Rivista di varii scritti intorno alla Strada ferrata da Milano a Venezia

Carlo Cattaneo

1840 Indice:Cattaneo - Rivista di varii scritti intorno alla Strada ferrata da Milano a Venezia.djvu Ferrovie Rivista di varii scritti intorno alla Strada ferrata da Milano a Venezia Intestazione 21 giugno 2021 75% Da definire


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RIVISTA



Primi studj dell’ingegnere Tomaso Meduna intorno ad un progetto di ponte sulla Laguna di Venezia (Negli Annali di Statistica, dicembre 1836).

Strada ferrata da Venezia a Milano (Atti officiali della società). Venezia, Gondoliere, 1837, con tre tavole.

Memoria, ec., in rapporto ai bisogni della città e provincia di Bergamo. Bergamo, Crescini, 1837.

Id. con alcune osservazioni degli Annali di Statistica. Milano, Lampato, 1838.

Esame delle Osservazioni degli Annali di Statistica. Bergamo, Crescini, 1838.

Primo rapporto annuale dell'ingegnere G. Milani. Milano, Bernardoni, 1838.

Progetto dell'ingegnere Bruschetti per la strada di ferro da Milano a Bergamo (Biblioteca Italiana, tomo 89), 1838.

Statuti della società per la strada ferrata ec. Milano, Bernardoni, 1838.

Nuovo esame della questione per congiungere la città di Bergamo ec. Bergamo, Crescinì, 1840.

Qual linea seguir debba da Brescia a Milano, ec. Memoria dell’ingegnere Milani. Milano, Bernardoni, 1840.

Dietro quali considerazioni ec. si debba determinare il luogo ove cominciare i lavori ec. Memoria dell’ingegnere Milani. Venezia, Gondoliere, 1840.

Sopra la risoluzione degli Azionisti nel congresso di luglio 1840: discorso di J. Castelli. Venezia, Santini, 1840

Protocollo del primo congresso generale degli azionisti in Venezia ec.; (col rendiconto dei direttori). Venezia, Gondoliere, 1840.

Progetto dell’ingegnere G. Milani. Venezia, Antonelli, 1840, con tavole.

Dell'importanza di bene scegliere le linee per le strade ferrate in Lombardia. Memoria di Carlo De Kramer. Milano, Pirola, 1840.

Cenni sulla questione della linea da Milano a Venezia: di J. P. Milano, Lampato, 1841.

Le strade ferrate in Lombardia: cenni dell’ingegnere C. Possenti. Milano, Monti, 1841.

Sul vantaggio che passi per Monza e Bergamo ec. Memoria dell'ingegnere G. Rossetti. Milano, Pirola, 1841.

Cenni sull’industria e sul commercio di Treviglio. Treviglio, Messaggi, 1841.

Lettera dell’ingegnere G. Milani sopra la Memoria intitolata Nuovo esame ec. Milano, Lampato, 1841.

Sulla scelta della linea per le strade di ferro in Lombardia, ulteriori cenni ec. dell’ingegnere G. Bruschetti. Milano, Bernardoni, 1841. [p. 41 modifica]

È oramai ben inoltrato il sesto anno dachè si mossero le prime pratiche per costruire una strada ferrata da Venezia a Milano; ma, quando altre imprese, messe in campo qualche anno più tardi, si vedono già compiute, sembra che un sinistro incanto condanni questa ad una fatale immobilità.

Eppure non le mancò la più felice aura di Borsa; non le mancò il favore dei potenti; non le mancarono fedeli e solléciti consiglj; e il paese nostro possede un corpo d’ingegneri avvezzi a vincere fra le strette delle Alpi le più intrattabili difficoltà, ed a condurre coi tenui mezzi communali da monte a monte una folta rete d’ottime strade. E, ciò che più vale, il terreno, sul quale dovrebbe stendersi la nuova impresa, congiunge all’attitudine naturale d’una vasta pianura una singolare ubertà animata da un’antica industria, e una tal densità di popolazione quale non si riscontra in altra simile ampiezza di paese.

Se adunque non s’interpongono ostacoli fondamentali, perchè lasceremo noi che impedimenti estrani affatto alla natura stessa dell’opera ne arrestino il corso? Perchè non ci faremo a investigare le illusioni e gli errori, sotto il cui dominio le più rette intenzioni rimasero infruttuose, e gli anni ci sfuggirono, senza che sul terreno rimanga traccia del loro passaggio? Quando si tratta d’un progetto che involge la fortuna d’innumerevoli famiglie, e deve mutare in meglio le condizioni di tutte le proprietà del regno, saranno dunque i consigli più scarsi e più numerati che i milioni? L’autorità stessa, concedendo di sottomettere ad esame e critica nei publici fogli il procedere delle società industriali, e togliendo a queste ogni altro schermo che quello dell’irriprensibile condotta, sembra voler providamente opporre la luce della discussione ai traviamenti de’ pregiudizi solitarj e degli interessi privati.

Fin da’ suoi primordj gli studiosi prodigarono a questa impresa più cure e più servigi che non quegli stessi ai quali ella versava precoce ricolto di ricchezze. Non devono dunque desistere dall’utile proposito, ora appunto che le intervenute complicazioni provano più manifestamente il pregio della previdenza e dei consiglj. Avendo con perseveranza seguito di passo in passo l’impresa, e conoscendone [p. 42 modifica]i più intimi andamenti, e avendone sempre fatto diligente annotazione, ebbi campo di persuadermi che tutte le sue difficoltà derivano da un errore di principio, assai facile a correggersi; tolto il quale, le forze naturali della cosa sono tali e tante, che non potrebbe non giungere ad esito pronto e felice.

Alcune cose sull’aggio e sui banchieri.

Molti si mostrano contrarj a tutte queste imprese, perchè vi vedono dominare il gioco di Borsa. Ma in qual altro modo migliaja di privati, dispersi in più città, si potrebbero far concorrere quasi d’improvviso coll’opinione, colla volontà e col denaro in opere che richiedono enormi tesori? Ciò non è possibile, se non per mezzo appunto di quella instituzione che chiamasi la Borsa. Quando un progetto venga abbracciato da un banchiere che sia conosciuto per viste sagaci, gli altri accorrono alla sua chiamata; i men potenti e avveduti seguono l’onda; l’ammasso delle azioni si dirama in un numero sempre maggiore di trafficanti, mossi tutti dalla speranza di rivendere a più caro prezzo che non avranno comprato. È lo stesso che avviene d’ogni altra merce, la quale, comprata in monte nei porti marittimi, si suddivide gradatamente sui minori mercati,e passando da mano a mano, giunge in ogni luogo abitato e in ogni trivio, a portata delle famiglie consumatrici. Intanto che le azioni industriali sono in mano dei banchieri, sono merce in negozio; devono far viaggio, e giungere finalmente in mano a quelli che vogliono porre a frutto gli adunati risparmj, ben pochi essendo i banchieri a cui convenga conservarle, come stabile investimento d’una fortuna che dall’industria mercantile già si volga al riposo.

Cosi divise tra più famiglie, e suddivise in più rate a convenevoli distanze di tempo, le azioni assorbono, come minute radici, il capitale che si viene lentamente adunando dalla quotidiana economia nei più riposti recessi del civile consorzio. L’operazione, che per tal modo si compie all’ombra della fiducia mercantile, è così mirabile che gli idioti stupefatti la chiamano la creazione dei capitali, la magía del credito. Per essa da piccole e oscure sorgenti scaturiscono enormi valori, che, consolidati nelle utili [p. 43 modifica]imprese, costituiscono un nuovo fondo produttivo. Quel paese è più ricco sul quale si consolida in opere utili una maggior massa di capitali; e quello è il più povero le cui lande giaciono ancora nude, o solo vestite dei selvaggi doni della natura.

Fin qui nulla v’è a ridire. Se chi compra le azioni in monte, guadagna un aggio sulla rivendita, egli fa ciò che farebbe l’incettatore di qualsiasi altra merce. E questo uno dei più necessarj servigi commerciali; è quasi una grandiosa senseria, senza cui non potrebbero esservi le opere, perchè non potrebbe confluirvi dalle sparse sue sedi il necessario capitale.

Il male comincia quando tra le migliaja d’imprese, che possono tornare opportune ai luoghi e fruttifere agli imprenditori, la speculazione bancaria, per leggerezza, o per poca cognizione, o per poca lealtà, trasceglie ed esalta opere sterili o illusorie, che non darebbero frutto al capitale, oppure non potrebbero per modo alcuno ridursi a compimento. Allora l’aggio, carpito dal rivenditore, è veramente un furto alla credula cittadinanza, mentre il capital commune si sciupa e si disvia dalle cose migliori, e ad una fiducia animatrice succede tosto una mortifera diffidenza. Tali erano le famose, azioni del Mississipi nello scorso secolo; e tali, non ha molt’anni, furono le azioni di tante miniere americane, e di molte strade ferrate, che si dovevano condurre attraverso a regioni inculte, a servigio di popolazioni non ancora nate. La stessa inscienza e la stessa slealtà può mostrarsi nell’apprezzare oltre misura il frutto, che si attende dall’opera proposta, per accrescere l’aggio del rivenditore a danno finale di chi compra con soverchie speranze. Finalmente anche quando un’impresa è per sè buona, e la sua probabile utilità venne debitamente apprezzata, ella può sortir tristo fine per imperizia delle mani deputate a governarla. E allora non solo soffre danno il privato, che destinò a quell’investimento il suo denaro, ma il banchiere stesso, qualora non giungendo in tempo a scaricare sugli altri la sua provista, venga costretto ad anticipare grossi versamenti a tenue frutto.

Questo pericolo è assai frequente; e lo è tanto più in quanto i banchieri, diffidando di chi non è della professione loro, amano riservarsi il diritto di governare essi [p. 44 modifica]medesimi l’esecuzione dell’opera. Il che vuol dire ch’essa vien diretta da uomini i quali non hanno il tempo d’attendervi, e sopratutto non ne hanno special cognizione, nè si curano d’acquistarla. Perlochè tutto ricade in fin del conto in mani subalterne e irrisponsabili, che lavorano all’ombra di nomi accreditati.

Avviene inoltre che i rivenditori, i quali si assumono la rappresentanza, hanno interessi proprj assai diversi da quelli degli effettivi compratori, anzi talora contrari. Infatti il frutto finale dell’opera ad essi, come a banchieri, non può seriamente importare; importa bensì che l’opinione d’un frutto probabile duri tanto che possano compiere la loro rivendita. E allora può anche avvenire che un discredito momentaneo della cosa non riesca loro del tutto importuno; poiché porge il destro di far nuove compere, e prepararsi nella ripetuta alternativa a nuova rivendita. In commercio questo è ben lecito; anzi tutto il commercio suppone la compera a basso prezzo per vender caro. Ma la mano stessa che attende a questo, non è la più adatta a governare con moto eguale e fermo l’esecuzione dell’opera; perchè cerca più le apparenze attuali che le lontane conseguenze; perchè vuol distribuire i frutti prima del ricolto; e per ristringere oltre misura le spese capitali, tende a precipitar l’opera nell’abisso delle manutenzioni. Finché l’Europa non avrà ben separato i due incompatibili interessi dell’amministratore e del trafficante, essa profonderà molti capitali senza raggiungere proporzionato vantaggio. Ma ognuno vede che questo errore, comunque grave e quasi universale, non è ragione che giustifichi le aspre invettive di molti contro l’aggio di Borsa e le società per azioni. Esso costituisce però il titolo per cui le autorità civili, quand’anche si tratti di libero commercio e di persone maggiorenni, si riservano sempre sulle società anonime un diritto di tutelare intervento, e quindi, per ben conoscere l’intimo stato delle cose, ingiungono loro le publiche adunanze e la libera discussione.

