Satire (Alfieri, 1903)/Satira terza. La plebe

Satira terza. – La plebe

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Vittorio Alfieri - Satire (1777-1798)
Satira terza. – La plebe
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SATIRA TERZA.

LA PLEBE.

Questa impudente schiatta sol s’indraca
Contro a chi fugge; ed a chi mostra il dente
Ovver la borsa, come agnel si placa.

Dante, Parad., C. 16.


«La gente nuova, e i subiti guadagni»
Che in cocchio fan seder chi dietro stette,
Chieggon ch’io qui co’ Grandi l’accompagni.
E giusto è ben, che qual più in su si mette
Visto sia primo, e che Ragion lo pesi:
E giusto è pur, che chi la fa l’aspette.
Ti chiamavi Giovanni a pochi mesi,
Nè motto mai facevi del casato:
Asciutto asciutto ognor Giovanni io intesi.
Un migliajo di scudi furfantato
Vi ti ha imbastito il De che meglio suona;
Sei Giovan De-Giovanni diventato.
L’esser senza antenati si perdona;
Ch’ogni uom del padre suo nascendo figlio,
Nobiltà nè si toglie nè si dona:
Ma il Filosofo stesso anco può, il ciglio
Aguzzando, scrutar di quai parenti
Nato sii: che il Leon non è il Coniglio.
Liberi, puri, agricoltori abbienti
Procreavanti ardito in lieta terra,
Lungi al par dai molti agj e dagli stenti:
Uom tu sei; chiaro farti, il può la guerra,
L’aratro stesso, anco il ben colto ingegno:
Ergi intera la fronte, ogni arte afferra.
Ma, sei tu sorto da principio indegno
Tra brutture di plebe cittadina?
Feccia di feccia sei, d’infamia pregno.
Tu, d’ogni vizio fetida sentina;
Tu, più reo di quel nobile che t’ebbe
Servo in camera o in stalla od in cucina.

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Qui dunque il sozzo tuo natal si debbe
Anco esplorar, o mio Giovanni, in prova,
Ch’ogni tuo vizio il vil natal ti accrebbe.
L’arte, ch’ozio e menzogna e fraude cova
Più ch’altra; l’arte rea del Tavernajo
Facea ’l tuo padre; e il rammentartel giova.
Fallito indi, e spolpato, e senza saio,
Perchè rodea più assai ch’ei non furava,
Nello spedal finiva ogni suo guaio.
La impudica tua madre ti educava
Al remo allor, col picciol lucro infame
Ond’ella le tue suore trafficava.
Quest’era il latte, che tue membra grame
Nutricava primiero; ognor cresciuto
Tra disonesti esempli in prave brame.
Orfano poscia e adulto divenuto,
Dotto in null’altro che uncinar le dita,
Sguattero entravi e tosto al Cuoco aiuto.
Ma già il tuo cuor magnanimo s’irrita
Del ladroncello, essendo nato al ladro;
E a trarti dalla broda alto t’invita.
Uom non sei da trovar nel tondo il quadro:
Ma squattrinare in cifre utili zeri,
Quest’è il tuo ingegno, s’io pur ben lo squadro.
Di un Pubblicano eccoti al soldo: interi
Tornare i rotti conteggiando apprendi;
Arte, onde van gl’imbratta-carte alteri.
Già di Sensale al magistero ascendi;
Affari già di più migliaja fai;
Già sei vie puro più, quanto più prendi.
Del tuo Banco in sul trono assiso omai,
Al De-Giovanni anco il Signor s’è aggiunto:
E ritto e duro, qual pien sacco, stai.
Arricchito in buon secolo e in buon punto,
Fra stromenti di regno anche avrai loco,
Tanto è lo Stato di pecunia smunto.
Degli imprestiti audaci il lento fuoco
Va l’impero e gli stolti attenüando;
Ma tu del comun danno a te fai giuoco.
A crepa pancia eccoti pingue: in bando
Ogni vergogna; entro ai be’ lucri indora
Il fetor del tuo nascere nefando.
Più non è ver, che il Nonno tuo s’ignora,
Non che da tutti, dal tuo padre istesso
Che gl’innocenti di sua culla onora:

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Più non è vero, che a Mammata in cesso
Nutrimento porgesser di lor carne
Le De-Giovanni del men forte sesso:
Tai fasti in oro abbiam sepolti; e trarne,
Anzi che danno, util potrai tu in breve,
Purchè ben sappi a tempo e luogo usarne.
Te frattanto e considera e riceve
Anco il Magnate il più orgoglioso; e datti
Sua figlia in moglie, perchè darti ei deve.
Questa di nobil prole babbo fatti:
Già tre maschi e una femmina ti han pago;
Sì bene ai signorili usi ti adatti.
La ragazza è sputata la tua immago;
Sarà da immensa dote induchessata:
Ciò disse il Vate al suo natal presago.
La Giovannesca maschia nidïata,
«L’un sarà Conte, l’altro Cavaliere,»
Cui Malta avrà sua Croce appiccicata.
Eletto il terzo al Vescovil mestiere,
Sta imparando il latino e l’impostura,
Che Cristo non è merce da Banchiere.
Cresce così la prosapietta oscura
Predestinata a splendidi maneggi,
Se la intarlata Monarchia pur dura:
Ma, se avvien mai che il Principato ondeggi
Sotto a Re cui sia trono la predella,
E che impunito ogni vil uom parteggi;
Il mio Giovanni allor si rïabbella
Di sua schifosa ignobiltà natìa,
Sfacciatamente avviluppato in ella.
Primo ei grida: Il Re muoja, e con lui sia
Spenta de’ Grandi la servile schiatta,
Che noi si ardiva di appellar genìa.
Meglio il sovran potere assai si adatta
Al non corrotto Popolo operante,
Che a lor cui l’ozio e la mollezza imbratta.
E d’una Moltitudine imperante
Gli alti pensieri chi eseguir può meglio,
Di un ben eletto suo Rappresentante?
Ciò detto, ei l’auree sacca, a lui già speglio,
Ratto scioglie, e tra feccia e feccia spande,
Per farsi un po’ di trono anch’ei da veglio.
Cambiò già in oro le paterne ghiande:
Or l’oro ei cambia in popolar corona,
Che il farà per qualch’ora apparir Grande.

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Ecco, Giovanni uno è dei trenta: ei dona,
E toglie, e stupra, e uccide, e trema, e regna,
Finchè l’Invidia e l’Ira gliel condona.
Ma forza è pur, che alfin Vendetta vegna.
Molti ha nemici: Grugnifòn lo accusa:
Ricco è di troppo ancor; forza è si spegna;
Nè sua viltà più omai suoi vizi eseusa.
Arrestato, impiccato, condannato,
Processato, in poch’ore, alla rinfusa,
In su le Forche ei muor, sott’esse nato.