Roma italiana, 1870-1895/Il 1880

Il 1880

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Il 1880.



Il Conservatore e l’accoglienza che ebbe — La salute della Regina e il ritorno di lei a Roma — Le agitazioni della «Irredunia» — Per la verità e le smentite che provocò — La debolezza del ministero Cairoli e le sue cagioni — Il conflitto fra Camera e Senato per il macinato — La morte del general Carini — Il Carini a Parigi — Il Papa e il Carini — Pellegrinaggi alla tomba del Gran Re — La terza sessione della XIII legislatura — Il Ministero è bersagliato da tutti i lati — Lo scioglimento della Camera e le elezioni del maggio — Nuova Camera e nuove ostilità al Ministero — La quistione d’Africa spunta sull’orizzonte — Corsi e Veglioni — Convenzione fra Sindaco e Ministro per il Concorso Governativo — L’inchiesta per la biblioteca Vittorio Emanuele — L’attività del Papa — La commemorazione di Mazzini in Campidoglio — L’arresto del Fratti — Il Kedivè a Roma — La visita della contessa di Lingen — Cesare Orsini e l’Esposizione Mondiale — L’Esposizione Artistica di Torino e il malcontento degli artisti — Il Sindaco Ruspoli e il Palazzo delle Belle Arti — Pettegolezzi artistici — Il concorso per il monumento a Vittorio Emanuele — Garibaldi depone il mandato ricevuto dagli elettori del 1° collegio — Il congresso Pedagogico e l’insegnamento religioso — Dazio Consumo — Discussioni parlamentari ed inaugurazioni — Monsignor Massaia torna dall’Africa — Il rifiuto di lui — I granduchi di Russia alla Villa Sciarra — Il Papa e il corredo dell’Infante.


Fra gli augurii e le feste che accompagnano di consueto la venuta del nuovo anno, si udì il primo di gennaio una parola di conciliazione e di pace fra la Chiesa e lo Stato, che non trovò peraltro eco nel paese. Essa partiva dal Conservatore, e rappresentava il pensiero di pochi utopisti. Dieci anni prima il Cadorna e poi il Lamarmora erano venuti a Roma animati dalle stesse idee e dalla stessa brama da cui furono spinti più tardi i fondatori del Conservatore. Dieci anni d’esperienza avevano dimostrato chiaramente la conciliazione essere cosa impossibile, vano il tentarla. La lotta poteva essere più o meno acuta, ma non poteva cessare. Cosi il nuovo giornale aveva un bel predicare soprattutto ai liberali: «pace! pace!» la guerra non cessò e non cesserà forse altro che dopo lungo volger di anni, allorchè molti papi si saranno succeduti sulla cattedra di Pietro; allorchè lontano lontano sarà il ricordo del potere temporale, e tutti quelli che ne hanno veduto la caduta saranno scesi nella pace della tomba.

Per questo il Conservatore era egualmente avversato dal grande partito moderato, al quale principalmente si rivolgeva, credendo in quello di poter reclutar molti proseliti, mentre era quel partito appunto che più di tutti era convinto della impossibilità della conciliazione; e dal partito clericale, che non ammetteva dovesse farsi, senza che il Governo italiano avesse sgombratu Roma. Mancava la base per l’accordo, come manca tuttavia.

Il Re anche in quell’anno mostrò fino dal primo giorno quanto fosse sollecito del bene della capitale e come il suo pensiero fosse sempre rivolto ai poveri. Al Sindaco S. M. disse, parlando [p. 249 modifica]del Concorso Governativo: «Desidererei di veder terminare presto e bene questa questione, poiché ad ogni cambiamento di ministero essa subisce un ritardo». Intanto oltre i larghi sussidi che il Re fece dispensare dalla Real Casa, e che aumentavano ogni anno, inviava 3000 lire agli Asili Infantili e 6000 lire all’on. Ruspoli perché li dispensasse ai poveri.

La Regina non era a Roma il primo di gennaio e dal pranzo furono escluse le signore, ma ella tornò il giorno 4, non ancora rimessa in salute, sempre pallida e magrissima. Le voci allarmanti corse sullo stato di lei avevano reso necessario che abbreviasse il suo soggiorno a Bordighera e ricomparisse a Roma. I giornali di tutta Italia non si peritavano a stampare mille particolari sui disturbi nervosi cui andava soggetta, e che mettevano in apprensione gli amici della monarchia. La Regina, che non ha per nulla nelle vene il sangue dei Savoia, capi che un prolungato soggiorno in una villa sulla Riviera poteva avvalorare quelle voci e accrescere le apprensioni, e torno subito alla capitale, benchè godesse di una grande pace nella bella villa Bischoffsheim.

Il ritorno di lei fu un raggio di sole, che illuminò Roma, e una folla di gente andò a riceverla alla stazione a metà della notte, e le dette un caloroso saluto, accompagnandola fin sulla piazza del Quirinale.

La Regina si rimise più lentamente qui, ma la soddisfazione di aver compiuto un dovere, le dette la tolleranza necessaria a sopportare i disturbi nervosi, che ne fiaccavano il delicato organismo.

Non erano quelli momenti lieti per il paese, nè per la monarchia. Una agitazione in pro dei paesi italiani ancora soggetti all’Austria, invadeva l’Italia. Come un tempo: «O Roma o morte!» era stato il segnale di ogni moto ribelle; allora il grido era divenuto: «Trento e Trieste!» L’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina all’Austria, il trionfo del principio di nazionalità nei paesi dei Balcani avevano prodotto quella agitazione, che poneva in serio impiccio il Governo di Sinistra, il quale dovendo impedire ogni moto per un riguardo all’Austria, era costretto a mettersi in urto con i proprii amici

Matteo Renato Imbriani prendendo argomento appunto dall’avere il ministro dell’interno impedito con la forza che a Campo Verano, in occasione dei funerali del generale Avezzana, presidente dell’associazione in pro dell’Italia irredenta, comparissero la bandiera ed altri emblemi di quella associazione, pubblicò un opuscolo nel quale asseriva che in una conversazione avuta coi ministri Depretis e Miceli e col segretario generale Bonacci essi gli avevano detto che desideravano veder riunita all’Italia ogni terra italiana, ma che più d’ogni altra cosa era mestieri non dar pretesto all’Austria di aggredirci. La Gazzetta Ufficiale con una nota smentì le asserzioni d’Imbriani, e Menotti Garibaldi pubblicava nella Riforma, che già aveva riprodotto, insieme con la Capitale, le rivelazioni contenute nell’opuscolo, una lettera con la quale assicurava che avendo assistito alla conferenza al palazzo Braschi attestava come le parole dette dagli uomini del Governo fossero decise ed energiche per impedire qualunque atto, che potesse far sorgere complicazioni internazionali.

Imbriani rispondeva nella Libertà: «La dichiarazione ufficiale è necessità di ufficiale menzogna». A Menotti Garibaldi poi scriveva nello stesso giornale: «Poichè avete creduto dovere apertamente manifestare la vostra disapprovazione per la pubblicazione del mio scritto - Per la verità — io mi rivolgo alla vostra lealtà perchè affermiate anche apertamente per quello che è a conoscenza, non esservi sillaba nello scritto stesso che non sia l’espressione più sincera della verità».

Naturalmente questi malintesi dovevano nascere per ragione inevitabile. Il passato degli uomini che erano al Governo, li teneva legati ai partiti estremi; la necessità di far rispettare l’ordine e di mantenere buoni rapporti con le potenze costringevali ad atti che i loro amici dovevano biasimare.

[p. 250 modifica]Chi non rammenta che cosa fosse il palazzo della Consulta quando il Cairoli era presidente del Consiglio e ministro degli esteri? Tutti gli antichi commilitoni andavano su e giù per quelle scale e si stupivano che non li ricevesse subito, che subito non appagasse i loro desiderii. Per essi Benedetto Cairoli era soltanto l’antico compagno di cospirazione e di battaglie, e non potevano figurarsi che gli uscieri vegliassero dinanzi al gabinetto del ministro, e che egli non potesse sempre spalancar loro le porte e le braccia. Il Cairoli, divenuto quasi un mito, come ogni ministro, era per essi cosa inconcepibile, e non avendolo potuto vedere, scendevano le scale brontolando clamorosamente. Ora se molti non erano ricevuti, vi erano fra gli antichi amici alcuni che non potevano essere respinti, o che non essendo ammessi alla presenza del presidente del Consiglio tentavano la sorte una seconda e una terza volta. Con essi Benedetto Cairoli doveva parlare diversamente da quel che parlava alla Camera e le sue parole dovevano necessariamente esser ben dissimili dai suoi atti come ministro, se non voleva inimicarsi tante persone, che un giorno potevano essergli utili, e che anche in quel momento gli conservavano la sua popolarità di patriota, dolce e grato compenso agli attacchi, che doveva sostenere come ministro. Le parole del presidente del Consiglio erano riferite ad altri amici, ad altri correligionari e mantenevano viva la speranza che il Governo del Cairoli non avrebbe usato come quelli del Lanza, del Minghetti, del Nicotera e del Depretis. Da ciò le agitazioni, le istituzioni di tanti circoli sovversivi, nati con la speranza dell’impunità, e cresciuti sotto il regime della tolleranza, finché non scendevano a manifestazioni, che il Governo era costretto a reprimere. Allora accuse dagli amici dell’ordine, e recriminazioni dai colpiti o da quelli che ne dividevano le idee; insomma una situazione penosa per il Cairoli ministro, e un pericolo latente di agitazioni nel paese. Chiusa la Camera le interpellanze si accumulavano; aperta, esse fioccavano addosso ai ministri intralciando il lavoro parlamentare.

Come correttivo della politica del Cairoli, la Destra tenne a Napoli una riunione alla sede della Associazione Costituzionale, presieduta dal Bonghi, alla quale intervennero il Minghetti, il Sella, il Visconti-Venosta e altre tremila persone. Gli uomini di quel partito si erano accorti un po’ tardi che dopo il 18 marzo 1876 le forze andavano sfasciandosi intorno a loro e che era necessario riunirle e far tacere le gare e i risentimenti personali per il bene del paese, seriamente minacciato.

In quella riunione i maggiorenti della Opposizione di Sua Maestà, si posero almeno d’accordo su due punti principali: quello del miglioramento delle condizioni dei Comuni, e l’altro della necessità d’impedire la soverchia ingerenza dei deputati nelle faccende amministrative. Il programma era molto ristretto, ma mirava a sanare la piaga della miseria dei Comuni e a far si che l’amministrazione fosse più sollecita del regolare disbrigo degli affari, affinché le premure dei deputati divenissero inutili e soverchie. Non era il programma di un partito forte, che attende di tornare in breve al Governo; era il lato solo di un programma inteso al bene del paese, che seguito con energia, poteva rinsanguare la Destra, e darle forza per attuare le rimanenti parti del programma alle quali certo i capi avevano pensato.

Il lettore non avrà dimenticato che il Senato aveva respinto alla Camera il progetto di legge sul macinato, dichiarando che non lo avrebbe votato se prima non erano presentati e approvati i disegni di nuove imposte, a fine che il pareggio nel bilancio non fosse alterato dalla abolizione di una tassa che fruttava all’erario molti milioni. Il Senato si adunò il 12 gennaio occupandosi subito della scottante questione, cagione di un conflitto fra i due rami del Parlamento.

L’on. Saracco, relatore dell’Ufficio Centrale del Senato prese nella prima seduta la parola facendo notare che dopo che egli aveva presentata la relazione era sopravvenuto un cambiamento di [p. 251 modifica]Ministero, e che mentre il Gabinetto precedente aveva manifestato il proposito di sottoporre al Parlamento nuovi provvedimenti diretti ad assicurare il pareggio ed insieme l’adempimento del voto della Camera rispetto alla graduale abolizione del macinato, il nuovo Ministero era di parere contrario, e chiedeva prima l’approvazione della legge. Per questo l’Ufficio Centrale proponeva la sospensiva. Dopo una lunga discussione il Senato approvò la proposta Saracco e così l’eterna quistione del macinato non fu risolta neppure in gennaio.

