come qui. Perchè i potenti cittadini delle altre parti di essa cacciati dalle guerre e dalle sedizioni si rifugiavano in Atene per via della sua stabilità. E presane la cittadinanza, sin dalla più remota antichità l’accrebbero tanto di popolazione che mancando finalmente lo spazio, bisognò mandare colonie nella Jonia.» Ecco le tre roccette che attirarono la prima popolazione dell’Attica; dall’Acropoli stringo le altre due, l’Areopago e il Pnice: la cittadella e il culto, la giustizia, il popolo. Che sono? Ma gli ateniesi le amarono tanto e per questo le celebrarono tanto che l’Acropoli, l’Areopago, il Pnice diventarono la cittadella e la sede del culto, la sede della giustizia, la sede delle adunanze del popolo per eccellenza. Ecco l’Imetto e il Pentelico. Che sono questi monticelli d’Atene? Non sono più alte e più fiorite e di un disegno più leggiadro le nostre colline natie? Ma gli ateniesi li [p. 210 modifica]amarono tanto e per questo, tanto li celebrarono che con il solo amore e con la sola celebrazione li adornarono di bellezza e li santificarono e ancora, dopo duemila e cinquecento anni, dura la loro bellezza e la loro santità. Ecco lì i due grandi fiumi, l’Ilisso e il Cefiso, due fossatelle così nuove che sembrano scavate da un torrente di questo verno e non hanno più un filo d’acqua! Ma la santità che dette loro Atene per l’amore di quanto era suo, dura ancora, se l’acqua non c’è più. Ecco lì i porti, il Pireo, il Falero, ecco la penisoletta di Munichia, ecco le isole, ecco Salamina della battaglia! Certo quanto gli ateniesi fecero in quella vaschetta, fu eroico, ma non tanto per questo Salamina, non tanto per questo Maratona che è dietro il gomito di quel monticello, sono gli esemplari di tutte le battaglie navali e terrestri, quanto perchè gli ateniesi amarono quelle loro vittorie con tale forza e con tale eloquenza d’amore le celebrarono, che riuscirono a distruggere tutte le lontananze, tutte le diversità, tutte le mutazioni del tempo e dello spazio, sicchè anch’oggi a tutti noi, in qualunque punto della terra civile ci troviamo, Salamina e Maratona sono presenti. Noi sappiamo che da che mondo è mondo, innumerevoli battaglie furon date in terra e in mare, ben maggiori di quelle due, e se [p. 211 modifica]apparteniamo a un popolo che in questo momento guerreggia, enumeriamo anche le nostre battaglie, ma poco ci vuole perchè ripetiamo ancora Salamina e Maratona, per l’amore che Atene ebbe a quanto essa fece e a quanto fu suo. Tale fu quest’amore che seppe diventare, per tutto il genere umano, pari in eternità a una forza operante della natura. Non il fatto, ma questa forza eterna d’amore che sublima e santifica il fatto, adombrata dall’arte, fu la prerogativa di tutti i greci, sia che abitassero all’ombra del Citerone, o dell’Elicona, o del Parnaso, sia che bevessero le acque dell’Alfeo, o dell’Inaco, o dell’Eurota, di tutti i greci d’Asia, d’Europa e delle isole, ma primi gli ateniesi. Certo costoro ebbero il genio con cui s’adornarono e splendettero come faro, ma il genio del loro genio, la fiamma intima della loro luce, il principio motore del loro adornarsi sino a trasfigurarsi, fu l’amore di sè, l’incommensurabile amore ateniese per tutta quanta era Atene. E sarebbero stati i più cerretani degli uomini senza quest’amore che fece una sostanza sola del fatto e del desiderio del fatto. Atene fu attiva nel panegirico d’Atene quanto Roma nella conquista, e come da questa sorse l’impero, così da quello sorse l’arte. Questa fu ateniese come l’impero fu romano. Eschilo parla ancora. [p. 212 modifica]

Atossa.

Ma intanto, amici, ditemi dov’è posta Atene.

Il coro de’ vecchi persiani.

Lontano di qui, verso occidente, là dove il Re Sole tramonta.

Atossa.

E mio figlio voleva prendere quella città?

Il coro.

Certo, perchè allora tutta l’Ellade gli sarebbe sommessa.

Atossa.

Senza dubbio quel popolo abbonda di guerrieri.

Il coro.

È un esercito che ha digià cagionato molti mali ai medi.

Atossa.

E che posseggono ancora? Hanno grandi ricchezze?

Il coro.

Hanno un tesoro della terra, una sorgente d’argento.

Atossa.

Brillano nelle loro mani le punte delle frecce e l’arco?

Il coro.

No, hanno la lancia per combattere a piè fermo e lo scudo per ripararsi.

Atossa.

Quale capo li conduce e comanda l’esercito?

Il coro.

Non sono schiavi di nessuno e non obbediscono a nessuno. [p. 213 modifica]

Atossa.

Come dunque sostengono l’urto dei loro nemici?

Il coro.

Così hanno distrutto il grande e magnifico esercito di Dario.

Mai popolo provò per la voce d’un suo poeta, maggior compiacenza di sè, della sua vittoria. Assistiamo al momento di natura ellenica, soprattutto di natura ateniese, al momento in cui l’amore di sè prende e plasma la materia del fatto e forma l’arte. Questa è l’arte nazionale. Come la storia e come la natura che è intorno, così saranno complasmati in quest’arte la morale dell’uomo e la morale della città, gli Dei e il loro culto. E tutto, dai fiumi agli Dei, sarà ateniese. Atene fu soltanto di sè e per questo conquistò il mondo.

Ieri fui sull’Areopago; camminavo a piccoli passi su quella roccetta di poche braccia e cercavo per terra. Fu qui la sede della giustizia? Dov’è il segno? Dov’era almeno un seggio? Dov’è il posto anche per un ristretto consesso? Ma un giorno venne qui un curioso uomo d’altra nazione e di là dal mare. Per diversi giorni gli ateniesi l’avevan visto parlar molto di cose strane anche nell’agora e s’eran dimandati: — Che vuole costui? — Lo chiamavano nella loro lingua [p. 214 modifica]spermologos, divoratore di semi, o seminatore di chiacchiere. Ma qualcuno lo condusse sull’Areopago e gli disse: — Insegnaci. — E quegli parlò agli ateniesi del Dio Ignoto. Ma gli ateniesi a un certo punto scossero la testa sghignazzando e dicendo: — Be’ be’, ti daremo ascolto un’altra volta! — E se n’andarono. Eppure, qualcosa di comune c’era fra gli ateniesi e quell’uomo il quale anche proveniva da un popolo che era stato soltanto di se medesimo. E dal suo feroce patire per quell’amore di sè calpestato da tutte le genti aveva tratto certo sogno d’un suo regno futuro su tutte le genti. Questo sogno e l’arte d’Atene ravvicinati dal corso degli eventi umani s’avviavano a conquistare insieme il mondo.

Tali cose mi ha detto or ora Atene, in quest’anno della nostra guerra. Nel nostro cuore noi italiani abbiamo rinnovato l’amore della nostra patria che è l’amore di noi stessi, come va inteso. Dobbiamo celebrarlo, sublimarlo, santificarlo al cospetto delle altre nazioni. Siamo anche noi soltanto di noi medesimi e non ci fallirà la nostra conquista.