Le poche cose qui premesse guideranno il buon giudicio del lettore, senza che sia necessario interrompere la serie dei fatti, che verrò estraendo succintamente; e solo quanto basta, per mettere in chiaro coll’esperienza del passato le probabilità e le convenienze del futuro. [p. 45 modifica]

Prime proposte e primi studj sulla linea,

sul ponte della laguna, e sui conti preventivi.


In settembre del 1835, Sebastiano Wagner, che poco di poi morì, e Francesco Varè chiesero alla Camera di Commercio di Venezia la facoltà di fare un’accomandita per costruire una strada ferrata da Venezia a Milano. Una commissione di cinque, deputata ad esaminar la cosa, giudicò convenisse coltivare un tal pensiero, anzi lo adottò in proprio, inducendo colla promessa d’azioni gratuite il progettatore a desistere dallo sproporzionato assunto. I cinque lasciarono dunque l’officio di consulta, e uniti ad altri cinque si sottoscrissero ad una somma complessiva di 30 mila lire per le prime spese d’un progetto; e si adoperarono perchè altra pari somma venisse sottoscritta a Milano; dove concorsi a tal uopo 24 soscrittori nominarono fra loro una commissione di dieci. Così si ebbero tra Venezia e Milano 34 socj fondatori, e due commissioni, le quali agli ultimi d’aprile del seguente anno 1836 fecero un accordo a Verona. Ma essendo allora diffuso in varie delle nostre proyincie il colera, le menti erano più invogliate d’alzar mari di separazione, che d’andarsi a ritrovare in massa colle strade ferrate; delle quali gli uomini saputi e sentenziosi parlavano allora come d’una meraviglia. posta troppo al disopra dei nostri meriti e dei nostri destini.

Pochi giorni prima di quell’accordo, la commissione vèneta aveva inoltrato una dimanda di privilegio, a corredo delia quale aveva fatto tracciare una linea, "percorrendo da Venezia a Mestre, Ponte di Brenta, Orgiano, Nogarole, Orzinovi, sopra Pandino sino a Milano, con quelle strade laterali per Padova, Vicenza, Verona, Mantova, Cremona, Brescia e Bergamo, trovate necessarie ed utili per il loro commercio" (Ib. pag. 29). In alcune dilucidazioni, presentate il 30 giugno, sì soggiunse alle dette città laterali "ed occorrendo per Treviso. Bassano, Monza e Pavia"; e si dimandò la costruzione a un ponte sulla Laguna da S. Giuliano a Venezia, con proposito però di provedere "con altri mezzi di trasporto sull’aqua, quando ulteriori studj tacessero presumere una spesa maggiore di quattro [p. 46 modifica]"milioni" (Ib. pag. 32). Fin qui i fondatori apparivano imbevuti della persuasione, che la strada, quasi immenso ponte d’un arco solo, dovesse appoggiarsi sopratutto alle communicazioni fra i due punti estremi, Milano e Venezia, e che i bracci laterali verso le frapposte città fqssero piuttosto concessioni al loro particolare commercio, che fondamento massimo di tutta l’impresa.

Al progetto non si pose mano; ma si publicù un tracciamento della linea prescelta: e gli Annali di Statistica lo riprodussero in maggio 1836. Erano a un dipresso quattro rettilinei, da Venezia a Mestre, poi al Bisato tra i Berici e gli Euganei, poi alla Volta, poi a Milano, con quattro bracci perpendicolari verso Vicenza, Verona, Mantova, Brescia. La cosa ripugnava a tutti i principi che l’esperienza aveva finallora posto in luce sulle strade già fatte. Cadutone discorso in mia casa con uno dei soscrittori, gli mostrai con un compasso, che, congiungendo direttamente le sei città più accessibili, e sopprimendo le rispettive laterali, avrebbero risparmiato 30 miglia di costruzioni, e diminuito di 18 miglia la corsa tra Vicenza e Verona, e di 22 quella tra Vicenza e Brescia, e in simil modo le corse fra le altre città. Poste quelle cifre in iscritto, mi venni inoltrando da cosa a cosa, senza curarmi di giungere piuttosto ad uno che ad altro risultamento; e in pochi giorni pubblicai negli Annali stessi (giugno 1836) le mie Ricerche sul progetto di una strada ferrata da Milano a Venezia.

Dimostrai che la questione d’arte e di livello era affatto sottomessa a quella di ricavo; che si doveva contar più sul trasporto delle persone che su quello delle merci; più sui passaggeri indigeni che sui forestieri; più sui passeggieri di breve distanza che sui viaggiatori di lunga corsa; più sulle merci d’interno giro che sul commercio estero; e in questo, più sulle importazioni che sulle esportazioni, e men di tutto sui tránsiti; i quali parevano allora la sommità di tutto, per quell’idea fissa di far rivivere gli emporj privilegiati del medio evo, e non abbandonarsi alla corrente delle cose moderne. E dimostrando l’impossibilità di smovere i centri commerciali già stabiliti, e la necessità di comprendere nell’immediata linea quel maggior numero di città che convenevolmente si potesse, conchiudeva dicendo, che pur [p. 47 modifica]troppo il progetto delle Commissioni fondatrici "era il meno opportuno di tutti; eccellente però come punto da cui prendere le mosse, perché così il peggior partito essendo già proposto, tutti quelli che si potevano proporre sarebbero migliori".

Venendo poi a divisare una nuova linea, mostrai la convenienza di preferire le città più discoste dal corso del Po, per congiungere le sconnesse navigazioni del paese più alto, toccare i territori più industri e più bisognosi di grandi communicazioni, e infilare il centro del regno e quella zona sulla quale sono gli sbocchi delle valli e dei laghi, e i depositi dei produtti della pianura, e quindi il massimo scontro naturale d’uomini e di merci. Dissi che qualora, secondo l’esperienza a quel tempo già fatta, il numero annuo dei passaggeri sui varj tronchi della linea corrispondesse alla popolazione delle città che doveva connettere, cioè Milano, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, e Venezia, se ne potevano sperare 450 mila; i quali, con un introito netto di 10 lire ciascuno, avrebbero dato milioni 4 1/2, già per sé sufficienti, senza le merci, all’affitto del necessario capitale. Venendo a più precise condizioni, accennai la bontà generale dei livelli in ragione alle distanze, la necessità d’evitare le valli paludose e spopolate tra i Bérici e gli Euganei, nonché le Valli Veronesi, i Mosi del Cremasco, e tutti i fondi malfermi e poveri di materiale; e indicai varj punti intermedj, sotto Cassano, fra Treviglio e Caravaggio, presso Romano, e presso Chiari (ove collegarsi per la Fusa al Lago d’Iséo) riconoscendo però l’impossibilità di risolvere senza studj il passaggio presso Lonato, e nei colli di Castelnuqvo e di Caldiero. Valutai il peso da darsi alle guide a 37 chilogrammi per metro, il che ne avrebbe richiesto 41 mila tonnellate; notai il prezzo del ferro indigeno quasi doppio dell’inglese; notai che ogni centesimo di più che si pagasse al chilogrammo avrebbe fatto un aumento di quattrocentomila franchi, ingrossando il capitale della strada e le tariffe dei trasporti a carico generale dello Stato, e fatto prodigare una corrispondente massa di combustibile, aggravandone il prezzo e la scarsità, con disagio alla vita e impedimento a molte arti, e senza proporzionato vantaggio dei nostri fonditori, i quali non guadagnano quella [p. 48 modifica]differenza di prezzo, ma la sciupano per imperizia o per avverse circostanze. Non importa richiamar le altre cose che allora dissi, e che sono estranie al presente proposito.

Intervenne allora nella Biblioteca Italiana il progetto del sig. ingegnere Bruschetti per la strada di Como, da costruirsi con due milioni, e servirsi con due machine. Vi feci alcune osservazioni, e nel replicare ad una specie di risposta fattami dal sig. Bruschetti, vi soggiunsi l’esposizione d’un primo studio pel Ponte sulla laguna di Venezia, inviatomi del sig. Tomaso Meduna (Annali di Statistica, dicembre 1836). L’esimio ingegnere vi svolgeva tutta la conformazione della laguna, i canali e ghebbi che ne solcano il fondo, i paludi e le barene che vi si frappongono, la diramazione della maréa, i parti-acqua che ne dividono i grandi bacini, il caranto il quale forma quasi continuo sostegno, e le varie profondità alle quali egli lo aveva esplorato colle trivellazioni. Paragonava cinque linee di ponte, che potevano tracciarsi verso varie parti di Venezia, sia partendo da Mestre, sia da Fusina; e dimostrava che la più grandiosa era bensì quella da Fusina a S. Giorgio Maggiore; ma la più breve, facile e opportuna era quella che da Mestre, radendo il forte di Malghera, e scorrendo a mezzodì di S. Giuliano e S. Secondo, varcava la laguna, attraversando il solo canale Colombola, e del resto scorrendo sempre in un paludo dove tanto nel flusso quanto nel riflusso il moto delle acque rimane eliso. Notò che questa linea congiunge Venezia con Mestre, ch’è quasi il suo porto di terra, mentre i 'seimila abitanti di quel borgo vanno e vengono continuamente alla città per varj servigi, e fanno quasi vita anfibia fra la terra ferrea e la laguna'.

Venendo alla costruzione, ne coordinò l’altezza a quella degli argini che cingono la laguna, e la stabilì a 2m,50 sopra il livello della commune alta maréa; diede al ponte coi parapetti la larghezza d’otto metri, facendolo ad una sola rotaja, e per minore dispendio, e per mantenerlo equilibrato sotto il peso della locomotiva; per godere lo spazio sui lati fece due márgini a modo di passeggio, riparati da continua sbarra. Mostrò disconvenire l’uso del legname; e notò l’illusione ottica, per la quale la sterminata lunghezza del ponte gli avrebbe dato l’apparenza d’una somma esilità, facendo convergere i lati quasi ad [p. 49 modifica]un punto, con molestia dei passaggieri, ai quali dovea sembrar quasi di correre a furia a precipitarsi nel mare. Imaginò dunque di suddividere tutta la tratta del ponte, frapponendovi a regolari intervalli cinque isolette, formate colla materia degli scavi, le quali colla sporgenza loro, a guisa di piazze, interrompessero l’uniformità della linea. Quella di mezzo, più spaziosa, avesse un edificio per ricovero e riposo dei passaggieri e dei guardiani, e per convegno sollazzevole ai cittadini; durante la costruzione, porgerebbero tutte spazio agli operai e luogo alle officine. Accennò varie cose intorno alla dimensione delle pile, alla Joro forma arrotondata, ai rivestimenti di pietra, ai castelli di legno ed alle altre machine per il lavoro delle fondamenta.

Vi aggiunse una carta della laguna, col confronto delle cinque linee , la quale per sopravenute ragioni non si publicò; ma rimase presso di me collo scritto originale fattomi tenere dal sig. Meduna in autunno del 1836. Chi esaminerà il progetto publicato quattro anni dipoi dal sig. Milani, vi rivedrà, senza citazione, tutte le cose qui accennate.