La Camera si adunò due o tre volte solamente, prima che l’on. Cairoli chiudesse la sessione e nella sua prima riunione udì l’elogio funebre del general Carini, morto appunto il 18. Del prode soldato parlarono con affetto il Presidente della Camera, il general Ricotti, l’on. Crispi e il Presidente del Consiglio. La cittadinanza romana aveva dimostrato pure quanto fosse dolente della perdita di un bravo soldato uscito dalle file garibaldine, recandosi numerosa al trasporto funebre. In quella occasione, insieme con i Veterani 1848-49 si mostrò per la prima volta un nuovo sodalizio, quello dei Reduci Italia e Casa Savoia.

Giacinto Carini era morto in conseguenza di una ferita al braccio, che riapertasi, lo aveva fatto acerbamente soffrire per lunghissimo tempo, producendogli poi la cancrena. Un colpo terribile aveva recato al Carini il decreto del suo collocamento a riposo. Non aveva beni di fortuna, e non sapeva come tirar su la famiglia con la magra pensione. Da queste angustie avevalo tratto il Re generosamente aiutandolo, ma egli non si poteva consolare di essere ridotto cosa inutile.

Tutti i giornali tesserono con vera ammirazione gli elogi del defunto, ma la pagina più originale che fosse scritta sul Carini, devesi alla penna dell’on. Martini, che lo conobbe molto e lo amò come meritava.

«Le milizie borboniche, scriveva Ferdinando Martini nel Fanfulla della Domenica, erano entrate in Catania, e si dirigevano rapide verso Palermo; presso Ruggero Settimo, il 21 aprile 1849, si dibatteva se la Città dei Vespri dovesse cedere o combattere. Carini, il capitano de’ villici armati, il vincitore di Burgio, non esitò: propose di resistere fino all’ultimo; sebbene prevalesse l’opposto partito, egli nè si scorò, nè si disaisse; chiamò disperatamente alle armi, e a capo di pochi popolani, di uno squadrone di cavalleria e della schiera dei volontari francesi, assalì con grande impeto i Borbonici a Villabate e a Belmonte.

Schiacciato dal numero, scampò a mala pena la vita e insieme con molti dei cittadini più compromessi s’imbarcò sul Descartes, che faceva vela per Marsiglia.

«E sulla terra straniera cominciarono i giorni delle durissime prove, per il Carini come per tutti. Se non che in lui era più forte che in altri l’animo, più viva la fede, più costante il bisogno di operosità: costretto a esulare dall’Italia a dimorare in Francia, si propose di accrescere e stringere tra un popolo e l’altro i legami di interessi e di simpatie; e nel 1852 mise su un Office de commission franco-italien, che doveva facilitare la esportazione dei prodotti industriali ed agricoli della penisola, e mostrarne il pregio ai francesi.

«Gli era compagno nell’impresa Carmelo Agnetta, siciliano egli pure, oggi diventato uomo serio e prefetto di non so quale provincia; allora audacissimo, smanioso di singolarità, tanto da passeggiare per Parigi con la testa coperta da un fez e da dar nell’occhio alla polizia. L’Office si componeva di due stanze umide e buie in fondo al cortile di una casa in via Choiseuil, e vi convenivano quotidianamente parecchi esuli a ciarlare, a fumare, a fantasticare, a vuotare di rado qualche bottiglia spedita in saggio da Marsala.

«Tutto era pronto; soltanto gli affari mancavano. Finalmente entrò nell’Office un collo di merci: era una cassa di fichi d’India che invano l’Agnetta si affaticò ad offerire a tutti i restaurants di Parigi [p. 252 modifica] di guisa che cominciarono a fermentare e fu giuocoforza buttarli nella cassetta dello spazzaturaio. E fu quella la sola speculazione dell’Office franco-italien.

«Era allora a Marsiglia un altro esule italiano, il M.....o, impiegato presso la casa Michel Jeune et Cie, in grazia del livornese Malenchini, che aveva banco in quella città. Cercavano i Michel notizie di una nuova macchina inventata a Parigi. Il M....o a cui era capitato sott’occhio un manifesto dell’Office, scrisse al Carini dandogli incombenza di quelle indagini. Cosi cominciò un carteggio che durò più mesi e nel quale i due poco trattavano di cose commerciali, molto delle loro speranze nel risorgimento d’Italia.

«E nacque l’idea d’un giornale. Detto fatto. Il M....o raggranellate poche centinaia di franchi lascia insalutato hospite i Michel e va difilato a Parigi. Era il settembre del 1854; si preparava la Mostra universale dell’anno dopo e pareva quello il momento più d’ogni altro opportuno alla pubblicazione di un giornale che facesse per le relazioni intellettuali del popolo francese e italiano ciò che all’Office non era riuscito per le commerciali.

«Da quel giorno nell’Office non si parlò più che della futura gazzetta. Si discusse per quindici giorni ogni minuto particolare che a quella si riferiva: e fiduciosi dell’esito, baldi di nuove speranze, intervenivano a’ convegni Pietro Maestri (che esercitava a Parigi la medecina), Michele Amari, Atto Vannucci, Gilberto Govi insieme con parecchi giovani francesi divenuti notissimi nelle lettere, come il Baschet, il Paradis, e quel Dalloz, che fu sotto l’impero direttore del Moniteur Universel.

«Al solito nulla mancava, tranne i danari. Per buona sorte il Carini si sovvenne che in non quale occasione egli aveva fatto non so quale servizio ad Emilio de Girardin; ricorse a lui; e il Girardin ottenne alla Revue Franco-italienne tre mesi di credito per le spese di carta e di stampa dagli editori della Presse, giornale politico che egli dirigeva a quel tempo.

«L’Eldorado si schiudeva innanzi agli occhi abbacinati dei poveri italiani, s’eran trovate finalmente le sorgenti del Pattolo, s’era posto finalmente il piede sulla via di Golconda.

«Dai modesti stambugi a piano terreno, il Carini salì al mezzanino; empiè di mobilio elegante, di tappeti sfarzosi, scaldo a furia di caminetti quattro stanze ampie, aereate; dette amorevoli cure fino alla cucina, dove, bensì, in sei mesi, non si accese il fuoco una volta sola, neppure per eccitare con una tazza di caffè il cervello dei collaboratori!

«Perchè anche quei dolcissimi inganni si dileguarono; la Revue ottenne in Italia accoglienze non si può dir quanto festose: da più che cento giornali ebbe saluti ed augurii; da soli quattro uomini di buona volontà sottoscritta la cedola d’associazione. Anche a Parigi parole cortesi, lodi smaccate a iosa, e nient’altro: cosicchè il Carini fu un giorno costretto a mettere in pegno l’orologio per sopperire alle spese di posta, per le quali neanche il Girardin poteva ottenere gli si facesse credenza.

«Nulla valse a trarre da quelle angustie il nuovo giornale; non il suscitare fiere polemiche con altri fogli; non il confutare gli spropositi del Perrens che i romanzi del Rosini vantava eccellenti sopra i Promessi Sposi; non l’accaparrare la penna svelta e gaia del napoletano de Lauzières, oggi mutato in marquis de Thémines; nulla valse a vincere la fortuna, finchè essa stessa non si risolvè ad aiutare spontantea il Carini e i compagni di lui.

«La Revue divenne Courrier, andò a piantare i suoi uffici in un bel primo piano sui Boulevards, e aggiunse alla parte letteraria la commerciale. Pietro Maestri fu allora il più assiduo degli estensori di quel foglio, ove Gilberto Govi, sotto il pseudonimo di Guilbert, scriveva gli articoli di teatri e di mode!

«La fortuna sorrise dunque questa volta agli operosi e ai dabbene; ma per non dismettere in tutto l’antica crudeltà sua, sorrise loro troppo tardi; poco prima cioè che al Carini fosse dovere di respingere le offerte sue.

«A un tratto le stanze del Courrier divennero silenziose e deserte. Il tipografo vi cercò inutilmente chi gli fornisse l’originale. Gli scrittori erano volati, come gaio stormo di rondini, verso le prode italiane. E il direttore, rispondendo alla chiamata di Garibaldi, vestiva oramai la casacca dei Cacciatori delle Alpi!...»

[p. 253 modifica]Morto il Carini, si scrisse molto sui rapporti da lui avuti con il cardinal Pecci, allorchè il primo copriva a Perugia la più alta carica militare, e il secondo la ecclesiastica, e credendo di far torto all’eroico generale siciliano, ammettendo la dimestichezza corsa fra lui e l’arcivescovo Pecci, si volle asserire che tutta l’amicizia si riducesse a uno scambio di lettere per una visita del cardinale all’ospedal militare.

Invece l’amicizia aveva legato quei due uomini, i quali nell’esercizio del loro ministero avevano imparato a stimarsi reciprocamente, e se il figlio del Carini, il dotto monsignor Isidoro, vestì l’abito talare, fu appunto in conseguenza di quella sincera e bella amicizia che legava il generale all’arcivescovo di Perugia; e questi, divenuto Papa, protesse sempre il figlio dell’amico suo e riconoscendone i meriti veramente straordinari, lo nominò vice-bibliotecario di S. R. C. Monsignor Isidoro, che abitava un quartierino attiguo alla biblioteca, aveva conservato presso di sè, più come persona di fiducia, che come servo, un romagnolo, antico compagno d’armi del padre, che mi pare si chiamasse Volpini, il quale guidandomi alcune volte a visitare l’appartamento Borgia, quando ancora vi si serbava la biblioteca Bufalini, mi vantava con voce commossa l’eroismo, la bontà, l’intrepidezza del suo compagno di pericoli e di lotte. Quelle parole pronunziate dentro le mura del Vaticano, producevano su di me un effetto che non dimenticherò mai, e mentre mi provavano che il generale era stato davvero un uomo di cuore e d’intelletto elevatissimo per lasciar così vivo ricordo di sè nei suoi amici, mi convincevano della deferenza del Papa verso monsignor Carini, del Papa che tollerava la presenza di un antico cospiratore, di un soldato della indipendenza italiana dentro il suo palazzo, pur di non privare il vice-bibliotecario di S. R. C. di una persona affezionata. Quell’uomo che parlavami così in quel luogo, era un elogio non solo per il generale morto da più anni, ma anche per il Papa vivente.

Nello stesso giorno in cui si celebravano a Roma i funerali del general Carini, l’aristocrazia romana accompagnava al Campo Verano don Carlo Barberini, principe di Castelvecchio, già comandante delle guardie nobili pontificie. Egli morì senza lasciare eredi maschi, cosicchè il maiorascato passò al fratello, don Enrico, che gli sopravvisse pochi anni soltanto. Don Carlo lasciava due figlie maritate già da molto tempo in casa Corsini.

Il giorno 9 di quel mese di gennaio, sempre con nuova espansione di cordoglio si commemorò, per iniziativa privata, la morte del gran Re, al Pantheon.

Il figlio pietoso vi andò alle 7 di mattina entrando dalla parte della sacrestia in via della Palombella e rimase a pregare inginocchiato per circa mezz’ora. Rientrando al Quirinale assistè insieme con la Regina ad una messa funebre, nella nuova cappella che Leone XIII aveva permesso fosse consacrata nel palazzo reale. Verso le 10 si riunirono nel cortile della Minerva le associazioni che volevano prender parte alla mesta cerimonia, promossa dal comizio dei Veterani e dalla Società di vigilanza elettorale.

Alle 10 1/4 il corteggio mosse verso il Pantheon recando tutte le bandiere abbrunate e grandi corone di fiori freschi, di semprevivi, e d’alloro. Esso si componeva delle due società suindicate, della rappresentanza della milizia mobile, della rappresentanza del municipio di Velletri, dei veterani di Torino, Napoli, Firenze, Bologna, Civitavecchia, Frosinone, Tronzano Vercellese, Novara, della Società dei Reduci delle patrie battaglie di Roma, di quella dei Reduci Italia e Casa Savoia, dei superstiti delle guerre nazionali, di quelli delle patrie battaglie di Treviso, della Regia Accademia filarmonica romana, del Liceo musicale, dell’Associazione dei ferrai, dell’Associazione Costituzionale, della Associazione medica romana, della Società dei cocchieri, della Società [p. 254 modifica]cosmico-umanitaria, della Società degli orafi, di quella dei parrucchieri, dei tappezzieri, dei beccai, dei Pesaresi residenti a Roma, e della Unione emancipatrice. Alla tomba erano di guardia il generale Lerici e il capitano Bonelli dei Veterani.

Tutto il giorno migliaia di persone andarono in pellegrinaggio al Pantheon e il registro si copri di innumerevoli firme, ma tutti quelli che l’affetto guidava in quel luogo, deploravano che la tomba del Gran Re fosse così meschina, e che in due anni non si fosse fatto ancora nulla per dargliene una più degna.

Il 16 furono celebrati al Pantheon i funerali a cura dello Stato. Sul frontone del tempio si leggeva:


a dio ottimo massimo

governo e popolo

innalzano preci funebri anniversarie

per l’anima

di re vittorio emanuele ii

padre della patria


Ai funerali assisteva tutto il corpo diplomatico, fra cui il nuovo ambasciatore d’Austria, conte Wimpffen, i grandi dignitari dello Stato e della Corte. Tutti i gradini del tumulo erano coperti di corone.

Fu ripetuta la messa del Cherubini e le parti di concerto vennero eseguite dai tenori Bonucci, Martinelli e Pepe, dai bassi Nannetti, Argenti, Bottero e Giormali.

È fino da quell’anno che la Filarmonica Romana prese sola ad eseguire la musica ai funerali del Pantheon con un impegno che le ha valso larga lode.

Dopo la metà del gennaio la Corte d’Appello emanò finalmente la sentenza con cui scioglieva il matrimonio Garibaldi-Raimondi e dopo poco giungeva notizia qui che il Generale aveva sposato a Caprera la madre dei suoi due ultimi figli, sciogliendo il voto più ardente della sua vecchiaia. A Camera chiusa, il Governo non ebbe un momento di pace; e non tanto per la guerra che gli faceva la Destra, guerra molto blanda, quanto per gli attacchi dei giornali del suo stesso partito, rispecchianti le idee di questo o di quel capo gruppo. La Riforma, ostilissima all’on. Cairoli, rimproverava al Gabinetto di non avere avuto il coraggio di creare 50 o 60 senatori per costringere il Senato a cessare il conflitto fra i due rami del Parlamento sulla quistione del macinato, e il Bersagliere era anche più violento. Secondo quel giornale i ministri avevano portato al governo il medesimo sistema che avevali distinti nella guerra mossa agli stessi amici loro quando erano al potere; avevano rimpiccolita l’arte della politica all’artifizio, e governavano senza programma. Un giorno non vedevano altro che il conflitto, un altro il macinato o la morte, un terzo i senatori da nominare. «E avessero almeno la virtù di condurre in porto una sola di queste loro idee, un solo di questi propositi! - esclamava il giornale del Nicotera - Che? Dicono tanto per dire e non tengono altro che all’apparenza, e incoraggiano un andazzo, dal quale risulta una educazione politica che non potrebbe dare peggiori risultati».

Il 16 febbraio, alla vigilia della apertura della Camera, comparve la lista ufficiale dei nuovi senatori. Ma il Governo, come aveva preveduto la Riforma, s’era contentato di far le cose a metà. I nuovi senatori erano 26, numero insufficiente a spostare la maggioranza dell’assemblea, e fra di essi vi erano il general Corte, prefetto di Firenze, il comm. Mazzoleni, prefetto di Roma e il Casalis, prefetto di Torino.

[p. 255 modifica]Il Re dunque, col solito cerimoniale, inaugurò il 17 la terza sessione della XIII legislatura, ma nel recarsi a Montecitorio passò per la prima volta da via Nazionale e dal Corso e si servì delle berline di gala acquistate dal Sala di Milano nel 1868 per il suo matrimonio, e delle magnifiche livree fatte dal sarto Testori. Anche il treno della Regina fu tutto rinnovato e quella insolita pompa produsse un grande effetto nel popolo che si accalcava sul passaggio del corteo reale. Nel discorso che pronunziò il Re, e che fu accolto bene, disse che il fondatore del Regno aveva lasciato come supremo legato all’Italia risorta la riforma del sistema tributario a sollievo delle classi povere, e l’allargamento del diritto elettorale, che quelle due quistioni erano un sacro debito verso la venerata memoria di lui e verso la giusta aspettazione del popolo.

Con molto tatto il Re accennò al concorso governativo per Roma, aggiungendo:


«Nella passata sessione il Parlamento seppe nobilitare la carità, resa necessaria dalle stagioni inclementi, volgendola a stimolo di lavoro. Ora il mio Governo vi presenterà alcuni disegni di legge per l’esecuzione di molte opere produttive, nell’intento di dare un vigoroso impulso all’attività nazionale. Gravi ragioni consigliano a comprendere fra queste le indispensabili alla salubrità ed al decoro di Roma, la quale creò l’unità e la grandezza della prima Italia, e non deve ospitare l’Italia nuova solo in mezzo ai ricordi della passata fortuna».


Il Re annunziò pure che sarebbe stata presentata alla Camera la legge comunale, quella per la legislazione penale e per il codice commerciale e un progetto per nuove spese militari.

A presidente della Camera fu eletto a primo scrutinio l’on. Farini e in una delle prime sedute fu votato un ordine del giorno di plauso agli uomini che avevano ideato e costruito il Duilio, per i bei risultati che avevano dato le prove della nave. Ma la parte importante della discussione non fu quella. Il ministro della marina, on. Acton, colse quella occasione per esternare le sue idee e mise sul tappeto la quistione delle navi grosse e delle navi piccole, quistione che s’invelenì poi e divise la marina in due campi.

I progetti di legge, annunziati nel discorso della Corona, furono presentati, e la Camera accettò la proposta del presidente del Consiglio, che cioè quello della legge elettorale venisse assunto nello stadio nel quale era giunto nella passata sessione.

Una delle prime scaramucce si ebbe il 25 febbraio.

Ho parlato già della riunione tenuta a Napoli dalla Associazione Costituzionale. L’on. della Rocca, presentò una mozione di biasimo contro l’on. Minghetti per le parole pronunziate a Napoli. I Centri e la Destra si opposero per salvaguardare il principio della piena libertà di parola dei deputati fuori della Camera, e vinsero.

Le apprensioni sulla politica estera del Gabinetto erano assai vive, e la Camera, impaziente di vedere svolgere le interpellanze che piovevano al ministro degli esteri, deliberò di anticipare la discussione di quel bilancio.

L’on. Marselli fece notare i sospetti che si addensavano contro l’Italia, la necessità di dissiparli e dimostrò che la questione dell’Italia irredenta esponeva l’Italia redenta al pericolo di perdere un’amicizia che doveva essere il cardine dei suoi rapporti internazionali. Il fuoco aperto così dall’on. Marselli fu continuato dal Visconti-Venosta, il quale parlando per più di tre ore e bersagliando il Governo con accorgimento e forza, toccò tutte le questioni e principalmente quella egiziana, nella quale sentivasi forte davvero, perchè sotto il regime della Destra, e mercè lo Scialoja, l’Italia aveva conquistato colà una bella posizione. Anche lui condannò la condotta del Governo [p. 256 modifica]di fronte alle agitazioni per l’Italia irredenta, ed espresse la speranza che il Governo riuscisse a riprendere quella considerazione che merita una politica coerente.

Il discorso dell’on. Visconti-Venosta fu un colpo per il ministero, perchè fece capire nella Camera e nel paese, che un uomo che parlava con tanta calma e con tanta elevatezza, non pronunziava un biasimo per la soddisfazione di far cadere un Gabinetto, ma vi era spinto soltanto dalla viva premura del bene della patria.

Nella seduta successiva fu rivolta al Governo la prima interpellanza sull’Africa. Peraltro dell’Africa si era già discusso alla Camera l’anno prima quando, su proposta dell’on. Martini, furono accordate 28,000 lire alla spedizione Matteucci, ma interpellanze non se n’erano mai udite e colui che ne apri la serie fu l’on. Vollaro, quasi africano per il lungo soggiorno fatto in Egitto. Già dal mese di gennaio due bastimenti Rubattino avevano preso possesso della baia di Assab; due spedizioni, una composta del Cecchi e del Chiarini, la seconda guidata dal Matteucci e da Giovanni Borghese, erano in cammino per il Vajai; il dottor Bianchi, del comitato milanese, doveva rimettere al Negus Giovanni una lettera autografa del Re e molti doni. Così da questo cumulo di fatti si vede che gli sguardi dell’Italia si portavano sull’Africa, e che prima o poi si sarebbe venuti all’occupazione di un punto del continente nero.

Ma la discussione sulla politica estera fu turbata da un incidente fra l’on. Farini, presidente della Camera e l’on. Mancini. Già i capi della Destra e della Sinistra si erano scambiati vive parole. Al biasimo dei primi sulla politica estera, aveva risposto il Crispi dicendo che non toccava agli uomini del partito moderato a rimproverare i loro successori, perchè questi ne avevano continuato gli errori.

L’on. Cairoli poi aveva portato in ballo la quistione della Città Leonina, che il Governo del 1870 voleva lasciare al Papa, e la formula del plebiscito, non accettata dai Romani, e il Sella gli rispose aspre parole, come ne rispose al Crispi quando asseri che il Lanza e il Visconti-Venosta non volevano venire a Roma. Gli animi erano riscaldati e la discussione non poteva esser calma. L’on. Mancini propose un ordine del giorno favorevole al ministero, e nello svolgerlo usò parole offensive per l’on. Bonghi. Il presidente lo richiamò all’ordine, il Mancini si risentì vantando la sua pratica parlamentare di trent’anni, e l’on. Farini offeso disse che rinunziava alla presidenza, si coprì ed uscì dall’aula. Non appena l’on. Farini si fu ritirato, vi fu un adunanza di ministri nella sala della presidenza, alla quale parteciparono anche gli on. Sella, Crispi e Nicotera e tentarono d’indurlo a riprendere il suo posto. L’on. Farini si era lasciato quasi convincere, quando seppe degli applausi coi quali era stato accolto dalla Sinistra il vice-presidente Spantigati; credè che essi significassero biasimo per il suo operato, e non volle più recedere dal suo proposito. La Camera deliberò il giorno dopo all’unanimità di non accettare le dimissioni del presidente, ma egli insistè e pur ringraziando la Camera dell’attestato di simpatia che gli aveva dato, rimase fermo nell’intendimento di ritirarsi.

La Camera votò sull’ordine del giorno Mancini e il Governo ebbe anche nella politica estera una maggioranza notevole, mercè un abile discorso del presidente del Consiglio. Egli, alludendo chiaramente a Crispi, disse ripetutamente che non avrebbe accettato ordini del giorno ambigui o che pretendessero di attenuare il valore della fiducia che la maggioranza aveva in lui. L’on. Crispi, che aveva attaccato il ministero e aveva posto in dubbio che potesse esservi accordo fra gli on. Depretis e Cairoli, si allontanò dall’aula al momento del voto. Il giorno dopo si dimetteva da presidente e da membro della commissione del Bilancio.

[p. 257 modifica]CAMERA DEL PARLAMENTO ITALIANO

[p. 259 modifica]Anche il Sella erasi dimesso da capo della Opposizione, perchè essendo prossimo il momento in cui dovevasi discutere alla Camera l’abolizione graduale del macinato, non voleva vincolare in certo modo il voto dei deputati del suo partito, che avessero desiderato di scendere a transazioni. Gli on. Farini e Sella lasciarono Roma per dimostrare che non intendevano farsi vincere da suppliche; l’on. Crispi rimase al suo posto di combattimento.