Nei primi discorsi intorno a questa strada ferrata si era parlato d’una spesa di 18 milioni; ma nel frattempo l’ingegnere Emilio Campilanzi aveva instituito ricerche e scandagli, che portavano già le spese a 40, poi a 42, quindi a 43 milioni, supposta però la libera introduzione del ferro inglese. Ma ristringeva ancora l’introito lordo a milioni 5 1/2, con 400 passaggieri in tutto, e 200 tonnellate di merci al giorno; poiché, quantunque ormai si fosse adottata la linea delle sei città, rimaneva sempre la prevenzione che il ricavo della strada dovesse dipendere quasi solo da Milano e Venezia; e in fatti le machine s’intendevano ripartite in modo che ne fossero sei a Venezia, sei a Milano, e quattro sole di cambio e di riserva nei varj punti interposti. I calcoli erano, come si vede, tutti in ristretto, però con giudiziosa proporzione; ma parevano troppo sottoposti all’idea forse di non atterrire coll’enormità della spesa e coll’incredibilità dell’introito i soscrittori e il publico, mal esperto ancora e incredulo di queste cose.

Per tal modo, alla fine del 1836, le mie Ricerche sulla linea, gli studj del sig. Meduna sul Ponte, e quelli del sig. Campilanzi sul Conto preventivo, avevano ormai portato [p. 50 modifica]le cose a maturità, senza alcun aggravio dei felici speculatori, i quali di nulla sembravano più solléciti che di salvare da soverchia offesa il palladio della soscrizione sociale.

Atti dei fondatori.

Restava di dare a codesti studj l’appoggio d’una regolare livellazione, e di qualche preciso dato statistico, massime sul riparto della popolazione. Essendo la linea astratta di circa 250 chilometri (di mille metri), e un buon ingegnere potendo livellare commodamente 3 chilometri al giorno, si può far conto che tre o quattro ingegneri in un mese avrebbero potuto livellare l’intera linea colla spesa di mille fiorini incirca; e si dica pure duemila. E se si fossero volute esplorare anche tre o quattro linee, massime in certi tronchi di più scabrosa e dubbia deliberazione, ben si vede che colla spesa d’un terzo del fondo sociale, si poteva stabilire un lodevole progetto sommario degno d’esame e d’approvazione. A quei tempi erano cose nuove; gli abusi non avevano svegliato la diffidenza; non v’erano rivalità tardatrici; malintese amministrazioni non avevano guaste in tutta Europa tant’altre imprese. In quanto alla somma, io aveva già indicata l’opinione di molti, che nel nostro paese ogni miglio di strada, compresi i ponti e le stazioni, potesse sperarsi ragguagliato a 400 mila franchi, il che fa incirca 250 mila lire nostre per chilometro. Laonde, involgendo con linee laterali Mantova, Bergamo e Monza, e comprendendo il ponte della laguna, si poteva annunziar francamente una soscrizione di ottanta milioni, e ripartirle in proporzione sulle cifre del prospetto Campilanzi. Perlochè, se si guarda la cosa nel mero senso bancario, è manifesto, che per pusillánime risparmio i soscrittori gettarono l’occasione di ripartirsi fra loro tre o quattro milioni d’aggio, e lasciarono aperto il varco alle difficoltà che assorbirono poi inutilmente gli anni e il danaro. Sui 40 milioni del primo preventivo, 23 vennero suddivisi a Venezia fra un numero piuttosto grande d’aspiranti; e soli 17 vennero riservati ai 24 soscrittori di Milano.

Alla fine di febbrajo 1837, essendosi ottenuta la sola promessa del Privilegio Imperiale (poiché, come si disse, [p. 51 modifica]non si era presentato alcun progetto), cominciò tosto a levarsi l’aura di Borsa, e l’impresa ideale cominciò a prender forma di cosa vera. Ma in luogo di secondare il proposto modello della società per la strada ferrata di Moravia, i soscrittori vollero conservare e perpetuare il dannoso riparto in due sezioni, il quale, richiedendo l’impossibile, cioè il consenso continuo di due giudizj e di due volontà, moltiplica senza fine gli indugi e le spese. Il che era inevitabile dal momento che l’amministrazione doveva rimanere in mano propria di banchieri, che hanno i loro affari agli estremi punti della linea da costruirsi, e perciò non possono adunarsi in consesso ogni giorno a trattare gli affari altrui.

Di poco stette che fin da principio non ne venisse un grave dissesto, cioè la divisione dell’impresa fra due corpi tecnici, con doppia spesa d’amministrazione e scioglimento d’ogni unità. La commissione véneta, senza prender concerto coll’altra, aveva offerto la direzione di tutta l’impresa all’ingegnere Milani; e il 21 febbrajo 1837 gli scriveva d’aver "definitivamente stabilito", pregandolo a sollecitare il suo arrivo in Italia. Ma dopo tre settimane, gli dava l’annunzio che la società fondatrice "era divisa nelle due sezioni di Venezia e di Milano; e il loro mandato contemplava i rispettivi territorj"; e che la sezione di Milano aveva per la sua parte già nominato un proprio ingegnere, nello stesso tempo che aveva u approvato e aggradito» la scelta del sig. Milani per la parte véneta. L’ingegnere rispondeva di non voler accettare "un incarico diviso per tenitori, e ristretto per lui al solo territorio véneto"; poi mandava a Milano copia di tutto il carteggio da publicarsi; ed io fui richiesto di farlo inserire negli Annali di Statistica. Mi parve dannoso consiglio, che avrebbe promosso la discordia, e alienata l’opinione generale; e perciò ritenni il carteggio coll’acerba lettera che lo accompagnava; e lo conservo tuttora. Come a persona che mostrava buon volere, mi fu scritto da Venezia di "vedere qualcuno della commissione di Milano, e d’influire colle mie riflessioni" al fine dell’unità e della concordia; e chi venne con particolare incarico, fu diretto a me con lettere, perchè "non gli risparmiassi i miei consigli, accertandomi che ne avrei merito". E invero, sì cogli officj privati, sì col mezzo [p. 52 modifica]dei giornali, non lasciai d’adoperarmi perchè l’impresa in quei principi non riescisse a pericoloso dissidio. Le cose infatti si composero in una conferenza che le commissioni tennero in principio di maggio 1837 a Venezia, dove adottarono definitivamente la linea delle sei città "poiché, come allora si scrisse, oramai troppo palmarmente si era dichiarato in favore di questa il voto generale".

E perchè le azioni erano iu breve salite all’aggio dell’otto e del nove per cento, si prese animo ad aumentare la soscrizione dai 40 milioni ai 50; di modochè cinque milioni dovessero ripartirsi a Milano, fuori però del grembo della società fondatrice, e cinque dovessero toccare esclusivamente ai dieci socj fondatori di Venezia.

A quel tempo molti inveirono fieramente contro la soscrizione che si aperse in Milano per i sopradetti cinque milioni; e veramente può dirsi ch’essa, con durevole danno commune, alienò dalle imprese industriali il publico favore. Invece di chiamare le buone case mercantili, che io avevano dimandato, e molti privati, che avrebbero reso popolare l’impresa e contribuito lumi e zelo e spirito di condotta, si accettò senza distinzione ogni sorta d’ignote persone. Gl’interessati, che, ammessi a prenotare 50 azioni, ne ricevettero per tutto assegno 1 1/2, avevano un pronto rimedio; potevano esigere che si verificassero le firme, per vedere se alcuno sotto uno stesso nome, o sotto nome finto avesse prenotato oltre al prefisso limite di cinquanta azioni. Egli è certo che ad una verificazione solenne per serie e per numeri non si sarebbe ritrovata nemmeno la quinta parte dei soscrittori; molti dei quali, avevano venduto il loro viglietto di dimanda, senza curarsi di saper bene di che si trattasse, e prima che l’assegno fosse fatto; nè si sarebbero potuti in alcun modo raccozzare. E così ciò che v’era d’indecoroso e di riprovevole, avrebbe avuto la sua natural repressione. Valga, s’è possibile, per un’altra volta; poiché il principio delle società industriali è un poderoso strumento di publica utilità, che bisogna con ogni studio preservare dall’abuso e dal discredito, nell’interesse stesso dei banchieri, troppo corrivi a recidere la pianta per impazienza d’afferrarne il frutto. Il che renda scusato ciò che nelle cose qui dette può esservi di spiacevole.

Rammento questi particolari, affinchè l’esperienza fatta [p. 53 modifica]una volta non torni affatto ignota e infruttuosa nelle occasioni che presto o tardi si ripeteranno. Solo in questo modo l’istoria può essere maestra del vivere.

Fondazione dell’officio tecnico.

Nell’instituire un corpo d’ingegneri, volevansi prendere a modello gli officj publici di simil natura, dove un’unità presiede ad una ben intesa e risponsabile pluralità. Ma per quella impossibilità, che abbiam già notata nei banchieri, d’esercitare in persona lontane e complicate amministrazioni, e per la conseguente necessità di dare a qualcuno una cieca confidenza, la commissione sanciva bensì negli statuti il principio che l’ingegnere in capo non fosse più che un impiegato (§ 57), e potesse dai direttori venir rimosso (§ 60). Ma nello stesso tempo entrava verso il medesimo "in un contratto di locazione e conduzione d’opera"; che lo rendeva in faccia ai direttori una parte affatto indipendente e irremovibile, e perciò superiore. E questo vincolo illegale doveva "essere obligatorio fino a sei mesi dopo che la strada da Venezia a Milano sarebbe stata compiuta ed attivata, eccetto il solo caso che la società per qualsia motivo ed in qualunque momento si dichiarasse disciolta e cessasse dall’intrapresa". Queste nozze non si potevano dunque sciogliere se non colla morte della società e dell’intrapresa, mentre nello stesso tempo le stesse persone si riservavano negli statuti la facoltà di legare e slegare!

Verso la fine di giugno 1837, l’ing. Milani giungeva a Venezia e quindi a Milano, e poi rimaneva nel suo officio tecnico a Verona, fino alla generale adunanza degli azionisti che si tenne a Venezia il 21 agosto 1837. Il presidente nel suo rapporto, in presenza dell’ingegnere, dichiarò agli azionisti: "la linea della strada percorrerà questi punti, Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Brescia e Milano (pag. 17)". Quindi sotto il titolo di Opinione sulla linea da preferirsi, si dava un estratto delle mie Ricerche con alcune aggiunte, e si corredava d’una carta topografica col tracciamento della linea stessa. E nella introduzione posta in fronte agli Atti Officiali di quell’adunanza si dichiarò "affidata la redazione del progetto di dettaglio e successiva direzione del lavoro [p. 54 modifica]"all’ingegnere Milani". E questi poi nel suo primo rapporto a stampa diceva: "Il 21 agosto fui al congresso generale degli azionisti in Venezia; il 24 mossi all’esame del terreno ... Il problema economico, quello diretto ad accennare la parte del Regno Lombardo-Veneto, che doveva esser percorsa dalla strada di ferro, era sciolto". Negli stessi Atti il sig. Campilanzi inserì il prospetto preventivo di spese e ricavi, ch’egli aveva ornai ottenuto di recare a 54 milioni. E vi si trovano in fine due disegni del sig. Meduna per il suo ponte; dimodoché, ciò che si era fatto sin allora, viene a riescire autenticamente distinto da ciò che si fece dipoi.

Posto che si era già decretata la linea delle sei città lo studio generale e indeterminato si risolveva in quello dei cinque tronchi interposti; il che ristringeva di molto la zona delle livellazioni; altrimenti ella avrebbe abbracciato tutta la larghezza della pianura da Verona al Po. Rimaneva adunque d’esplorare sopra un mediocre spazio il corso dei maggiori fiumi, per determinare in ciascuno tutti i più opportuni passi: e congiungerli con linee più o meno numerose di livellazione, a fine di trascegliere a ulteriore studio quelle che unissero la minor lunghezza alle minori difficoltà. A questo modo sul tavolo degl’ingegneri si avrebbe avuta la vera imágine del terreno da studiarsi. Questo profondo studio doveva generare, per dir così, la linea tecnica; e chi conosce le conseguenze del maggiore o minor movimento di terra e del più solido fondo, non negherà che il fare o non fare queste diligenze, mentre dall’una parte involge una spesa comparativamente assai tenue, dall’altra può importare nei lavori la conseguenza di molti milioni. Il paese poi veniva ad acquistare un prezioso studio fondamentale, che avrebbe giovato ad infinite applicazioni tanto di scienza quanto di pratica utilità. É un’occasione che non ritornerà così presto.