Dopo quasi un mese di vacanza la Camera elesse un successore all’on. Farini, e la maggioranza fu per l’on. Coppino, il quale ebbe 174 voti contro i 144 che al secondo scrutinio raccolse lo Zanardelli, perchè la Destra votò per lui. Tenuto conto di 24 schede bianche, il candidato del Ministero non aveva avuto altro che una maggioranza di sei voti. Per quella votazione si ripetė ciò che ogni momento avveniva da tre anni a quella parte; il Governo a un tratto trovavasi di fronte una frazione ostile della Sinistra. Quella volta l’opposizione era diretta dall’on. Zanardelli, il quale aveva nell’on. Crispi un coadiutore molto battagliero. Inasprito dalla guerra che gli era stata fatta, Francesco Crispi era sempre pronto alla lotta, sempre tenace nel combattere. In ogni questione egli prendeva la parola e sempre i suoi discorsi facevano effetto. Appena eletto il Presidente della Camera, e mentre si discuteva il bilancio della guerra, egli accusò il Governo della lentezza dei lavori, di volere imporre leggi gravissime alla Camera, senza avere una maggioranza per sostenerle. L’offesa era diretta all’on. Cairoli, il quale voleva un altro voto di fiducia, cioè un altro puntello per tirare avanti qualche tempo, e aveva fatto presentare dall’on. Spantigati un ordine del giorno in quel senso. La Camera mormorò appena egli ne incominciò la lettura, e l’on. Depretis, il quale non era della stessa opinione del suo collega del gabinetto e capiva che il voto non serviva a nulla, lo rimandò alla discussione del bilancio dell’interno.

Intanto si chiuse fra questi umori della Camera e del Governo la discussione militare, senza che la maggioranza volesse saperne dei provvedimenti proposti dall’on. Ricotti per rendere l’esercito capace di sostenere una guerra. Eppure tutti i deputati, quando si trattava di parlare, deploravano che l’esercito non fosse forte! Ma con un ministro della guerra come il generale Bonelli era difficile che la Camera prendesse qualche seria determinazione.

Vennero dopo in discussione i provvedimenti straordinari militari, cioè la provvista di nuove armi e le fortificazioni dello Stato. Sulla difesa delle coste la tempesta scoppiò. L’on. Saint-Bon attaccò vivamente il ministro della marina per aver cambiato tutto il sistema della difesa, cambiando il tipo delle navi approvato dal Parlamento. Peraltro la burrasca passò senza colpire il ministro, perchè l’on. Acton si rassegnò ad accettare un ordine del giorno dell’on. Nicotera che diceva cosi: «La Camera ritenendo che il ministro della marina affretterà quanto più può la costruzione delle navi di prima classe, e qualora voglia metterne in cantiere altre di diverso tipo, sottoporrà prima i disegni all’approvazione della Camera, passa all’ordine del giorno».

La pieghevolezza del ministro della marina parve eccessiva e la Camera la comentò molto. Egli aveva fatto il sordo all’avvertimento che gli veniva dato indirettamente di cedere il portafoglio all’on. di Saint-Bon, e la Camera non ebbe il coraggio di esprimere con più chiarezza quel desiderio.

I provvedimenti straordinari militari non erano ancora in porto, quando il ministro Magliani chiese un mese d’esercizio provvisorio dei bilanci non ancor votati. La commissione generale del bilancio votò allora alla quasi unanimità il seguente ordine del giorno: «La Camera deplorando che il Governo del Re abbia dovuto presentare un’altra domanda di esercizio provvisorio, passa all’ordine del giorno».

[p. 260 modifica]La relazione sull’esercizio provvisorio del bilancio era stata fatta dal Crispi con moltissima acredine. In quei giorni gli on. Crispi e Nicotera avevano trattato col Ministero per la conciliazione della Sinistra, che avrebbe dovuto portare alla modificazione del Gabinetto. Il Governo non era alieno dall’accettar la proposta, ma voleva aspettare il voto, e allora i capi dei dissidenti stabilirono d’impegnar la battaglia subito sull’esercizio provvisorio del bilancio, non negandolo, ma proponendone l’approvazione con un ordine del giorno che esprimesse sfiducia per il Governo. Essi erano sicuri dell’appoggio della Destra e del gruppo Bertani, e difatti la vittoria arrise loro. Il Ministero, che aveva accettato un ordine del giorno dell’on. Baccelli, rimase in minoranza per 23 voti e si dimise. Il Re chiamò al solito al Quirinale gli uomini più influenti dei diversi gruppi e l’opinione generale era quella che si dovesse sciogliere la Camera. Il decreto di scioglimento comparve il 3 maggio, e le elezioni furono indette per il 16, forse per non tenere il paese agitato lungamente e per far si che la nuova Camera potesse almeno votare i bilanci prima delle vacanze estive. Intanto il Re aveva offerto all’on. Farini di comporre il nuovo ministero, ma l’ex-presidente della Camera aveva rifiutato dimostrando a Sua Maestà che non avrebbe potuto reggere al governo più di sette o otto mesi. Cosi il Ministero rimase in carica e incominciò la lotta elettorale.

Scese in campo il Governo e il suo programma era contenuto nella relazione che accompagnava il decreto di scioglimento; vi scesero i dissidenti di Sinistra, confermando e comentando il voto di sfiducia dato al Gabinetto, vi scesero pure i conservatori affermando che il loro programma era il solo veramente italiano, il solo che contenesse una rivendicazione: il trionfo della fede sull’ateismo, il trionfo della morale sulla corruttela. La Destra stabili di respingere le ibride coalizioni. Soltanto in quei collegi ove il partito non aveva un candidato, doversi appoggiare quelli di Sinistra, purchè essi fossero conosciuti per la loro intelligenza, onestà e devozione sincera alle istituzioni costituzionali.

A Roma nei primi giorni poco si occuparono delle elezioni, poi si destarono dall’inerzia e formarono molti comitati elettorali, ma la lotta non raggiunse mai quel grado di acerbità che aveva nelle provincie meridionali, ove quasi ovunque si trovavano di fronte i candidati del Governo e quelli della Sinistra dissidente.

Il gran giorno gli elettori di Roma andarono scarsi alle urne. Nel 1° collegio Garibaldi entrò in ballottaggio con Guido Baccelli; nel 2° don Augusto Ruspoli con Francesco Ratti; nel 3° Guido Baccelli con Vincenzo Maggiorani; nel 4° Samuele Alatri con il Lorenzini; nel 5° Luigi Pianciani con don Ignazio Boncompagni. Eletti definitivamente furono Garibaldi, Ratti, Baccelli, Lorenzini e Pianciani, cioè tutta la lista di Sinistra. La Destra battuta qui aveva conquistato nel resto d’Italia una quarantina di collegi. Che il Governo non fosse pago delle elezioni, che la Camera fosse poco mutata, lo provò il fatto che il Ministero, prima ancora di attendere il risultato dei ballottaggi, entrò in trattative con i dissidenti di Sinistra.

Il discorso della Corona fu accolto freddamente; esso era una ripetizione di quello ultimo e non poteva essere altro. A presidente della Camera fu eletto con 406 voti il Farini; nelle altre elezioni i ministeriali si trovarono in minoranza, perché i dissidenti di Sinistra e la Destra votarono insieme provando che la vita del Gabinetto era in continuo pericolo.

Intanto l’on. Bonelli, ministro della guerra, era dimissionario, e rimase al suo posto solo per far votare la legge sul riordinamento dei carabinieri che portava la ferma a cinque anni. Nel luglio si ritirò e gli successe il general Milon.

[p. 261 modifica]La Camera approvò i bilanci e mentre si discuteva quello delle Finanze, si udirono il Corbetta e il Grimaldi parlare contro l’abolizione del macinato secondo il progetto emendato dal Senato, che però venne approvato. A quelle votazioni non parteciparono i tre capi dei dissidenti.

Alla di luglio un’altra quistione, che pur si fece grossa, venne alla Camera. L’on. Baccarini presentò il progetto di legge per la ferrovia Goletta-Tunisi, che consisteva nell’accordare al comm. Rubattino, che aveva ottenuto dal Governo francese quella linea, l’interesse del 6% sul capitale da lui impiegato per quell’acquisto. La Camera lo approvò subito, ma su proposta dell’on. Martini, rinviò a novembre la discussione della legge elettorale e la Camera si chiuse.

Quell’anno il carnevale, nonostante le premure del comitato e degli artisti, non fu molto brillante. Vi furono però due tentativi che ebbero esito felice; il primo la gita di piacere Parigi-Roma, che portò qui 400 parigini desiderosi di divertirsi, e che furono accolti cordialmente e ripartirono contenti delle feste carnevalesche romane; il secondo il Corso a via Nazionale, che riusci bellissimo per l’intervento della mascherata del principe Carcumello, ideata dagli artisti. Il principe era in una carrozza del principe Chigi, tirata da sei bellissimi cavalli riccamente bardati e aveva a fianco la sua sposa, e l’erede presuntivo. La Regina prese parte al corso e la sua carrozza fu coperta di fiori. Agli altri corsi ella assisteva dal terrazzino del palazzo Fiano, insieme col Re e col Principe di Napoli, il quale già presiedeva concerti pubblici per bambini e imparava a adempiere i suoi obblighi di erede presuntivo del trono.

I veglioni si facevano all’Alhambra, al Politeama, all’Argentina e all’Apollo. I due primi erano gai e popolari; quelli dell’Argentina eleganti, ma non quanto i festini dell’Apollo, dove andavano le signore, e che erano riunioni bellissime e allegre.

Si ballava anche alla galleria Pascucci, in via Nazionale, inaugurata di recente.

Il Concorso Governativo per Roma non fece un passo in tutto l’inverno. Il Depretis voleva che fra gli oneri che assumeva il Municipio vi fosse quello della costruzione delle caserme; la Giunta si opponeva e il ministro dell’interno non intendeva neppure presentare il disegno di legge alla Camera, sicuro che non lo avrebbe approvato, se il Consiglio non lo aveva prima votato nella forma che egli credeva opportuna. Finalmente alla metà d’aprile fra l’on. Depretis e l’on. Ruspoli fu concordata una convenzione che il Consiglio nella tornata del 2 maggio respinse. In seguito a quel voto il sindaco si dimise insieme con la Giunta. Il 22 giugno si fecero le elezioni parziali ed entrarono nel Consiglio otto moderati, cioè don Giannetto Doria, don Onorato Caetani, il marchese Lavaggi, Alessandro Righetti, Emidio Renazzi, Serafino Gatti, Pietro Cavi e Carlo Valenziani; cinque clericali come Giovan Battista de Rossi, don Mario Chigi, Temistocle Marucchi, Salvatore Bianchi e don Scipione Salviati, e un solo progressista: Guido Baccelli. A consiglieri provinciali furono eletti: Gaetani Bompiani, Samuele Alatri, Giulio Merighi, Guarna-Capogrossi, don Marcantonio Borghese, Carlo Palomba, Felice Ferri e Lorenzo Meucci.

Il sindaco, che non era stato neppure rieletto, se ne andò e ne prese le funzioni l’assessore delegato Armellini, ma la Giunta fu rieletta tal quale e così si sciolse la crise del municipio, evitando una nuova quistione. Ve ne erano già tante, che era saggia cosa il non aumentarne il numero.

Si sapeva che le faccende della biblioteca Vittorio Emanuele andavano malissimo, ma l’interpellanza dell’on. Martini fece impressione, e la Camera votò l’ordine del giorno di lui, con il quale chiedeva si facesse la classificazione delle biblioteche del Regno e si pubblicasse l’inchiesta sulla Vittorio Emanuele.

[p. 262 modifica]L’inchiesta fu pubblicata ed erano così gravi i danni che rivelava, che l’on. Martini nel suo giornale stampò su quel fatto queste parole di fuoco:


«Il ministro dell’istruzione pubblica, in ossequio ad una deliberazione della Camera elettiva, ha pubblicato la relazione della Giunta di inchiesta sulla biblioteca Vittorio Emanuele. Legga chi vuole quel documento: e proverà ciò che noi non siamo capaci di esprimere: sensi di dolore, di sdegno, di dispetto, di vergogna; tanto manifesti appaiono e lo sperpero del danaro pubblico e il dispregio del decoro nazionale e la insipienza e la negligenza di chi resse per cinque anni quell’istituto.

«Se più che l’amor degli studi e la cura dei nostri tesori bibliografici, ci occupasse l’animo il misero desiderio delle soddisfazioni personali, avremmo di che fregarci le mani; primo fra’ giornali, il Fanfulla della Domenica accennò al babelico disordine della Vittorio Emanuele, ai furti che vi si perpetravano, avvertiti e non puniti. Ci contradissero con sonora impudenza. E noi desiderammo che per smentirci non fosse necessario mentire, che la Giunta d’inchiesta provasse le nostre esser fisime, e noi tratti in inganno da amorevoli timori. Ma pur troppo non andò cosi; pensavamo che il danno fosse di uno, la relazione viene a dirci che fu di mille».


Il 2 luglio per ordine del regio commissario, professor Cremona, la biblioteca fu chiusa per tre mesi a fine di verificare danni e abusi.

Il lavoro che si fece allora fu serio e proficuo; abili bibliotecari furono chiamati da più parti d’Italia a riordinare la Vittorio Emanuele, e il Cremona ottenne dal ministro Guardasigilli che fosse depositata in quella biblioteca una copia di tutte le pubblicazioni nazionali, per modo che da quel giorno la Vittorio Emanuele contiene tutto ciò che si scrive in Italia. Questa misura mentre alleggeriva il bilancio della biblioteca, l’arricchiva immensamente, cosicchè adesso chi volesse fare un lavoro sulla produzione intellettuale dell’Italia presente, troverebbe colà tutto ciò che gli occorre.

Un’altra quistione noiosa e scabrosa era quella della Farnesina. Il duca di Ripalda, attuale affittuario del palazzo eretto dai Chigi, chiedeva al Governo 1,200,000 lire come indennità d’espropriazione e il tribunale condannò il Governo a pagare quella somma. Mentre peraltro i due litiganti erano dinanzi ai giudici, sorse un terzo: don Francesco di Borbone, ex-Re di Napoli, il quale essendo proprietario della Farnesina, reclamava per sè l’indennità e aveva nominato suo rappresentante don Marcantonio Borghese.

Il Governo, prima che la causa andasse al tribunale, aveva offerto 200,000 lire, che non vennero accettate. Allora furono nominati tre periti, cioè i signori Amedei, Rebecchi e Innocenti affinché stabilissero la somma da pagarsi al duca di Ripalda come correspettivo del terreno da espropriarsi. I tre periti stabilirono che la somma dovesse essere di 723,000 lire, che il Governo si affrettò a consegnare alla cassa depositi e prestiti, e la prefettura ordinò l’espropriazione. Il duca non volle ritirare la somma e portò la causa davanti al tribunale, il quale nominò i periti Agruzzi, Marucchi e Francisi, che elevarono la somma di espropriazione a 1,400,000 lire. Il tribunale fece una tara, contro la quale interposero ricorso gli avvocati del duca di Ripalda. Alla complicazione del proprietario, protestante contro i diritti accampati dal duca, che aveva la proprietà in enfiteusi per 90 anni, se ne aggiungeva un’altra; nel sottosuolo della Farnesina si scopriva un tesoro d’arte, sul quale il duca chiedeva un prezzo. Il tribunale rigettava la pretesa, ma la causa veniva portata davanti alla Corte d’Appello, la quale con sentenza del 23 giugno fissava l’indennità in lire 723,954, ammettendo che non se ne dovesse dare alcuna per i tesori artistici trovati nel sottosuolo, poichè già erasi fatta l’espropriazione.

Una quistione venne pure provocata dal contratto concluso fra il municipio e il signor [p. 263 modifica]Buchnam, addetto all’ambasciata inglese, per la cessione di una parte dell’ex-convento del Gesù e Maria al Babbuino a fine di costruire una chiesa inglese. Il Vaticano si risentì, ma aveva torto, e la prova si è che i consiglieri clericali della Giunta Provinciale avevano approvato la cessione nell’interesse del Municipio, poiché è vero che vi era un’offerta di romani per costruire in quell’area una chiesa, ma era meno vantaggiosa dell’altra.

Nel mese di febbraio il Papa fece demolire la sala del Concilio Ecumenico, che occupava tutta la navata di destra della croce latina nella Basilica Vaticana, chiusa fino dai primi del 1870. Tutto il materiale fu trasferito nei magazzini del Belvedere, dove si conservava il parco d’artiglieria dell’esercito pontificio. Appena gli speculatori vennero a notizia che Leone XIII aveva ordinato quella demolizione, si offrirono di comprare il legname, ma il Papa non ne volle sapere, e rispose: «Non voglio che si venda nulla, perchè non intendo che si faccia la seconda dei piatti di Castel Gandolfo».

Il Papa manifestava una così bella attività nell’amministrazione delle cose della Chiesa, che meravigliava tutti. Egli aveva creato scuole in così gran numero e così bene ordinate da fare seria concorrenza a quelle municipali, pure eccellenti. Il suo amore per le cose d’arte si rivelava nella attenzione prestata ai restauri della Basilica Ostiense, e nell’incoraggiamento agli artisti a quelli preposti, dal quale non fu escluso il comm. Pareto, ispettore del genio civile. Gli studi storici gli stavano specialmente a cuore, e ne dava prova acquistando codici giuridici preziosi, da Giustiniano fino a Gregorio IX, e collezioni di documenti del secolo XVI, dei quali concedeva l’uso all’Accademia storico-giuridica di Roma, per maggior vantaggio del pubblico.

Sua Santità riunì anche in Roma 150 professori delle università Cattoliche per impartir loro istruzioni sull’insegnamento delle dottrine filosofiche di San Tommaso d’Aquino, alle quali egli ha dato una rifioritura insolita.

In quell’anno l’esito felice della spedizione svedese al polo artico, aveva commosso e stupito il mondo. Il fortunato bastimento che aveva il nome di Vega, era approdato a Napoli, e la spedizione di cui faceva parte anche il tenente Bove, italiano, venne a Roma il giorno 20 di febbraio. Alla stazione fu ricevuta dal sindaco Ruspoli, dal comandante della divisione, generale Bariola, dalla banda municipale, da quasi tutti i membri della Società geografica, dagli studenti dell’università e del liceo, dal ministro di Svezia e Norvegia, da professori, signori e da molte notabilità. Appena i viaggiatori scesero dal treno, il principe di Teano, l’on. Barattieri e il comm. Cristoforo Negri mossero loro incontro, dando il benvenuto al professor Nordenskiöld, capo della spedizione, il quale fu presentato al sindaco. Due belle carrozze di casa Teano accolsero i viaggiatori svedesi. Bove, che tutti cercavano, aveva raggiunto il comm. Malvano e il professor Pigorini, e mescolato fra la folla, era uscito appena veduto e riconosciuto da pochi.

Per via Nazionale i viaggiatori furono salutati da applausi, che gli accompagnarono fino all’Albergo di Roma, dov’erano alloggiati a cura del municipio. La sera il barone di Lindstrand, ministro di Svezia, offrì loro un banchetto. Il giorno dopo i viaggiatori furon ricevuti al Quirinale e nella sera ebbero un banchetto al nuovo Albergo Continentale dalla Società geografica; la terza sera essi pranzarono a corte. Il quarto giorno la spedizione si sciolse; il Nordenskiöld rimase a Roma, il Bove andò ai patri lari, e poi tornò per fare una conferenza in pro di una spedizione italiana al polo antartico, che era l’idea vagheggiata da lui, e gli altri ufficiali andarono a Spezia per vedere il Duilio. A Roma la breve visita dei coraggiosi viaggiatori destò una grande curiosità; tutti volevano vederli e parlare con loro, cosicché ebbero una infinità di visite e di inviti.

[p. 264 modifica]Alla metà di marzo morì Michele Lazzaroni, e il trasporto sontuoso che gli fu fatto e il testamento lasciato da lui dettero luogo a una infinità di comenti. Le ricchezze accumulate da quell’uomo meravigliarono tutti; l’eredità si faceva salire a somme favolose e favolosi i tesori riuniti in via dei Lucchesi.

Questi avvenimenti cittadini erano un diversivo dalle mille questioni, che tenevano continuamente agitata la città, perchè turbavano tanti interessi.

Il dì 11 marzo vi fu la commemorazione di Mazzini, e anche questo fatto interessò Roma.

Un manifesto stampato a cura delle associazioni repubblicane, invitava le altre associazioni e società operaie a partecipare alla cerimonia al Campidoglio. La questura proibì l’affissione del manifesto e sorvegliò la sede delle associazioni in via Montecatini, ove il Dovere aveva i suoi uffici.

I dimostranti non erano molti in principio, ma il loro numero crebbe per via, e molti curiosi li seguirono tanto più perchè si prevedeva che la cosa non finisse liscia. Nel palazzo dei Conservatori, ove era il busto di Mazzini, non si lasciarono entrare altro che una decina di rappresentanti e dalle guardie vennero strappate alcune corone, fra le quali una del comitato delle Alpi Giulie, che era una emanazione dell’Italia Irredenta. Ne nacque un tafferuglio e si udirono grida sediziose. Il Fratti, che era fra gli ammessi nel palazzo, pronunziò un discorso esaltante l’opera di Mazzini, che chiamò Padre della Patria. Dopo di lui parlarono nello stesso senso, ma con minor moderazione il Marconi e il Pomponi e anche il De Luca Aprile, pur affermando di non essere repubblicano.

Terminati i discorsi i deputati stavano per uscire dal palazzo dei Conservatori, quando furono fermati dalle guardie, che arrestarono il Fratti. Un cordone di guardie e carabinieri impedì ai dimostranti di scendere in massa per la gradinata che mette al Fòro romano, dietro al Fratti, che era condotto in questura dai delegati e dalle guardie. Intanto una compagnia di fanteria schierata sulla piazza del Campidoglio, costrinse i dimostranti a sciogliersi in piccoli gruppi.

Il Fratti, tradotto dinanzi al tribunale, fu condannato a due mesi di carcere per le parole sovversive pronunziate all’uscire dal palazzo dei Conservatori.

Fece le spese dei discorsi della città anche il restauro della sala per i matrimoni al Campidoglio.

Il tempietto d’Imene fino a quel tempo era abbastanza brutto e disadorno. Il damasco rosso, nel quale era intessuto lo stemma del comune, le ricche portiere, le dorature e i fiori di cui era stata ornata la sala, destarono l’ammirazione dei cittadini, poco assuefatti a veder gli uffici pubblici arredati con tanto lusso.

Quell’anno i romani ebbero un altro motivo di distrazione: Ismail Pascià, il magnifico vicerè egiziano, sotto il cui governo erasi compiuto il taglio dell’istmo di Suez, era venuto esule in Italia e aveva stabilito alla Favorita, a Napoli, il suo soggiorno. Egli venne a Roma in primavera per vedere la città e visitare il Re e la Regina, che lo riceverono con molta cortesia quasi avessero voluto dimostrargli quanto gli erano grati delle belle accoglienze fatte in Egitto a tanti italiani. L’ex-Kedivè abitava all’albergo Bristol, ore dette un pranzo ai ministri e al sindaco; egli vi si trattenne poco tempo, ma prima che terminasse l’anno prese stabile dimora al villino Telfner, magnificamente addobbato per lui all’uso orientale, e portò qui i cavalli e la servitù e un numeroso seguito di antichi dignitari della sua corte.

In primavera venne pure a Roma la principessa ereditaria di Germania, che viaggiava in istrettissimo incognito sotto il nome di contessa di Lingen. Appena giunta al palazzo Caffarelli ella fece [p. 265 modifica]visita ai Sovrani, che erano alle corse, e che per questo non vide. Il Re e la Regina le restituirono la visita, e la invitarono spesso al pranzo di famiglia, e Margherita di Savoia l’accompagnò a far gite e passeggiate.

La principessa Vittoria non perdè un minuto di tempo. Ella visitò tutto insieme col professor Helbig, e andò ancora nello studio del pittore Vertunni e del Monteverde, ed accettò un pranzo che le offrirono donna Laura e il cav. Minghetti. Dopo Roma la principessa andò a Napoli e nel ripassar di qui si trattenne brevemente.