Ma l’ingegnere non aspettò questo consiglio del terreno e dei livelli; egli prese, anzi tratto, la sua risoluzione sulla Carta, la quale indica bensì con somma esattezza la posizione dei luoghi, ma non può indicare i continui livelli, la forza del fondo, l’opportunità dei materiali, la profondità e la forza delle acque, e tutti gli elementi da valutarsi nell’eleggere una linea di costruzione. Con fili di seta [p. 55 modifica]tesi sulla carta topografica egli seguo un tracciamento che congiungesse le sei preselitte città, studiando solamente d’ottenere i più lunghi rettilinei a mite angolo, e d’evitare le grandi masse di caseggiato. Segnata la linea sul tavolo, pensò a portarla tale e quale sul terreno.

A quest’uopo poteva ben contare sulla Carta del nostro Istituto topografico, e massime sugli studj in grande scala, che stavano a sua disposizione in quell’officio. Ciò bastava a trovare con sicurezza qualunque punto, ed ottenere linee bastevolmente precise, poiché quella Carta riposa sopra una serie di punti trigonometrici, studiati a tutto rigore da geografi ed astronomi di sommo merito. Ma gli parve meglio fare un lavoro inutile e malsicuro, una teatrale costruzione di torri di legno con fuochi notturni, come se si trattasse di slanciare una prima traccia di mappa topografica nelle solitudini dell’Orenoco. Tutti gl’ingegneri, e tutti quelli che potevano apprezzare l’opera dell’Istituto topografico, ne mormoravano.

Imposta al terreno una linea arbitraria, e non produtta dallo studio dei livelli, si passò con ordine prepóstero a livellarla; e quest’unica linea di livellazione non venne tampoco ribattuta; e, se si eccettui qualche tronco, che venne poi lievemente modificato, e assoggettato perciò a nuova livellazione, questo è tutto lo studio vero del terreno, che la società possede oggidì, con quel dispendio di tempo che tutti sanno, e quel dispendio di denaro che poi si vedrà..

Non mancarono allora esperti ingegneri di farne rimostranze ai direttori; e l’ingegnere geografo Manzoni presentò loro un apposita memoria. E i direttori avevano dallo Statuto (§§ 56, 60) il dovere di far la nomina d'un corpo d’ingegneri; ma essi se n’erano rimessi all’ingegnere in capo; e non conobbero mai officialmente il nome dei subalterni se non dopo il fatto e per mezzo dei rendiconti mensili. Molti entravano, uscivano, restavano, come semplici commessi dell’ingegnere in capo, senza ingerenza dei direttori; e tra questi, i migliori giovani, che, allettati dalla bellezza e novità dell’intrapresa, offrivano il tributo dei loro studj e del loro zelo, ed alcuno l’esperienza di lavori fatti sulle strade ferrate di Francia; e vantiamo fra essi alcuni collaboratori del Politecnico. In dieci mesi sui ruoli della direzione ne comparvero trenta. E con tutta questa folla, non [p. 56 modifica]si tenne mai una consulta avanti ai direttori, non si concertò un regolamento, non si discusse mai l’ordine delle operazioni, nè le operazioni fatte da diverse mani vennero poi connesse col debito rigore.

Il bisogno di siffatte consulte e diligenze, quando più mani concorrono in un’opera, apparirà da questo che, come risalta dalle tavole del progetto, l’ingegnere Milani, nel connettere alla linea principale il braccio da Treviglio a Bergamo, fece nei livelli un errore di poco meno di cinque metri (4m,815)poiché il punto di collegamento delle due strade, nel profilo della linea maestra, risulta alto solo 0m,493 sopra la soglia del Duomo di Milano; e nel profilo della laterale risulta alto 5m,308; essendosi, per quanto pare, sbagliate le orizontali di riferimento. Ora chi ci può assicurare che gli altri tronchi, fra tante mani, e con continui cangiamenti di persone, siano connessi con maggior precisione? E in tal caso su qual fondamento riposano tutti codesti studj? E vero che sono sviste facili a farsi; ma noi diremo che sono facili anche a correggersi, quando si facciano le debite controprove, e quando i subalterni, che son poi uatti ingegneri patentati, abbiano qualche facoltà di consiglio e di discussione. Senza ciò i progetti sono costose apparenze che all’atto dei lavori si risolvono in fumo.

Base economica dei progetti.

In tutti codesti progetti, gl’ingegneri mirano sopratutto ad animare gl’imprenditori colla tenuità della spesa; e quindi tutti i calcoli riescono stentati. Al contrario la prima cosa da studiarsi nelle strade ferrate è la loro utilità, ossia la probabilità d’un attivo trasporto; la quale se manca, tutta l’opera cade; e a misura ch’è maggiore o minore, le spese di costruzione possono farsi più o meno agiate. Nelle linee di lunga tratta, e quindi non appoggiate a speciali circostanze, ma bensì allo stato generale del paese, la probabilità dei trasporti si risolve nella continua densità della popolazione; perocché, a circostanze pari, il numero dei movimenti è in ragione diretta del numero delle persone che si possono movere; e la quantità delle merci d’ogni maniera, a circostanze pari, è proporzionata al numero delle persone che se ne devono provedere. Dopo il [p. 57 modifica]numero delle persone, si possono instituire confronti anche sui loro movimenti, le loro produzioni e i loro consumi; ma le grandi strade ferrate tendono già per sè ad equilibrare in breve tempo questi dati, promovendo in sommo grado la generale attività. La questione suprema e fondamentale consiste dunque nel confrontare la densità della popolazione, lungo tutta la linea che si vorrebbe tracciare, e lungo le migliori linee che si sono altrove tracciate. Ora se guardiamo quella lista di paese, che, sopra una lunghezza di 150 miglia e una larghezza di 50, si stende lungo il Po dal Ticino alla Piave, troviamo una tal continua affluenza di popolazione rurale e urbana, che, se anche non si pon mente alle sue cause ed agli effetti suoi, cioè all’ubertà dei luoghi, alla copia delle strade, delle linee navigabili e delle acque irrigatorie e motrici, al valore straordinario dei prodotti, alla frequenza delle belle città e delle grosse borgate, non si può indicare in qual siasi parte d’Europa, non escluso lo stesso Belgio, un egual tratto di terreno che la pareggi. Il che in questa raccolta fu già chiarito con abbondante corredo di cifre positive (Vedi Politecnico, vol. I).

Fin dal 1836 io aveva animato gl’imprenditori a fondare senz’altro i loro conti sulla popolazione delle sei città che si potevano direttamente connettere colla strada ferrata; le quali, giusta le indagini statistiche che poi si fecero, sono prossime a mezzo milione; e vi si possono aggiungere parecchie delle interposte borgate mercantili, come Chiari, Treviglio, Romano, Lonato, Montechiaro, Castiglione, Desenzano, Peschiera, Dolo, Mestre, alcune delle quali toccano i novemila abitanti, ed in ogni altro paese si chiamerebbero città. Cinquecento mila passaggieri all’anno, ossia 1400 al giorno, sono più del necessario; poiché l’esperienza dimostra che sopra 600 si può avventurare una buona strada ferrata a due rotaje, quando si tengano le tariffe ad una certa altezza, nell’aspettazione che il tempo sviluppi un maggior movimento. Valutata la linea a 250 chilometri (di 1000 metri), e il prezzo medio delle corse intermedie e totali a dieci centesimi nostri per chilometro, ossia 25 lire in ragguaglio di tutta la linea, ch’è prezzo assai mite, un mezzo milione di passaggieri verserebbe più di dodici milioni di lire. Supposto che le spese ingojassero la metà di [p. 58 modifica]questo introito, ed anche tre quinti, rimarebbero da 6 a 5 milioni netti per interesse del capitale da impiegarsi; e poi, resterebbe per dividendo e ammortimento in 99 anni, tutto il trasporto delle merci, del denaro e del bestiame, e l’aumento che si potrebbe avere dopo quindici o vent’anni d’esercizio sul cresciuto numero dei passaggieri o sulla maggior mercede delle corse.

Trovato così un interesse, un congruo dividendo e un probabile ammortimento, si può calcolare con probabilità sopra una somma di cento milioni. Anzi quando si fosse speso tutto il capitai sociale di cinquanta milioni, questo potrebbe servir d’ipoteca ai capitali che occorressero più oltre; sui quali perciò correrebbe il solo interesse, e non si avrebbe a ripartire il dividendo; e così l’investimento degli azionisti potrebbe venirne vantaggiato. Ma supponiamo pure che la base probabilissima del ricavo sia da valutarsi a 80 milioni, cioè 320 mila lire al chilometro, ossia quasi 600 mila lire al miglio, ch’è veramente una bella e magnifica moneta; si potevano fin-e calcoli schietti e generosi, e non sottoposti alla trista sequela delle manutenzioni. Si poteva poi aggiungere, che, speranza essendovi di compier l’opera con una spesa considerevolmente minore, la residua somma si sarebbe dedicata a darle splendido compimento con un ponte sulla laguna, e con un ingresso nel mezzo delle due capitali.

Si sarebbe potuto anche sottoporre la cosa ad una o più prove; e siccome le brevi strade in vicinanza delle buone città danno miglior profitto, anche come popolare passatempo, si avrebbe potuto stabilire, che si tentasse qualche breve tronco in diversi luoghi: per esempio, dal canale di Mestre alle ville della Brenta, da Brescia a Chiari, da Milano all’Adda, non solo per tasteggiare nei nostri paesi l’articolo della spesa e l’abilità dei costruttori, ma l’intelligenza e l’alacrità delle popolazioni. Ora l’esperienza è fatta; i nostri contadini hanno sostenuto la via ferrata di Monza nel più inclemente gennajo che abbia contristato l’Italia; e hanno mostrato che ad intendere i loro interessi e lo spirito dei tempi hanno assai più attitudine che non le classi più orgogliose, le quali non hanno ancora potuto capire qual sia l’immenso beneficio che le strade ferrate recano ad ogni genere di proprietà.

Ma la questione fin da principio venne capovolta; si [p. 59 modifica]cominciò dal calcolo delle spese, non da quello del ricavo probabile. Ora le strade ferrate d’un buon paese non devon essere come quelle d’un paese miserabile; perchè il cavallo del ricco speditore non deve esser pasciuto come il somarello del povero. Da quest’errore viene un’importuna tendenza a sofisticare i prezzi del terreno e dei movimenti di terra, il peso delle ferramenta, i loro prezzi, i loro aggravj e vincoli doganali, il numero delle machine, il numero delle stazioni. Quindi i periti s’impongono continue prevaricazioni nei calcoli; si comincia a parlare di 18 milioni; poi si fonda la società sopra 40, poi si costituisce solennemente sopra 50; e nella solennità stessa si presenta un conto di 54; poi dopo un anno di studj si dà nelle gazzette l’annunzio officiale che di 5o milioni si avrà d’avanzo; poi lo stesso progetto nel passare dalla scrittura alle stampe rimonta a 52, e cogli accessorj a 67. E il senso commune del publico, che in queste cose ha un polso mirabilmente giusto, non peranco si mostra sodisfatto; e sente che tutti questi numeri sono asserzioni arbitrarie, che non hanno corpo e non danno sicurezza, perchè non hanno il fondamento loro in una franca e libera discussione.

Esame e confronto dei progetti Campilanzi e Milani.

Il prospetto preventivo, publicato dal sig. Campilanzi nel 1837, fissa il prezzo medio della corsa a lir. 22,50 ch’è abbastanza probabile, e ragguaglia i passaggieri a 500 al giorno, soggiungendo però che questo numero può sperarsi triplicato. Ma perchè non afferrai- francamente questa cifra, e lavorarvi sopra, e infondere un giusto coraggio agli azionisti? Il prodotto delle merci e dei bestiami da lui indicato è minore di quello dei passaggieri. Il calcolo era dunque timido, ma le sue proporzioni erano giudiziose; e ripetiamo che non costavano alla società nè tempo nè denari.

Dopo tre anni e mezzo, e la spesa d’un ingente somma, i direttori publicarono il progetto Milani, nel quale troviamo le seguenti differenze in confronto al progetto Campilanzi. 11 numero dei viaggiatori annui 325,300, ossia 900 circa al giorno; ch’è minore del verisimile, cioè della popolazione delle sei città. Il prezzo medio della corsa ragguagliato a sole 15 lire per tutta la linea, la quale coll’inutile [p. 60 modifica]prolungamento della Volta diviene di chilometri 271; il che fa centesimi 5,5 per chilometro, appena sufficiente a coprire le spese! La tariffa sulla Grande Occidentale varia, secondo le classi, da 18 centesimi nostri a 23; quella da Londra a Birmingham da 20 a 25 per chilometro. Quindi l’incasso dei passaggieri, segnato dal sig. Milani a meno di cinque milioni (4,879,500), si deve francamente raddoppiare; altrimenti non si può parlare di strada ferrata.

Strana affatto è poi la proporzione che il sig. Milani stabilì fra il produtto delle persone e quello delle cose. Tutti sanno che in alcune strade ferrate non si pensa nemmeno a condurre le merci, come per esempio su quella di Monza. Nelle strade belgiche, le merci appena danno l’ottavo dell’introito; sulla Grande Occidentale (Great Western), danno un cinquantesimo; su quella di Liverpool a Manchester, cioè tra il gran magazzino e la gran manifattura , danno tutt’al più due quinti. Come può dunque il sig. Milani pensare, che sulla linea lombardo-veneta succederà proprio l’opposto, e le persone produrranno solo due quinti, e le cose tre quinti?

Inoltre la tassa da lui stabilita per le merci, cioè lire 41,60 per tonnellata (1000 chilogrammi) da Venezia a Milano, ossia centesimi nostri 15,3 per ogni chilometro di viaggio, da noi non pagherebbe le spese. Infatti corrisponde al minimo di tutte, cioè a quella che si paga per il trasporto a piccola velocità - sulle strade belgiche, mentre per il trasporto a gran velocità si paga un quinto di più. Ora non si vede ragione perchè una società che vuole, e deve guadagnare, possa far prezzi più bassi del Governo Belgico, il quale ha posto per principio di non oltrepassare nel ricavo delle sue strade lo stretto interesse del capitale impiegatovi; e non ne deve ritrarre ammortimento; ed ha in paese le guide e le machine, ed ha il carbone a un quarto del prezzo in confronto a noi. Eppure se si adotta la tariffa belgica, bisogna già accrescere a questa partita più d’un milione netto, essendo le spese già compensate; se si adotta poi il minimo dei prezzi inglesi, si deve accrescerla di tre milioni. E notiamo che sopra alcune strade inglesi, come la Grande Occidentale, non ostante il minor costo del carbone e delle machine, tutte le merci pagano indistintamente quasi il triplo della tariffa Milani, cioè 42 centesimi [p. 61 modifica]di nostra moneta, per chilometro e per tonnellata! Colla tariffa Milani la seta, per il trasporto quasi istantaneo da Brescia a Milano, pagherebbe circa un centesimo per tre libbre (0,011 per chilogrammo)!

Per ciò che riguarda il giro dei bestiami da mercato a mercato, il sig. Milani ragguagliò il movimento solo a 50 chilometri, e non a tutta la linea, il che darebbe un ragguaglio di 72 mila all’anno, ossia di 200 capi al giorno, numero che sembra piuttosto basso, quando si consideri che comprende ogni sorta d’animali grandi e piccoli, sopra una linea piena di città e di borgate che fanno grossi consumi, e di mercati e fiere in cui si fa un minuto e continuo andirivieni. Nella tariffa determinò un medio di 4 centesimi nostri per capo e per chilometro. Ora i porcini in Inghilterra pagano il quarto di più; i vitelli quasi il doppio, i bovini grossi più del sestuplo, i cavalli più del decuplo; le sole pecore stanno al disotto della tariffa Milani; cosicché, se si vuol determinare un probabile prezzo medio, bisogna per lo meno recarla al quádruplo. Quindi aggiungere per questa partita, a quantità eguale, un altro milione netto, il quale può crescere in ragione alla maggior quantità.

Ora io dimando, con márgini così larghi d’esperienza e di probabilità, dobbiamo noi smarrirci in sottigliezze sulle opere più necessarie? Io lo ripeto: o non si devono fare le strade ferrate in nessuna parte del globo, o si devono fare a preferenza d’ogni altro paese nel nostro regno, perchè quello che a massima densità di popolazioni aggiunge il massimo valore di produtti territoriali. Ha forse il Belgio la seta? ha l’olivo? gli agrumi? il riso? il grano turco? ha i formaggi granoni, ha gli stracchini? ha le praterie verdeggianti tutto il verno? ha i doppi ricolti? La vite stessa appena occupa nel Belgio tre millesimi del terreno. E l’abbiamo detto un’altra volta, Brusselle è poco più della metà di Milano, e le cinque primarie città belgiche sommano a 400 mila abitanti, e noi con quattro sole sorpassiamo questa somma. E tutto cammina colla stessa proporzione su questo terreno, sul quale i favori della natura e tremila anni d’industria hanno consolidato un’enorme potenza produttiva.

Posto il fondamento d’un’erronea tariffa, tutti i calcoli [p. 62 modifica]di costruzione vennero oltremodo angustiati. Si valutò il prezzo d’espropriazione del terreno, con tutte le conseguenze dirette e indirette di scórporo e alterazione, a soli centesimi 31 al metro quadro (0,312), che fa lire 204 alla pertica milanese, sopra milioni 9 l/2 in circa di metri quadri (9,481,100). Questo è assolutamente impossibile; eppure il sig. Milani vi persiste anche nel progetto a stampa, dove, per coprir la cosa, ripete in diversi luoghi la cifra complessiva, ma tace i due elementi, cioè l’estensione dell’area ed il prezzo parziale (pag. 54). Questa cifra vuolsi portare almeno a una lira per metro, ossia dai tre milioni incirca del progetto Milani (29,585,71) ai nove milioni; e ce ne appelliamo al giudizio di tutti i pratici. E farebbe in complesso per ogni chilometro 35 mila lire nostre, ossia 30 mila franchi; il che corrisponde a ciò che dicono i più giudiziosi scrittori, che raccolsero i fatti dell’esperienza. "On peut admettre qu’en France les frais d’acquisition et d’indemnité s’éléveront en general et terme moyen de 20 a 40 mille francs" (Bineau, pag. 238). Ora la terra nel nostro piccolo regno è più preziosa che in Francia, e per la complicata cultura irrigatoria, e per la doppia densità della popolazione, e la maggior frequenza delle grosse città e dei terreni suburbani.

Pei terrazzi, o movimenti di terra, il preventivo Campilanzi aveva dimandato quasi otto milioni (7,930,000); e dal sig. Milani vennero ridotti a poco più della metà (4,471,818), perche valutò nove milioni di metri cubi a circa mezza lira ai metro (lir. 0,496); mentre bisognava per lo meno valutarli ad una lira. Ma nel progetto a stampa, omise, come al solito, d’indicare i due elementi della quantità dei metri e del prezzo parziale d’ogni metro. A ingrossare questa cifra concorre la molta distanza a cui si deve recare la terra, quando gli scavi sono fatti sulla stessa linea; e la devastazione dei fondi circostanti, quando la terra si prende in márgine allo stesso terrapieno. Questa devastazione nel caso nostro sarebbe assai grande, perchè il profilo della linea Milani, come può vedersi dalle ivi annesse tavole, corre quasi sempre in alzata e a fior di suolo e quasi volando, massime per quel non necessario nè utile vincolo ch’egli s’impose, d’evitare, non si sa perchè, i sifoni e "passar sopra a tutte le correnti d’aqua". Perlochè mentre [p. 63 modifica]comprende 7 milioni di metri cubici di terrapieno, non importa che due milioni di metri d’escavo; lasciando cosi uno sbilancio di 5 milioni di metri cubici da prendersi sui campi circostanti. Ora in molti luoghi piani, eom’è la maggior parte della linea, e nei luoghi paludosi non si possono fare scavi profondi. E se, per supposto, si calcola che in termine medio si possa anche oltrepassare la profondità di due metri, sarebbe mestieri devastare una superficie di due e più milioni di metri, ossia circa tremila pertiche milanesi. E in questo bilancio di scavi e terrapieni che si mostra il giudizio pratico dell’ingegnere. Le grandi escavazioni sono poi quasi tutte ammassate in pochi luoghi, quindi non si possono facilmente compensare col terrapieno. Perlochè, la somma indicata dal sig. Milani sarebbe a triplicarsi, se non vi fosse la speranza che la perizia pratica degli stessi appaltatori supplisca alla mancanza di diligenti e veri studj, cosicché il movimento di terra possa crescere di prezzo e diminuir di quantità nell’atto stesso degli appalti. Un esperto ingegnere ei mostrò che sul solo tronco da Milano all’Adda si possono risparmiare 140 mila metri cubi di terrapieno, senza danneggiare menomamente le pendenze, e senza pregiudicare le aque correnti.

Nelle più recenti strade il peso delle guide si andò sempre accrescendo, e per l’esperienza delle gravose manutenzioni, e per potervi adoperare locomotive di maggior potenza e però di maggior peso. Nei nostri progetti la bisogna camminò al rovescio. Fin da principio si erano raccomandate guide di 37 chilogrammi al metro; nel preventivo Campilanzi, risultavano di 30 incirca, a prezzo inglese, e importavano più di 14 milioni di lire. Nel primo progetto Milani vi si detrasse un milione; nel progetto a stampa altri due milioni; e così avremmo guide di soli 27 chilogrammi. E una partita che bisogna adunque accrescere per lo meno d’un quinto; il che ammonta a parecchi milioni.

Sotto le rotaje si era proposto di porre dadi di pietra, poi d’unir due dadi in un sol traverso; e il sig. Milani propose lastre di granito, lunghe tre metri (circa 5 braccia), larghe mezzo metro, e grosse, o ben piuttosto sottili, 9 centimetri. Dovevano essere poste attraverso alla strada di metro in metro; e siccome ciascuna era larga mezzo metro, così riunite le pietre d’ambedue le rotaje, si avrebbe [p. 64 modifica]potuto farne da Milano a Venezia un selciato continuo di lastre di granito largo cinque braccia! E sarebbe costato più di diciotto milioni, pur volendosi supporre che fosse possibile ritrovare la mano d’opera. Ma l’ingegnere aveva valutato ogni lastra al decimo del suo valore, cioè a lire 2,50, e coi quattro pertugi pei cuscinetti lire 3,70; e i direttori approvarono. Era un errore di sedici o più milioni; e noi, già due anni sono, non abbiamo mancato di farlo conoscere agli azionisti nel primo volume di questa Raccolta.