In primavera morì a Roma il comm. Pericle Mazzoleni, che era stato fino a pochi giorni prima prefetto della provincia e al momento della morte era senatore. La sua perdita dispiacque perchè egli era persona onesta e simpatica.

In quell’anno a Roma si era istituito un comitato per fare una esposizione nazionale, quando il signor Cesare Orsini messe fuori l’idea della esposizione mondiale e fondò anche un giornale per propugnarla. Il comitato raggranellato dal cav. Orsini si componeva di don Felice Borghese principe di Rossano, del principe don Placido Gabrielli, del duca Leopoldo Torlonia, del comm. Eduardo Gioia, del comm. Pietro Pericoli, del cav. Angiolo Mortera, dell’avv. Urbano Rattazzi, del marchese Gliulio Merighi, del comm. E. d’Amico, i quali avevano sottoscritto la seguente dichiarazione:

«I sottoscritti, intesa la relazione fatta dal signor Cesare Orsini, convinti di promuovere una esposizione mondiale a Roma a termine fisso, vale a dire per gli anni 1885-86, nel principale intendimento di stimolare le fonti della produzione nazionale, si costituiscono in comitato promotore allo scopo di predisporre tutti quegli atti che saranno necessari all’attuazione di questa grandiosa idea».

I principi, gli uomini eminenti di ogni paese applaudirono alla iniziativa dell’Orsini, forte lottatore, entusiasta della propria idea, anzi invasato assolutamemte da quella, come tutti coloro che sanno tradurre le idee in fatti. Ma Roma non era preparata a quella grande festa del lavoro e lo capiva. Ella seppe opporre all’iniziativa dell’Orsini quella grande forza negativa dell’inerzia, che oppose in seguito a tutti quelli che volevano l’esposizione, e stancò con la sua apatia l’indole intraprendente di lui. Allora molti sbraitarono, ora forse quelli stessi riconoscerebbero che l’inerzia fu provvidenziale. Roma non è città, né centro di commercio, non aveva raggiunto ancora quel grado di sviluppo relativo che ebbe in seguito, e non era terreno adatto per la mostra mondiale, e neppure nazionale. Difatti aborti pure il progetto di una esposizione limitata ai soli prodotti italiani, e Roma si fece vincere la mano da Milano e da Torino, come se l’è lasciata vincere anche in seguito tutte le volte che qualcuno ha tentato di raccogliere i capitali per una esposizione.

L’Istituto di Propaganda Fide non aveva mai voluto riconoscere la legge sulla soppressione delle corporazioni religiose, e per conseguenza rifiutava di accettare le disposizioni che lo riguardavano. I beni immobili dell’Istituto, nel 1880, non erano stati ancora convertiti in rendita, l’Istituto aveva ricorso al tribunale. Esso stabilì che tutti i beni di Propaganda Fide, rustici e urbani, erano soggetti a conversione e dovevano essere venduti all’asta pubblica. Peraltro, una parte importante di quei beni proveniva dalla eredità del cardinale Ercole Consalvi, il quale nominava suo erede fiduciario universale monsignor Buttaoni e lasciava appunto all’Istituto il suo cospicuo patrimonio.

I parenti del Consalvi, quando fu promulgata la legge del 1873, fecero pratiche per rivendicare il patrimonio, e appena pronunziata la sentenza del tribunale fecero opposizione, basando questa sul fatto specialmente della non osservanza di alcune clausole del testamento. La questione non doveva risolversi tanto presto. Vedremo in seguito per quali fasi essa passò prima di essere definita.

[p. 266 modifica]Un’altra questione eterna, come tutte quelle che riguardano Roma, era sorta a Torino nel seno del quarto Congresso artistico, che si tenne nel maggio in quella città. Al Congresso era stato proposto che le esposizioni, da quel tempo in poi, invece di essere circolanti fossero permanenti, e dovessero tutte farsi a Roma, ove Governo, municipio e provincia avevano stanziato somme per l’erezione di un palazzo di Belle Arti. Quella proposta fu respinta, e venne invece accettato un ordine del giorno puro e semplice del Martini. In conseguenza di quel voto i romani, i napoletani e i siciliani che assistevano al Congresso, lasciarono l’aula e affidarono a Rocco de Zerbi la cura di redigere una protesta, che è la seguente:

«Stamane, discutendosi nel quarto Congresso artistico della utilità e della importanza dei congressi, il signor Buongiovannini ha proposto un ordine del giorno il quale dicea che i congressi, per essere utili, debbono non contradire alle loro precedenti deliberazioni, quando l’esperienza non lo abbia ancora consigliato; ed aggiungeva che si avesse a nominare una commissione con l’incarico di caldeggiare quelle deliberazioni.

«Dopo viva discussione, quest’ordine del giorno venne implicitamente respinto con l’approvazione dell’ordine del giorno puro e semplice.

«I sottoscritti, desumendo da ciò la vita effimera delle deliberazioni dei congressi, che a priori debbono potersi contradire senza averne un motivo, credendo inutile di perder tempo a far oggi ciò che s’ha a disfare domani, disfacendo pur oggi quel che ieri fu fatto, preferiscono ritirarsi dalla prima sezione del Congresso medesimo, lasciando alla maggioranza tutta la responsabilità delle sue deliberazioni».


I siciliani e i napoletani si unirono ai romani nella protesta, perché nel Congresso di Napoli del 1877 era stato appunto deliberato che le esposizioni dovessero essere permanenti a Roma, accordando, in via eccezionale, che se ne tenesse una a Torino nel 1880.

Il concetto che aveva guidato il Martini nell’opporsi alle esposizioni permanenti a Roma, era quello del decentramento, parola che suona male trattandosi d’arte, ma che rispondeva a una idea giusta. Egli non voleva che le tendenze artistiche delle diverse regioni d’Italia potessero modificarsi a Roma, che avrebbe a lungo andare imposto il gusto proprio agli artisti di tutto il regno. Egli voleva conservate quelle tendenze e quelle scuole, che ebbero in arte un passato glorioso. Ma a Roma si rimpiccoli la questione e se ne fece un ripicco di campanile, volendo far supporre che il voto fosse contrario alla supremazia di Roma sulle altre città italiane. Il Congresso aveva voluto che l’esposizione del 1882 si dovesse tener qui, ma intanto mancava il palazzo per accoglierla. Il sindaco Ruspoli era dimissionario, ma volle, prima di lasciare il Campidoglio, metter mano alla costruzione. Con molta sollecitudine, egli ottenne dal Governo la cessione dell’area, e il 6 giugno, nella ricorrenza dello Statuto, il Re poneva la prima pietra dell’edifizio di via Nazionale. Sulla lapide che fu calata nello scavo era incisa la seguente iscrizione:

s. p. q. r.
regnante umberto i
il comune
concorrendovi provincia e governo
fondò l’edificio
consacrato all’esposizione di belle arti
nazionale permanente
vi giugno mdccclxxx

[p. 267 modifica]In quell’occasione fu presentato al Re l’architetto Pio Piacentini, autore del progetto per il palazzo, e il Sindaco pronunziò un discorso molto elevato. Eccolo:

«All’augusta presenza di Sua Maestà il Re e dei consiglieri della Corona, alla presenza degli onorevoli de Sanctis, Bonghi e Coppino, iniziatori di questa grande idea, è per me un altissimo onore lo adempiere al mio ufficio di sindaco di Roma, inaugurando questa desiderata opera nazionale.

«Quest’atto riassume i desideri e le speranze dell’arte italiana, nè può essere indifferente anche al di là delle Alpi.

«Un risveglio delle arti belle nella terra di Michelangiolo, di Raffaello e di Leonardo da Vinci, deve interessare vivamente quanti amano e coltivano il bello nel mondo civilizzato.

«Il municipio romano compie ora un atto solenne, forse il primo in cui a nome della Nazione esercita le sue funzioni di capitale, iniziando un’opera nella quale deve svolgersi la vita artistica della Nazione.

«Roma, più d’ogni altra, desidera che quale fu stretto nelle eterne sue mura il fascio delle forze politiche della Nazione, si stringa il fascio delle virtù intellettive degli italiani pel bene della comune patria.

«Residenza degli alti rappresentanti delle potenze amiche presso due corti sovrane, sede degli istituti scientifici ed artistici delle grandi Nazioni, qui, meglio che altrove, potrà il mondo giudicare se l’Italia sia sempre la madre d’ogni nobile creazione dell’umano pensiero. Sia questa Roma adunque, il cui nome rammenta tante grandezze e tanto solleva alto lo spirito nostro, sia questa la terra ospitale delle serene e pacifiche gare delle arti belle.

«Quando Roma sarà l’arena di ogni nobile emulazione, quando rivaleggeranno le prove del genio molteplice delle terre italiane, quando i cultori delle scienze e delle arti fisseranno i patriottici convegni in questo suolo, culla della latinità e della civiltà cristiana, allora Roma avrà compiuto la sua nobile nuova missione, e più bella e benedetta splenderà sulla eterna sua fronte la corona di capitale.

«Nessun sacrificio può intimidire il municipio di Roma nel progressivo cammino verso questa nobile mèta.

«La città nostra non può, non deve assorbire il genio delle città sorelle, ma deve e può essere il teatro di queste nobili gare, può e deve ospitare le creazioni del genio, perchè dalla unione delle forze e delle virtù patrie, scaturisca la gloria della Nazione, e la felicità del popolo italiano.

«Raggiungere di nuovo il primato che ci è sfuggito, ecco il compito degli artisti italiani, ecco il voto della Nazione.

«Sotto gli auspici di un Re magnanimo, che tutto ha consacrato alla patria, che adora quanto il suo popolo la gloria d’Italia, tutto è possibile, anche le più audaci speranze.

«Il popolo italiano, unito al suo Re, non vuole affievolirsi in sterili lotte, vuole lotte benefiche e produttive, vuole che la sua potente vitalità si svolga come nei secoli scorsi.

«La patria ama ed è fiera degli artisti suoi; essa rammenta che in mezzo alle tante sventure del passato, fra le rovine della civiltà romana che coprivano questo suolo, mentre lo straniero dominava da un capo all’altro, mentre tutto era perduto, gli artisti soli seppero, sereni e perseveranti, attendere a nuove creazioni, salvando dall’oblio e forse dal disprezzo straniero, il nome italiano.

«Sorga dunque sopra questa pietra ardito ed immortale il tempio delle arti, e la sua apoteosi sia consacrata non da adulatrici iscrizioni, ma dal lavoro e dal genio dei figli d’Italia».

Gli artisti non potevano rimanere indifferenti a quanto aveva fatto il sindaco per risolvere la questione del palazzo della esposizione permanente di belle arti. Adunatasi l’Associazione artistica internazionale, essa prese per acclamazione la deliberazione seguente, che il presidente Vallès si affrettò a comunicare all’on. Ruspoli:

«L’assemblea della Associazione artistica internazionale, nella seduta del 7 corrente, applaudiva all’esemplare attività mostrata dal Sindaco e dall’intero Consiglio comunale nel vincere le difficoltà per [p. 268 modifica]tradurre in atto l’edificio destinato all’esposizione stabile di belle arti in Roma, mostrando piena fiducia che gli artisti sapranno in tal guisa tentare di ricondurre l’arte italiana alla sua gloria passata.

«I componenti l’Associazione, interpreti dei sentimenti di tutti gli artisti di Roma, delegano il socio Ettore Ferrari, in pubblica assemblea, ad esternare al signor Sindaco e a tutti i Consiglieri i più vivi ringraziamenti».


Il municipio incominciò i lavori di sterro per il palazzo, e siccome si riteneva che l’area non fosse sufficiente, il Re offri di cedere un pezzo di terreno attiguo di sua proprietà. L’appalto dei lavori fu dato al signor Jonni, abile costruttore.

Il 19 giugno vi fu a Roma un’altra festa, ma di carattere scientifico. Venne inaugurato l’ufficio centrale di meteorologia al Collegio Romano, e a quella festa intervennero il Presidente del Consiglio e i ministri Miceli e Acton. Naturalmente il ministro d’agricoltura tesse gli elogi del padre Secchi, fondatore dell’Istituto. Il prof. Tacchini aveva riordinato l’ufficio e ne era anche in in quel tempo direttore.