L’ingegnere Milani passò dunque improvisamente dalla pietra al legno; e trascelse pezzi di larice lunghi 2m,50, e grossi 15 centimetri; e li valutò a lire 5,5o; cioè più del doppio che non avesse prima valutato i graniti lunghi mezzo metro di più. Ma vaglia il vero: con questi improvisi cangiamenti è sciolta forse la questione fondamentale, se convenga più il legno o la pietra? Si è forse fatto il confronto tra la maggiore spesa capitale dei dadi e la dispendiosa manutenzione del legno nei nostri paesi, dove questa materia, come si vede, assai costosa anch’essa, soggiace all’alternativa di piovose stagioni e di lunghe siccità? Dopo quanti, anni bisognerà innovarla? Epperò sopra quanti anni dovrà ripartirsi la spesa del rinnovamento. La differenza non è grande tra lo spendere il doppio d’una somma, o lo spendere la stessa somma due volte. Poi rimane a vedersi se le due volte basteranno. Non vale citar paesi scarsi di sasso, e climi umidi; la gran linea del Belgio non è ancora compiuta, e non può porgere esempi utili sulla durata finale del legname. Perchè dunque in tutte quasi le opere publiche, e perfino nei paracarri, che non devono lottare continuamente con enormi pesi, si è presso di noi con universale consenso abbandonato l’uso del legname? Perchè gl’ingegneri della strada di Como persistono nel proporre i dadi di pietra? Chi ha ragione di questi ingegneri, e chi ha torto? Perchè il sig. Milani stesso aveva dapprima preferito la pietra; e perchè i direttori l’approvarono? E perchè dove si tratta del ponte sulla laguna, propose il sig. Milani tuttora la pietra viva d’Istria, dando per ragione: che "il legno dura poco" (§ 80) e che "i legnami infracidiscono presto dappertutto" (192) e che "bisogna che i materiali siano quelli che danno "all ultimo il maggior vantaggio"?(§ 171). Se ciò è vero [p. 65 modifica]per il ponte, perchè non lo è per la strada? Può un principio d’arte esser vero e non vero nello stesso tempo, e nello stesso luogo e nella stessa impresa? Questi sono pur dubbj gravi, sui quali una diligente amministrazione, prima di prendere impegni, dovrebbe darsi qualche pensiero.

A queste traverse, o questi dadi che si vogliano, si annoda un’altra questione non peranco toccata tra noi. La loro lunghezza corrisponde alla larghezza della rotaja, e questa alle proporzioni della locomotiva, ch'è quanto dire alla sua potenza e velocità; perchè la vicinanza delle ruote angustia lo spazio dove lavora il congegno movente e dove si hanno a fare le riparazioni; e costringe ad elevare il centro di gravità; e limitando il diametro delle ruote stesse, raccorcia il braccio di leva, e obliga a sollecitare i colpi dello stantuffo, e il suo logoramento, per ottenere una data rapidità. La maggiore o minor velocità divien cosa di sommo momento sopra una linea, la cui lunghezza fa contrasto alla brevità della giornata. Le primitive rotaje inglesi si facevano larghe un metro e mezzo incirca (1m,44) ma sulla Grande-Occidentale e sulla strada da Bristol a Exeter questa misura si accrebbe d’una buona metà (2m,13); su quella di Arbroath si stabili a 1m,68; su quella di Zarskoe Selo in Russia a 1m,83; e nel Rapporto al Parlamento per le strade d’Irlanda vien raccomandata la misura di 1m,90. Bisognerebbe per la doppia rotaja occupare a circostanze pari una maggior larghezza, e proporzionarvi il movimento di terra, e la larghezza dei ponti, dei viadutti e delle gallerie. Ora sarebbe a proporsi se convenga, contro l’esempio di ciò che una esperienza ha ornai insegnato in Inghilterra, aderire agl’imperfetti modelli primitivi, e stabilire la rotaja alla sola larghezza d’un metro e mezzo (1m,50), Questo punto chiama tanto più pronta decisione, in quantochè tutti i tronchi della strada e tutte le machine debbono avere una dimensione uniforme.

Il sig. Milani (§ 76) parla d’"uno strato di pietre spezzate o di grossa ghiaja battuta". La ghiaja non solo previene il dannoso ristagno delle acque e l’immenso polverio, che caccerebbe dalla strada tutti i passaggeri di mero sollazzo, ma apporta soldità ed elasticità al fondo; il che riesce tanto più necessario quanto più veloci sono le corse.

È cosa di tal momento che alcune sagaci direzioni inglesi, [p. 66 modifica]per essere più certe del fatto loro, si riservarono di fornire la ghiaja e la sabbia agli appaltatori. La profondità dello strato si valuta da un quarto di metro a mezzo metro; dunque a tre metri cubi incirca per ogni metro corrente; e quindi nella nostra impresa importerà circa un milione di metri cubi. Non è questa una cosa da comprendersi alla rinfusa col movimento di terra; perchè la ghiaja si deve estrarre a molta profondità, e non si trova affatto in alcuni territorj; epperò il suo prezzo varia da luogo a luogo da 70 centesimi al metro cubo fino a più di quattro lire, e talora fin oltre a nove lire. Come mai l’ingegnere Milani ha potuto obliare affatto questa partita della ghiaja nel calcolo delle spese, quando io gli ho ottenuto un compitissimo prospetto del valore di questa e delle altre materie stradali in ognuna delle nostre province?

Non si sa come egli dimenticò eziandio di valutare la spesa delle tre gallerie, ch’egli propone nel Vicentino, una delle quali lunga metri 101 sotto il letto del torrente Guà, le altre sotto il Monte Bérico. Intende egli forse comprenderle nei movimenti di terra? Ma chi direbbe che il Tunnel del Tamigi, a cagion d’esempio, sia da valutarsi al metro cubo, come la montagnola o il laghetto d’un giardino? E i muri di rinfranco, e le volte, se non v’è sasso; e se v’è sasso, le mine, perchè non si pongono in conto?

Vennero pur dimenticate nel conto le pietre verticali per fermare le traverse nelle curve (§ 76). E anche i muri di sostegno, pei lunghi tratti in grande alzata o in grande incavo, vi vennero interamente dimenticati. E non devono esser pochi, essendoché dove il terrapieno è alto più di due metri, il sig. Milani, oltre ad una banchina d’un metro, propone ad ambe le scarpe un metro e mezzo di base per ogni metro d’altezza; il che, in alcuni casi, richiederebbe una base larga quattro o cinque volte il piano utile. E in proporzione a questa base dovendo farsi la cubatura del terrapieno e la devastazione del piano circostante, è manifesto che converrà preferire un sostegno murato.

Intorno al numero delle locomotive, si è già detto nel terzo volume di questa Raccolta come nel primo progetto il sig. Milani si fosse limitato a sole 14 machine colla spesa di lir. 737 mila; e che, per le correzioni fatte da altri, questa somma nel progetto a stampa oltrepassa già il [p. 67 modifica]quadruplo, e bisognerà raddoppiarla un’altra volta; aggiungeremo che bisogna aumentare anche il numero delle vetture e dei carri per i bestiami e le merci. Per il chè anche questa partita può dirsi tuttora sbagliata di 4 a 5 milioni.

Quanto alle stazioni, certo non era mestieri "proporre i progetti di costruzione", e segnare "il dove e il come"; ma bisognava per lo meno "comprendere in massa la somma per tal titolo occorrente", come il sig. Milani stesso riconosce (§ 49). Ora il confronto ch’egli fa colla spesa delle stazioni belgiche, involge molte inesattezze; la maggior parte di quelle stazioni è provisoria; e mancano ancora quasi tutte le stazioni intermedie, perchè saviamente si pensa prima a compiere le strade. Egli doveva citar piuttosto le stazioni inglesi. Doveva dire che tra Londra e Birmingham vi sono già dieciotto stazioni ad intervalli di circa 11 mila metri; che dieciotto ve ne ha tra Liverpool e Manchester, vale a dire ad intervalli di 3 mila metri (meno di due miglia). La qual frequenza si vede anche sulla strada di Croydon, che ha 7 stazioni in 17 mila metri. Ora il sig. Milani pone in conto sole tredici stazioni per 290 mila metri, compresa Bergamo! E le dissemina quasi tutte a spropositati intervalli di 20 a 30 mila metri. Qui appare sempre il vizio fondamentale di tutti questi conti preventivi, cioè la dimenticanza del principio produttivo, la non curanza al riparto e al servigio della popolazione, e la pertinacia a non voler intendere che l’utilità e floridezza di queste imprese dipende soprattutto dalle corse di breve distanza. E perciò si pose in conto una sola stazione intermedia su tutta la distanza tra Milano e Chiari (56 mila metri); mentre una eguale distanza sulla linea di Liverpool ne conterebbe venti! Ma perchè le nostre popolazioni non potranno andare e venire a Gorgonzola, a Cassano, a Romano, a Calcio? Perchè il contadino non potrà portare con pochi centesimi il suo bestiame dal mercato di Treviglio o di Martinengo a quello di Melzo e di Travagliato? Non è già che le rapide corse da città a città debbano ritardarsi per servire questo andazzo di contadini che vanno da mercato a mercato, e di donne che girano le filande, ma si deve stabilire dietro l’esperienza un ordine apposito di piccoli movimenti, a distanze per lo meno come quella da Milano a Monza. Suppongo che [p. 68 modifica]le piccole stazioni possano costare all’impresa un’annuo carico di quattro o cinque mila lire ciascuna; che importa questo, quando un sol giorno di festa o di fiera basta a pagarlo? Non si è mancato di fornire al sig. Milani un prospetto di tutto le fiere e i mercati che si tengono lungo la nostra linea in ogni giorno della settimana e dell’anno. Al sabbato è quasi un mercato universale a brevissimi intervalli; tutta la popolazione rurale è in movimento; ora con brevi corse speciali si potrebbe annodare tutti quegli sparsi centri e farne quasi un solo grandioso mercato.

Si pose in conto una sola stazione intermedia sull’enorme distanza di 58 mila metri da Padova a Villanova? Ma perchè dimenticare le vicinanze di Lonigo, di Montebello, d’Arzignano, lo sbocco della Val d’Agno, le cave delle ligniti vicentine? Perchè nel passaggio da Padova a Mestre dimenticare nientemeno che tutte le ville della Brenta? Anzi, poteva bene il sig. Milani tenersi qualche centinajp di passi disotto a Mestre; far quella stazione sul canale, più verso Malghera; scemare quella viziosa angolatura: e avvicinarsi d altrettanto col suo rettilineo, o con una curva insensibile a Stra, al Dolo, alla Mira. E il terreno sarebbe forse stato migliore; almeno così dicono i pratici della provincia.

Alla partita delle stazioni si collega un’altra dimenticanza del progetto Milani, cioè i ricoveri per le guardie. Le strade che "la linea trincia" sono a detta sua 620; e devon essere custodite, ed egli mise pure in calcolo 650 custodi (p. 70), i quali non devono rimanere a nudo cielo.

Non si vede poi perchè le stazioni di Castiglione e di Chiari debbano avere le rimesse per le locomotive, e costare 200 mila lire ciascuna; e quelle di Brescia e di Padova e di Mestre (pag. 54), non debbano averle, e costare solo la metà. In poche parole, tutto questo conto delle dieci stazioni intermedie e dei minori edificj che somma appena a 1,400,000 lire, (pag. 54) deve crescere a molti e molti doppj, se si vuol avere il ricavo.