Anche gli Spagnuoli, pensionati dal Governo di Madrid, ebbero in quella estate del 1880 la loro Accademia. Col provento della vendita della chiesa di San Giacomo, a piazza Navona, il Governo di re Alfonso XII fece riattare il convento attiguo alla chiesa di San Pietro in Montorio, fondato da Isabella la Cattolica, e ridusse a giardino il declivio della collina fino alla via Garibaldi, migliorando molto quella passeggiata amenissima.

I rapporti fra il re Umberto e il principe Torlonia eransi mantenuti sempre cordialissini, e il Re, prima di partire da Roma nell’estate, faceva rimettere a don Alessandro Torlonia due grandi medaglie d’oro: la prima coniata per la morte di Vittorio Emanuele, la seconda in memoria della propria esaltazione al trono. Il conte Visone consegnò al principe Torlonia le due medaglie, insieme con una lettera cortesissima. Don Alessandro andò subito al Quirinale a ringraziare il Re. La visita durò lungo tempo e fu oltre ogni dire cordiale.

Il Re, in quell’anno, volendo dare incremento all’allevamento dei cavalli e alle corse di Roma, istituì il Derby Reale, assegnando 24,000 lire di premio al cavallo vincitore e 6000 per altra corsa. Subito si aprirono le iscrizioni delle cavalle che dovevano avere un redo dentro l’anno. Il primo Derby reale doveva esser corso nel 1884, perché l’età assegnata per i cavalli corridori era di tre anni. Il generoso premio del Re ha dato larghi frutti, e non solo da quel tempo si è curata maggiormente la razza equina, ma i cavalli italiani hanno incominciato a correre anche all’estero con profitto degli allevatori.

Dopo chiusa l’Esposizione di Torino, alla quale Ettore Ferrari aveva esposto il suo gruppo: Cum Spartaco pugnavit, che ebbe la medaglia d’oro, piovvero addosso all’artista due accuse di plagio, delle quali seppe lavarsi, ma che suscitarono fra gli artisti non pochi pettegolezzi. La prima gli fu mossa dal Monteverde, il quale asseriva che il gruppo era una copia di quello dello scultore Barrias, che trovasi all’accademia di Francia. Il Ferrari espose dal Monaldini, a piazza di Spagna, la fotografia del suo gruppo e di quello del Barrias e vi fu un vero pellegrinaggio per vederli. L’altra accusa gli fu mossa dal signor Publio Cartini, il quale pretendeva che il progetto del monumento del Ferrari per Vittorio Emanuele da inalzarsi a Venezia fosse simile, come sentimento e come concetto, a un altro progetto fatto dal Cartini nel 1877 per commemorare il Plebiscito. La mossa del cavaliere, la differenza delle linee del piedistallo, tutto fece riconoscere che quest’accusa era un cavillo e null’altro.

Del monumento a Vittorio Emanuele si parlò assai in quell’anno. Il lettore rammenterà che [p. 269 modifica]la commissione per il progetto composta del senatore Giorgini, del marchese Guiccioli e di altri, aveva proposto che fosse eretto un arco trionfale, che doveva sorgere all’Esedra di Termini. Il Guiccioli nel luglio 1880 propose in una relazione alcune varianti; una che lasciava agli artisti la scelta della forma del monumento, un’altra che non prescriveva la località ove doveva scrgere, una terza che prolungava di due anni il termine utile per la presentazione dei bozzetti, e una quarta infine che aumentava il primo premio da 30,000 a 50,000 lire, il secondo da 20,000 a 30,000 e il terzo da 10,000 a 20,000.

In settembre il ministro dell’interno istituì una nuova commissione composta del prof. Bertini, del prof. Camillo Boito, dell’ing. Canevari, del prof. Ceppi, di Cesare Correnti, di Francesco de Renzis, del prof. Dupré, del prof. G. B. Giorgini, del marchese Alessandro Guiccioli, del prof. Ferdinando Martini, del prof. Vincenzo Vela, del comm. Tullo Massarani, del prof. Domenico Morelli, del dott. Giovanni Morelli, del comm. Marco Tabarrini, del marchese Vitelleschi e del prof. T. Azzurri, presidente dell’Accademia di S. Luca. Il de Renzis doveva funzionare da segretario. Per conferire i premi, erano indispensabili dieci voti favorevoli. Dal 20 al 25 settembre la commissione si riunì di continuo e nell’ultimo giorno presentò al Governo le norme del concorso, stabilendo la data del 25 agosto 1881 per la presentazione dei progetti.

Erano trascorsi dieci anni dalla liberazione di Roma e il 20 settembre fu festeggiato con grande solennità. La Giunta Municipale andò in pompa magna a deporre una corona al Pantheon ove l’avevano preceduta i ministri, le rappresentanze della Camera e del Senato, del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e di quella di Cassazione, e un infinito numero di associazioni. Dopo il Pantheon vi fu la commemorazione della breccia e parlò l’Armellini, funzionante da Sindaco, e il Presidente del Consiglio, on. Cairoli, pronunziò un applauditissimo discorso. La festa riusci bella e ordinata. La sera vi furono feste popolari in piazza Colonna e in piazza Navona, e in quella del Popolo fu eseguita la gran marcia-battaglia del Mililotti, intitolata: La presa di Roma.

Pochi giorni prima l’Armellini si era recato a Civitavecchia a consegnare finalmente alla corazzata Roma, la bandiera delle signore romane. Anche quella della consegna della bandiera era divenuta una questione eterna, cosicché quando la nave ebbe il suo ricco vessillo, era già al tramonto della breve esistenza, e forse il ministro della marina aveva già decretato di radiarla dal numero delle navi di combattimento.

Garibaldi venne in autunno sul continente, ma non a Roma. Egli andò a Genova a visitare Canzio in prigione e poi a San Damiano d’Asti, paese nativo della moglie. Però prima di lasciare Caprera diresse questa lettera ai suoi elettori del 1° collegio di Roma, che rivelava tutta la sua amarezza per l’imprigionamento di Canzio.

«Miei cari amici,

«È con dolore che io devo rinunziare a rappresentarvi nel Parlamento. Coll’animo sarò con voi sino alla morte. Oggi però, non posso più contare tra i legislatori, in un paese, ove la libertà è calpestata, e la legge non serve nella sua applicazione, che a garantire la libertà ai gesuiti, e ai nemici dell’unità d’Italia, per la quale sono seminate le ossa dei migliori de’ suoi figli, su tutti i campi di battaglia, in sessant’anni di lotta.

«Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa, miserabile all’interno ed umiliata all’estero ed in preda alla parte peggiore della nazione. E non vorrei che il mio silenzio s’interpretasse siccome un’affermazione all’inqualificabile contegno degli uomini che sgovernano il paese.

[p. 270 modifica]

«Al suffragio universale, e non ai voti di pochi privilegiati, si addice il compito di mandare a rappresentarlo uomini che possano e vogliano fare la grandezza e la prosperità della gran patria italiana. Deputato o no, sarò sempre per la vita, vostro


Eguale rinunzia inviava Menotti Garibaldi ai suoi elettori di Velletri.

Il comitato elettorale del 1° collegio di Roma redasse un indirizzo a Garibaldi con cui lo pregava di desistere dalle dimissioni.

Era la terza volta che Garibaldi rinunziava alla deputazione. La prima volta nel 1863 rassegnà il mandato conferitogli dagli elettori di Napoli; la seconda nel 1868 rinunziò essendo deputato di Ozieri, e la terza nel 1880.

La Camera, quando fu riconvocata in novembre, non accettò le dimissioni di Garibaldi; secondo l’uso invalso allora, gli accordò un congedo di tre mesi.

Il 25 settembre si riunì a Roma l’XI Congresso Pedagogico, che fu inaugurato dal ministro della pubblica istruzione, on. de Sanctis, nella sala degli Orazi e Curiazi. A presidente fu eletto il conte Terenzio Mamiani. Contemporaneamente venne inaugurata nel Collegio Romano una importantissima mostra didattica. Il cortile del palazzo era stato trasformato in un bel giardino. La mostra degli oggetti delle scuole comunali di Roma occupava l’Aula Massima; avevano largamente esposto l’Ospizio di Termini, quello di San Michele, la scuola Professionale, quella «Erminia Fuả Fusinato» e le altre di Roma. L’esposizione era sempre affollatissima.

Il Congresso si chiuse il 6 ottobre e negli ultimi giorni la discussione procede calma; non così nei primi, allorché fu messa in campo la questione del culto nelle scuole e la maggioranza del Congresso emise il voto che l’insegnamento dovesse essere solamente civile. Il compianto Aristide Gabelli, uno degli uomini più benemeriti dell’istruzione elementare, rimesse la discussione su una via meno scabrosa e così il Congresso potè compiere un lavoro utile. Prima di sciogliersi esso mandò un voto di plauso al municipio di Roma per aver in dieci anni, e lottando contro forti ostacoli, portato le scuole al grado ove erano giunte le altre d’Italia in un periodo di tempo molto più lungo.

Il primo premio fu riportato dal comune di Trieste, altri ne ebbero Napoli, Palermo, Bologna, Padova, Ferrara e Udine.

Una questione grossa fu in quell’anno anche quella dell’aumento della quota del dazio consumo che il comune doveva retribuire al Governo. Questo chiedeva per il quinquennio un aumento di 6,500,000 lire; la Giunta non era proclive ad accordargli altro che 2,500,000 lire pagandone il primo anno 300,000 di più dell’anno precedente, e aumentando ogni anno 100,000 lire fino a raggiungere il massimo di 700,000. Cosi in cinque anni si sarebbero raggiunti i 2,500,000. Il Consiglio, udito il rapporto della Giunta, approvò nella seduta del 28 settembre la proposta, come approvò la convenzione col Governo per il concorso per Roma dopo che ebbe udita la lettura di una missiva del Presidente del Consiglio, Cairoli, con la quale assicurava d’impegnare tutta la sua responsabilità per ottenere l’approvazione di quel progetto di legge.

I maggiori vantaggi che il Governo aveva accordato per Roma erano i seguenti: Il termine dei lavori governativi era fissato a un decennio. I lavori municipali obbligatorii, dai quali era stato tolto il mercato centrale, dovevano essere eseguiti non più in quindici, ma in venti anni, mentre poi per i lavori facoltativi era lasciato libero il Comune di eseguirne altri riconosciuti di maggiore [p. 271 modifica]urgenza. Il concorso governativo, che prima era stato fissato in due milioni l’anno per i primi venti anni e uno soltanto per i dieci successivi, era stato invece ripartito in 25 rate annuali di due milioni.

Il progetto governativo fu firmato il 15 novembre e il 16 l’on. Depretis lo presentava alla Camera. In quella stessa seduta l’on. ministro delle finanze presentava l’altro progetto per l’abolizione del corso forzoso. L’annunzio solo di questa operazione finanziaria aveva gettato lo scompiglio sul mercato italiano. Tutti i fondi erano subito ribassati e la Banca Nazionale aveva dovuto aumentare di dieci milioni le somme destinate agli sconti commerciali e spedire più di tre milioni a Torino, ove il progetto governativo era accolto peggio che altrove e le domande del commercio erano maggiori. Il paese si era commosso alla notizia dell’abolizione del corso forzoso, più che ad ogni altra, e l’idea di riavere l’argento e l’oro invece della carta sorrideva a tutti. Il solo timore che si nutriva era quello che il ministro Magliani non avesse la forza di condurre a salvamento la questione, e che il progetto di lui fosse poco vantaggioso per le finanze italiane.

L’incertezza nel paese durò qualche tempo, perché il ministero non aveva provveduto alla stampa del progetto di legge e occorsero diversi giorni prima che potesse essere distribuito ai deputati.