E poiché si è fatto più volte confronto tra il progetto dell’ingegnere Milani, per giungere al quale si fece tanto sacrificio di tempo e di denaro, e il preventivo Campilanzi che si era fatto prima del suo arrivo, e senza alcuna spesa della società, riassumeremo il confronto in tabella. [p. 69 modifica]

Titoli delle spese
sulla linea maestra
Preventivo Compilanzi, senza studj e senza spese
anno 1836
Progetto Milani, approvato dai Direttori
anno 1838
Progetto Milani
a
stampa
anno 1840
Movimenti di terra Lir. 
7,930,000 4,471,838 4,471,818
Acquisto di terreno  „  
2,897,500 2,958,071 2,958,071
Ponti, Botti e Tombini „  
6,804,900 9,534,801 9,534,801
Passaggi delle strade postali e communali „  
2,425,000 1,270,570 1,270,570
Case da demolirsi „  
1,200,000 440,654 440,654
Stazioni e altri locali „  
1,700,000 2,100,000 3,000,000
Guide, piatteforme e loro collocamento „  
14,423,420 13,367,509 11,592,023
Cuscinetti, chiodi e cúúnei e loro collocamento „  
7,598,696 4,653,644 3,407,880
Traversi di pietra „  
3,318,720 2,028,796
 
» di larice „  
 
 
3,381,328
Capi stabili „  
1,980
 
 
Pietre miiliarie „  
3,210 2,880 2,880
Locomotive e cassoni „  
736,304 737,888 3,243,120
Carrozze „  
398,090 433,300 1,795,000
Carri „  
400,000 400,000 676,000
Progetto e amminustrazione „  1,000,000 1,200,000 1,200,000
Spese imprevedute „  
1,200,000 1,000,000 1,600,000
Interessi 2,081,512 3,487,461 3,499,951
Oggetti diversi
 
 
400,000
Totale Lir. 54,119,332 49,087,912 52,474,596
Sopraprezzo del ferro indigeno „  
 
 
12,118,478
Braccio di Treviglio a Bergamo, compreso il ferro „ 
 
 
2,986,016
Totale 67,579,090

Perlochè il progetto Campilanzi, fatto senza spese, è tuttavia il più prossimo al vero, non solo nella cifra totale, ma in tutti quasi i particolari; poiché, tranne i tre articoli dei ponti, delle stazioni e degli interessi, le cifre [p. 70 modifica]del sig. Milani o sono a un dipresso le medesime, o sono assai meno probabili.

Questo progetto comprende dunque una sola linea di livellazione, rettificata appena in qualche tronco; e del resto consiste in calcoli improvisi, non discussi, arbitrar], già trasformati in diverse maniere, diminuiti ad arbitrio per le guide, quadruplicati per le locomotive, cangiati nelle dimensioni, nelle materie, nei prezzi, sbagliati di parecchi milioni in più capitoli, mancanti per le stazioni, per le gallerie, per le murature, per la ghiaja, e appoggiati ad una tariffe erronea, tanto per i passaggieri quanto per i bestiami e le merci, e ad una capovolta proporzione tra le due fonti principali dell’ introito, e ad un calcolo di ricavo, che, essendo per ogni parte minore d’una ragionevole probabilità, tende a disanimare i soscrittori.

Ponte sulla laguna.

Il ponte della laguna ch’è infine un’appendice, una settantesima parte dell’intera linea, occupa metà del progetto Milani. Questo è soverchio, perchè prima bisogna pensare alle cose principali; e col vapore può stabilirsi frattanto una rapida communicazione anche sul Canal Militare. Come già si accennò, vi rivediamo, senza menzione di proprietà, tutti i pensieri del signor Meduna. Scelta al passaggio la stessa parte di laguna, la stessa barena, lo stesso Canal Colombola, e per le stesse cagioni dei parti-aqua e della laguna morta; suddivisa la tratta con cinque isole artificiali, una maggiore e quattro minori; coordinata l’altezza del ponte a quelle degli árgini e della marea; gli stessi calcoli sulla profondità del caranto che forma fondo solido alla laguna, gli stessi materiali per la costruzione, le stesse forme, le stesse larghezze. Perchè non ha egli fatto alcuna menzione del suo antecessore?

Le aggiunte ch’egli poi fece sono tre: combinò col ponte l’antico progetto d’un aquedutto; fece un tubo per condurre da Venezia il gas illuminante; e in capo al ponte verso Venezia fece sul Canal Colombola un ponte girevole a due luci per dar passaggio alle barche.

L’aquedutto è doppio; ciascun canale ha un metro di [p. 71 modifica]larghezza e più di mezzo metro (0,m53) di profondità. Fra queste ampie cavità ne corre una terza, che contiene il tubo pel gas; al disotto sono sostenute con archi che hanno dieci metri di corda, e i cui piloni sono fondati nella laguna; tutte queste vôlte e queste cavità devon esser tanto solido da reggere alla formidabile scossa della locomotiva e del suo lungo tráino, sopra una linea di costruzione che per due miglia non ha sostegno alcuno fuor di sè stessa, e del fondo pur sempre difficile della laguna. Murature, costrutte infine con mercantile esilità, con cavità così grandi, non assicurate contro gl’inevitabili trapelamenti, potranno resistere lungamente a questa complicazione di cose fra loro così nemiche, come l’aquedutto e la locomotiva? L’accozzamento delle due imprese richiederebbe una così esuberante solidità, che forse sarebbe men difficile fi fare due separate operazioni. Del resto prima bisognerebbe provare che in Venezia non vi sia speranza di ottener aqua da pozzi trivellati.

Le difficoltà si raddoppiano e s’intrecciano stranamente presso all’abitato di Venezia; ivi con un ponte girevole, confitto a forma di T sopra un pilone, si attraversa il Canale Colombola, in modo che aprendosi lasci il passo alle navi d’alta alberatura; e chiudendosi lasci il passo alle locomotive. In quel luogo i due aquedutti passeranno a sifone sotto il fondo del canale; e con essi un terzo sifone pel passaggio del gas; e un quarto perchè gli artefici possano discendere sotto la laguna a fare le riparazioni; e due scale a chiócciola lunghe due metri e mezzo; e due scale communi di nove gradini; e poi ancora quattro pozzi fittici, lunghi sei metri, per filtrare le aque, proprio in quel luogo; e poi quattro (canali per le aque sovrabondanti; e sopra i filtri e i canali i coperchi loro in parte stabili, in parte mobili; e poi la rotaja; e due barricate di legno tra la rotaja e i due sentieri dei pedoni; e parapetti di pietra, e palle girevoli di metallo, e ringhiere di ferro, e cunette con tubi verticali di ghisa per le aque piovane. Tutte queste meraviglie in un fascio: navi e locomotive, pedoni e vaggoni, aqua piovana, aqua salsa, aqua filtrata e non filtrata, stazione di terra, stazione di mare; e ogni giorno alcuna di queste cose non andrà a dovere; fughe di gas, e zampilli [p. 72 modifica]d’aqua, e trombe per vuotare i sotterranei, e aqua salsa nei filtri, e il ponte che s’apre male e vien urtato dalle navi, o si chiude male e viene arietato nell’unico suq sostegno verticale dalla locomotiva. Chi propone cose sì straordinarie, deve provar prima la sua perizia nelle cose più triviali.

Le cinque piazze lungo il ponte fanno in tutto quasi novemila metri di superficie, circa tredici pertiche milanesi. Furono divisate dal sig. Meduna più per commodo e bellezza, che per necessità; e ad ogni modo nella laguna non sembran opere molto difficili e dispendiose; tantoché il sig. Milani non le notò tampoco nel prospetto delle spese. Se non m’inganno, a questo modo si formarono a Venezia i Giardini Publici e il Campo Marzio; e pare che vi si adoperi la terra estratta dai canali di navigazione. S’è veramente vero, che importi tanto di non intercettare il passo alle navi marittime d’alta alberatura in quel Canal Colombola, e di lasciare un varco difendibile tra il ponte lungo e la città; ebbene raccorciate il ponte, e questo è già un guadagno; risparmiate quel fragile giocáttolo del ponte girevole, e fate terminare il ponte lungo in un’ultima piazza, più ampia di tutte. E sopra quella non fate un Giardino Publico, nè un Campo Marzio; non fate le - piazze "coltivate a giardinetti con piante e fiori ed eleganti fabricati di genero diverso, diretti al ricovero, al riposo, al diletto dei passaggeri" (§ 176, p. 43); ma fate piuttosto una stazione. Isola per isola, tanto val questa come la vostra; vi troverete in faccia al Canal Grande, al Canal Regio, al Canal dei Marani, a quelli che vengono da Mestre e da Fusina e dalla Giudecea, e da tutte le parti insomma, in luogo assai più commodo e libero che non le vicinanze di S. Simeone Piccolo. E Venezia rimarrà ancora nel verginale isolamento in cui nacque; e il ponte, che rispettoso si arresta al márgine della sua circonvallazione, non introdurrà in riva al Canal Grande i carri e le carrozze, che di passo in passo inoltrandosi, imporrebbero ben tosto di spianare le curve de’ suoi ponti, e sotterrare le sue vie d’acqua.

Noi studiosi delle arti della pace e dell’economia, non di quelle della guerra e della distruzione, non abbiamo diritto ai discutere le asserzioni erronee, che riguardassero l’arte [p. 73 modifica]militare, perchè poco ne sappiamo se non per quanto ne dicono le gazzette e i libri d’un secolo che va matto a parlar di queste cose. Ma se nell’interno d’una fortezza, e dietro il forte di Malghera e le batterie di S. Secondo e S. Giuliano, e in vista a tutti i grandi canali e ai legni che li guardano, il sig. Milani suppone ancora che una sorpresa militare sopravenga non vista da un capo all’altro d’un ponte rettilineo, scoperto, lungo due miglia, veduto da tutti i campanili e dalle case di Venezia, dominato da più forti, interrotto da cinque batterie sporgenti, che lo infilano e lo incrociano, s’egli crede possibili tutte queste cose, allora sarà meglio avere un largo canale senza ponte, che un ponte girevole, il quale in caso di sorpresa si coglierebbe aperto. Del resto queste sono tutte inezie; perchè quando un assalitore fosse padrone di tutto il ponte e delle sue batterie e dei forti circostanti, senza i quali egli vi verrebbe distrutto insieme al suo ponte in un momento, e si trovasse fino sul labro del ponte girevole, a un tiro di sasso dall’abitato, sarebbe un nemico poco risoluto se non voltasse i tetti della città in capo a chi avesse la temerità di compromettere, contro tutti gli usi di guerra, e tutte le leggi dell’umanità, un ammasso di case scoperte. E in tal caso non farebbe più bisogno che si divagasse "a occupare una superficie di 172 miglia quadre" come il sig. Milani ci narra essere necessario per penetrare in Venezia (§ 121, pag. 31); poiché a buon conto le gazzette dicono, che, per entrare in qualunque fortezza, basta fare una breccia di pochi metri, e non prendere le centinaja di miglia.

Quanto al gas, non vale la fatica di pensarvi; la strada ferrata o non si percorrerà di notte, o se si dovesse illuminare in tutta la sua lunghezza, lo stesso mezzo servirebbe anche al ponte. Ad illuminare un rettilineo scoperto meglio varrebbe, e meno costerebbe, un solo faro a gas, giovevole anche alle bai-che sui vicini canali; e non sarà più difficile illuminare, o con gas, o con lampade, il ponte della laguna, che la Giudecca, o S. Giorgio Maggiore, e tutte quelle altre isole che non sono congiunte a Venezia con ponti. E finalmente ai pedoni sarà sempre più convenevole il tragitto per aqua, che una passeggiata notturna di otto mila e più metri fra le paludi fino a [p. 74 modifica]Mestre, tuttoché illuminata dal gas, o come dice il signor Milani, dal vapore 1 Ma questa splendida, ma pure accessoria, opera del ponte noi consigliamo si faccia da ultimo, perchè questa non è la parte dell’opera che possa aprire una nuova vena di movimento commerciale; costerà come una strada ferrata d’una lunghezza dieci volte maggiore; e quando la strada intera, condutta a faticoso compimento, affollasse in Mestre migliaja di passaggieri, il vapore potrà porgere anche sull’aqua una bastevole celerità di servigio a spesa assai minore, perchè non si dovrà pagare interesse e dividendo e ammortimento al grosso capitale investito nella costruzione del ponte. Perlochè gioverebbe che per ora nei Conti preventivi il capo della linea ferrata si supponesse stabilito a Mestre, e da tutta la linea si diffalcassero quegli ottomila metri; i quali comprendono, oltre al ponte (3547m), una lunga tratta terrestre (4579m) che per le molte paludi e i canali e i pericoli d’inondazione, sarà forse la più scabrosa e costosa di tutte.