Mentre si attendeva quella distribuzione le interpellanze incominciarono a fioccare come grandine sul capo del ministero. L’on. Maurigi interrogò il ministro degli esteri sulla dimostrazione navale in Albania; l’on. Massari sulla politica estera; l’on. Damiani sui gravi avvenimenti che si compivano a Tunisi, ove l’Italia perdeva ogni giorno più la sua influenza; l’on. Savini sulla stessa quistione scottante; l’on. Giovagnoli sulla immigrazione dei gesuiti in Italia; l’on. Bonghi sulla debolezza di cui aveva dato prova il Governo di fronte ai partiti sovversivi; l’on. Bartolucci sulla circolare dell’on. Villa rispetto ai gesuiti espulsi dalla Francia, che cercavano asilo in Italia; l’on. Berti sulla politica interna.

Ho enumerato tutte queste interrogazioni e interpellanze perché sono una prova della poca fiducia che ispirava il Governo, specialmente con la sua politica estera. Le dichiarazioni fornite dall’on. Cairoli sulle diverse questioni toccate dagli interpellanti non rassicurarono, anzi fecero capire che egli non si rendeva conto dei fatti di Tunisi, ove la società Rubattino aveva acquistata a caro prezzo la ferrovia Goletta-Tunisi e il Governo francese, e per lui la società di Bona-Guelma, chiedeva la concessione di una linea parallela, che non gli fu accordata, ma gliene furono accordate altre. Contro queste concessioni l’on. Cairoli asserì che non poteva intervenire.

Dalle parole di lui si capì che la Francia non ammetteva che l’Italia, neanche pagando, potesse esercitare nella Tunisia i diritti consentiti a qualsiasi Stato, e che il Bey avrebbe ceduto sempre alle pretese della Francia, perchè il Governo italiano non aveva la forza di opporsi.

Le blande dichiarazioni dell’on. Depretis sui moti repubblicani fecero inoltre capire che il Ministero cercava un accordo con i radicali in previsione di un voto, e ciò dispiacque alla Camera.

E l’appoggio loro non gli mancò, cosicché nella votazione ebbe 33 voti di maggioranza, scarsa e raccogliticcia peraltro, che fece subito correr voce di un rimpasto ministeriale.

Dopo quella votazione si discussero i bilanci di prima previsione dai due rami del Parlamento. L’on. Bonghi riportò alla Camera la questione della biblioteca Vittorio Emanuele, perchè nella relazione della commissione d’inchiesta si era veduto specialmente accusato di aver ordinato i cambi dei doppioni con libri moderni forniti dal Bocca, e di aver così facilitato il trafugamento di moltissime opere, alcune anche importanti. E l’accusa non si limitava a questo; dicevasi pure che egli [p. 272 modifica]avesse fatto acquistare dalla biblioteca una raccolta di libri di un suo zio. L’on. Bonghi si difese bene e la sua onestà risultò lampante dalle dichiarazioni dell’on. Coppino e dell’on. de Sanctis, che erano stati ministri dopo di lui, ma non così egli potė lavarsi dall’accusa d’imprevidenza per aver dato l’ordine del cambio dei doppioni, benchè tutti i ministri dell’istruzione pubblica avessero la loro parte di colpa nelle dispersioni, come asseriva l’on. Martini.

La Camera non potè discutere il progetto di legge sul corso forzoso, perchè gli uffici non poterono terminarne l’esame prima delle vacanze, che dovevano esser lunghe quell’inverno, a motivo del viaggio dei Sovrani e dei ministri in Sicilia e la Camera non si sarebbe potuta riaprire altro che tardi. Una sorte quasi simile a quella dell’abolizione del corso forzoso toccò alla riforma elettorale. L’on. Zanardelli presentò una voluminosa relazione, che nessuno ebbe tempo di esaminare e cosi il progetto di legge non potè esser discusso.

Il 28 novembre fu aperto al pubblico il teatro Costanzi con la Semiramide. L’opera non piacque, ma il teatro piacque moltissimo. Con applausi prolungati fu acclamato il Costanzi e si volle vedere insieme con l’architetto Sfondrini, col Brugnoli, che aveva dipinto la volta, e col bravo Luigi Bazzani.

I Sovrani, che dopo la morte di Vittorio Emanuele erano andati raramente al teatro, vollero onorare quella festa della città e anch’essi furono applauditissimi. Non c’era un palco vuoto, altro che i due fissati dall’ ex-Kedivè, il quale non era ancora giunto a Roma. Il Costanzi, che aveva speso due milioni nel teatro, quella sera non li rimpiangeva davvero, vedendo come tutti ammiravano il suo teatro. Il Re lo creò cavaliere e lo riceve al Quirinale.

Un’altra inaugurazione, meno grandiosa, ma della quale Roma parlò per qualche giorno, fu l’inaugurazione del caffè Sommariva sotto il portico di Veio, caffè detto delle Colonne, che ebbe una celebrità e divenne il ritrovo di chi fa di notte giorno. Servivano le Kellerine e la gente che non voleva entrare, si affollava davanti per vederle tutte vestite di nero, con i polsini e il grembiule bianchi, procaci e svelte andar da un tavolino all’altro dispensando sorrisi e raccogliendo monete nel piattello. Allora la più elegante e la più ammirata era una francese, Hannah, che fece gli onor della inaugurazione.

Accanto al caffè delle Colonne era stata aperta la trattoria del Fagiano, vecchia trattoria romana, frequentatissima per molti anni, specialmente da giornalisti e da artisti. In piazza Montecitorio, cioè alle spalle di questi due stabilimenti, si apri pure l’albergo Milano, che ha sempre avuta una buona clientela. Al primo piano del palazzo Wedekind si stabili il Circolo Nazionale, il piano delle piazze Colonna e Montecitorio fu regolato, e cosi esse migliorarono molto in quell’anno.

Il municipio aveva fatto molti lavori di fognatura, aveva stabilito ai Cerchi un mercato per gli erbaggi, aveva aperto al pubblico transito quel viale che da piazza Vittorio Emanuele va a Porta Maggiore e intrapreso i lavori per la via Cavour. Per i lavori della piazza dell’Esquilino era stata rimossa la colonna in memoria dell’abiura di Enrico IV che è dinanzi alla facciata della Basilica di Santa Maria Maggiore. In Vaticano si meno molto rumore per quel fatto e le discussioni in città duraron del tempo, finchè la colonna non fu eretta di nuovo.

Una provvida deliberazione era stata adottata dalla benefica società per gli Ospizi Marini. Essa aveva acquistato ad Anzio l’antica villa Albani, già residenza di Pio IX e dalla quale una volta aveva assistito alle manovre combinate del suo esercito con l’Immacolata Concezione. Dal 1880 in poi i poveri bimbi scrofolosi furon mandati a fare i bagni ad Anzio ed ebbero una vasta e bella dimora.

[p. 273 modifica]


PALAZZO DEL MINISTERO DELLE FINANZE [p. 275 modifica]Un altro istituto di beneficenza sorse in quel tempo a Roma; alludo allo stabilimento del padre Sempliciano, che ha sempre acquistato maggiore importanza ed ora è uno dei più provvidi della città.

I lavori non avevano avuto molto impulso in quell’anno e non potevano averne per colpa del Concorso Governativo, che tardava tanto. Però furono quasi terminati quelli della Porta del Popolo, fatti i marciapiedi al Macao, espropriate alcune case intorno a Panisperna per il nuovo Orto Botanico.

Sulla Porta del Popolo furono collocate queste due lapidi.

anno mdccclxxx
restitutae libertatis x
turribus utrinque deletis
frons producta instaurata



s. p. q. r.
urbe italiae vindicata
incolis feliciter anelis
geminos fornices condidit

Uno degli avvenimenti di quell’anno lu l’arrivo di monsignor Massaia, l’apostolo delle missioni africane, il coraggioso cappuccino, che aveva soggiornato per più di trent’anni nell’infausto paese, ove tanti europei hanno lasciato la vita. L’anno prima, nel giugno, monsignor Massaia che era amico del re Menelik e serviva d’intermediario fra quel sovrano e i principi curopei, era stato chiamato improvvisamente da re Giovanni in Abissinia. Quel fortunato guerriero aveva reso vassallo anche il re dello Scioa e allontanava da lui anche il Massaia, che fu inviato insieme con i suoi ai confini con proibizione espressa di mai più tornare indietro, pena la vita. Il missionario provò un gran dolore, vedendo troncata da re Giovanni l’opera che eragli costata la parte migliore della sua esistenza, ma dovette rassegnarsi, e dopo un soggiorno in Egitto tornò in Italia e giunto a Roma andò subito alla Rufinella, presso Frascati. In quel luogo andarono il Baratieri e il ministro Villa a portargli la croce di cavaliere. Da ciò nacque un gran pettegolezzo, perchè monsignor Massaia la rifiuto, e si disse che il rifiuto era stato sgarbatissimo e il missionario avevalo motivato citando i cattivi procedimenti del Governo contro Propaganda Fide. Pare invece che egli solamente avesse fatto osservare che il suo abito di cappuccino non gli permetteva di portare decorazioni.

In autunno fecero breve dimora a Roma anche i sovrani di Grecia, che avevano peregrinato in quasi tutte le Corti di Europa per render favorevoli i Governi alla causa ellenica. Abitavano all’albergo del Quirinale e furono cortesemente accolti, ma non partirono soddisfatti di ciò che avevano ottenuto.

Sul finire dell’anno vennero pure per trattenersi tutto l’inverno i granduchi Sergio e Paolo di Russia. Essi abitavano la villa Sciarra al Gianicolo e il loro seguito l’altra già Spada e allora Wedekind.

La villa Sciarra era addobbata semplicemente. I due fratelli avevano sale da studio separate, ma comune la sala di ricevimento e la camera da letto. La baronessa d’Uxkull aveva diretto [p. 276 modifica]l’addobbo della casa, le cui pareti erano tutte rivestite di cretonne e adorne di maioliche della fabbrica Tanfani, che aveva in quel tempo a Roma un certo grido.

I due fratelli andarono subito al Quirinale, ma si preparavano a far vita tranquilla, perchè venuti a Roma per salute.

In Vaticano era avvenuto un cambiamento importante. Il cardinal Nina, segretario di Stato, infiacchito dopo una lunga malattia e desideroso di riposo, si era ritirato dalla sua carica, conservando quella meno onerosa di Prefetto dei Sacri Palazzi. Si diceva dovesse succedergli il cardinal Jacobini, nunzio a Vienna, uomo nel pieno vigore dell’intelligenza e della vita.

Il Papa lo aveva scelto appunto perché a Vienna il cardinale aveva acquistata molta pratica degli affari, conosceva bene gli uomini influenti di quel paese, ed era in buoni rapporti con i diplomatici.

Leone fra tante cure che davagli il governo della Chiesa, trovava talvolta il tempo di occuparsi di cose meno gravi.

Nacque nel settembre una prima figlia al Re Alfonso XII e alla Regina Maria Cristina. Di quella infante reale fu compare Leone XIII, il quale volle mandarle il corredo, che venne ordinato al magazzino Salvi, che forniva e fornisce anche la casa reale. La marchesa Vitelleschi ordinò il corredo, ma il Papa desiderò esaminarlo da sè, e fece andare la signora Salvi al Vaticano. Quel corredino era ricco per i merletti di Bruxelles, di Valenciennes e di Bruges, per i ricami in bianco e in oro ed elegantissimo per la squisitezza dei lavori e ci fu a Roma una grande curiosità per vederlo.

Molti insigni uomini erano morti a Roma nella seconda metà dell’anno. Era morto Emidio Pacifici-Mazzoni; in settembre mori il comm. Antonio Sarti di Budrio, presidente perpetuo dell’accademia di San Luca e benemerito di quell’istituto al quale da vivo aveva già regalato la sua pregevole biblioteca d’arte, una delle più complete che si conoscano; morirono pure il barone Visconti, insigne archeologo, il cardinal Pacca e Mauro Macchi, senatore e buon patriotta e amato e stimato da tutti.

Due importanti innovazioni si compirono prima che l’anno terminasse. Venne inaugurato il tram per Marino e l’altro che congiungeva la piazza Venezia alla Stazione.