Del passaggio presso il lago di Garda.

Dopo tutte le cose dette, con qual fiducia accetteremo noi un’asserzione come quella dell’ingegnere Milani, che “nessun varco facile, od almeno di spesa proporzionata ad uno scopo d’utilità si apre tra le colline del lago di Garda?" Dove sono i calcoli della spesa, e quelli dell’utilità? Dove sono i dati di livellazione, i tracciamenti comparativi, le stime dei lavori? E se vi fossero, qual valore avrebbero? Ma nel progetto Milani, e nelle annesse carte nulla si trova. Le informazioni ch’io raccolsi sul porto di Desenzano, dove il solo battello a vapore ha un movimento di ventimila persone all’ anno, verificate da me collo spoglio d’un sacco di bollette, e dove fanno capo quasi tutte le quattrocento [p. 75 modifica]grandi o piccole barche di quel lago, rimasero sepolte nell’officio tecnico.

Per fuggire il "varco non facile" e tutte le difficoltà, l’ingegnere Milani propone un prolungamento di 15 mila metri con una discesa di 108, e una salita di 32. E non, lo fa per introdurre sulla strada ferrata una buona città, come Bergamo; ma tutto al contrario lo fa per aggii-arsi nella parte più deserta, e sola deserta parte, delle nostre pianure (Vedi la Mappa di popolazione nel Politecnico vol. I); lo fa per evitare il bellissimo lago di Garda, dove i soli distretti bresciani contano 44 mila abitanti, forse i più industriosi del regno, e inoltre fanno capo le provincie di Verona e di Mantova e il Tirolo Italiano. Sarebbe questa la parte più amena di tutta la linea, a distanza quasi eguale da Milano e da Venezia; dimodoché chiamerebbe migliaja di passeggieri a percorrere un assai lungo tratto della strada, massime nella stagione invernale, quando, in mezzo ai geli, quelle riviere coperte d’olivi sembrano quasi un’isola di primavera. Sono intime e continue le relazioni fra Brescia e la sua Riviera di Salò, fra Verona e la Gardesana, continuo il passaggio di migliaja di lavoratori trentini alle pianure milanesi, grande lo scambio dei bestiami e legnami delle montagne coi grani delle basse, poiché le alte valli appena mietono grano per tre mesi. Vi sarebbe un immenso movimento a brevi distanze di minuto popolo, di necessarie sussistenze, e di produtti del luogo, come i vini, gli olj, gli agrumi, il pesce, la carta. E infine è quello un terreno che ogni viaggiatore non inculto visita con amore, allettato dalle antiche rimembranze del Benaco e di Sirmione. Ma sia pure che ingegneri e banchieri debbano guardare con inesorabile disprezzo queste galanterie; vediamo la questione d’arte e d’interesse.

Su tutto il controverso intervallo, il letto del Mincio, che esce dal lago di Garda per discendere a quello di Mantova, ò sempre il punto più basso dei livelli. Quanto più il passaggio si fa lontano dal lago di Garda, tanto maggiore è la contrapendenza, vale a dire tanto più sono i metri che nella discesa da Brescia a Verona bisogna inutilmente discendere, per poi risalire a forza di fuoco e di tempo.

Al contrario il punto da prendersi possibilmente di mira agli studj, dovrebbe esser quello che producesse minor [p. 76 modifica]contrapendenza, cioè quello che, posta una distanza di 40 mila metri incirca da Brescia al Mincio, fosse possibilmente 48 metri sotto al livello della stazione di Brescia, e tuttora 27 sopra il livello della stazione di Verona; nel quale astratto supposto non vi sarebbe contropendenza; e la continua pendenza fondamentale rimarrebbe poco più dell’1 per mille. Questo passo del Mincio dovrebbe dunque essere possibilmente 52 metri al disopra di quella linea di livello, sulla quale propone di passarlo il sig. Milani. L’altezza del passaggio potrebbe dipendere in parte dalla forma del ponte stesso. E qui non si può non ricordare ad esempio il bello e quasi inutil ponte che si ammira a Borghetto in quelle vicinanze.

Siccome tutte le acque di quel territorio confluiscono al lago e al Mincio, così non vi si possono trovare luoghi più bassi del Mincio stesso. Perlochè il livello fondamentale non potrebbe venir alterato se non dalle interposte alture. Ora, queste si possono in gran parte evitare con una sagace concatenazione di linee curve e rette; in parte si potrebbero accavallare, rinforzando la lieve pendenza fondamentale ch’è dell’uno per mille; in parte demolire con tagli; in parte sottopassare con gallerie. Sono per lo più coni bassi e isolati; solo alla sinistra del Mincio formano due spine continue, che sarà forse necessario traforare. Tutto quell’intervallo può essere di circa 28 chilometri. Le alture non sono continue, anzi in alcuni tratti sono assai sparse; e quivi non solo il livello generale è favorevole, ma, perchè il piano della Logana è declive lateralmente verso il lago, si può modificare l’altezza della linea coll’allontanarla più o meno dal lago stesso. Supponiamo che i poggi ingombrino la metà delle distanze, cioè circa 14 chilometri, e che per una metà si possano evitare, o salire con tollerabili contrapendenze. Rimarrebbero dunque da forzarsi con opere straordinarie non più di 7 chilometri, cioè quattro miglia incirca.

Ora, se si potesse per tal modo ottenere la più breve linea, passando presso Castel Esenta, Castel Venzago e Peschiera, si potrebbe avere, in confronto del lungo circuito dell’ing. Milani, un abbreviamento di 15 mila metri. Al costo di 250 mila lire al chilometro, si risparmierebbero in questa parte quasi quattro milioni, che potrebbero [p. 77 modifica]portarsi a rinforzare la linea più breve, e a vincere con opere addizionali i supposti 7 mila metri d’inevitabile altura. Avremmo dunque un soprapiù di 500 lire per ogni metro corrente di strada. Ora questo è il costo della gran galleria di duemila metri, che si aperse sotto la città di Liverpool, e costò un milione. Insomma sarebbe questa la quarantesima parte della linea Milani; e si tratterebbe di destinare, a sopraspesa del solo movimento di terra su questo breve tratto, all’incirca la somma stessa che l’ingegnere Milani domandò per i movimenti di terra di tutta quanta la sua linea, ch’è quaranta volte tanto!

A questi dati, la linea breve e la linea lunga, alla peggio, costerebbero egualmente. E se non si studia il terreno, non è possibile al sig. Milani, nè a chicchessia, dimostrare il contrario. Ma tutti vedranno che v’è tutta la probabilità di risparmiarvi qualche milione. Se le gallerie costassero così enormemente, come avrebbe potuto il sig. Milani dimenticarsi di menzionar la spesa delle tre da lui proposte? All’ultimo, rimarrebbe sempre il ripiego dei piani inclinati e delle machine fisse. Lo stesso sig. Milani riconosce pure la possibilità e convenienza di condurre un braccio di strada ferrata da Castiglione a Desenzano, attraverso a queste medesime alture (§ 48 V.) e nella direzione della più ripida discesa.

Vi sarebbe poi sempre a vantaggio della società la minore spesa di manutenzione di 15 mila metri, gravoso c perpetuo pendizio, il quale, se, giusta i dati del sig. Milani, è di quattro milioni all’anno per tutta la linea, sarebbe di 220 mila lire per questa parte. Inoltre si eliminerebbe una forte contropendenza. Il prezzo delle corse; si potrebbe diminuire di lire 1,50; il che fa un diciottesimo sulla corsa da Milano a Venezia (271,000m)j un decimo sulla corsa da Milano a Verona; e un quinto, che non è poco, sulla corsa da Brescia a Verona. Al risparmio del denaro corrisponde il risparmio del tempo; quindi la possibilità di far le corse giornaliere in un maggior numero di giornate invernali, e di farne più d’una nelle giornate estive, cose tutte che a circostanze eguali accrescono, con vantaggio della società, l’utile della strada. E infine, per ripetere ciò che fu detto da principio, la più spopolata, disutile, disamena parte della linea, diverrebbe popolata e utile, e la più amena di tutte. Se poi [p. 78 modifica]la società volesse tener fermo il prezzo delle corse, facendo al passaggiero il solo trattamento del minor tempo e della strada più bella, ella, sopra mezzo milione di persone, avrebbe 750 mila lire nette con un proporzionata quantità di merci e bestiami. Al che aggiungendo il maggior movimento per le ragioni sovresposte, sarebbe moderato il calcolo d’un milione di maggiore introito netto! E questo, sommato col risparmio di manutenzione, rappresenterebbe un capitale enorme, al quale si dovrebbe aggiungere qualche milione che potremmo quasi esser certi di risparmiare sull’abbreviamento delle costruzioni, e massimo sul grave prezzo del ferro. E poi, per conchiudere questo inventario di felicità, aggiungeremo, che un diciottesimo meno di lavori ci dovrebbe, sopra nove anni, dar compiuta la linea mezz’anno prima. Il che sarà un gran regalo per tutti quegli sventurati che dovrebbero partir da questo mondo in quell’ ultimo semestre, senza avere il gusto di far la gran corsa a vapore da Milano al mare!

Giova dunque consigliare agli azionisti che sepn’altro si ordini di fare una fitta rete di livellazioni su tutto quel triangolo di terreno; lavoro che può compiersi in un mese. E se gli incaricati della società non vi trovassero lodevole scioglimento, si stampino pure i profili, e s’invitino con larghissimo premio gli esperti a porvi il loro ingegno. Allora soltanto si avrà diritto di dire che si sono fatti gli studj. A questo non manca tempo; intanto si compia la rimanente e principal parte dei lavori. E si vorrebbe ripetere ciò che nel 1837 invano ebbi a dire intorno al braccio di Monza, cioè che la società non deve lasciarsi preoccupare il terreno presso al lago di Garda; altrimenti vi potrebbe surgere fra poco un impresa rivale; e la costruzione della strada ritroverebbe tra Brescia e Verona quegli stessi ostacoli, che l’imprevidenza le accumulò tra Brescia e Milano.

Rendiconto dei direttori.

Nel rendiconto pnblicato dalla direzione (V. Atti officiali del congresso 30 luglio 184o) le spese dirette dell’operazione tecnica si facevano già salire a più di 300 mila lire (310,346). Può giovare ad altre simili imprese [p. 79 modifica]il dire che dieci o dodici ingegneri, scelti nel fiore della gioventù, si potevano ripartire in altrettante sezioni di dodici o tredici miglia, ove operassero con norme uniformi, proposte, discusse e sancite in presenza dei direttori e d’un capo d’ordine. Così l’unità dell’opera si sarebbe congiunta alla sacra proprietà delle fatiche ed allo stimolo della risponsabilità e dell’onore. Si sarebbe potuto fare anche un diverso riparto a seconda delle speciali attitudini; il piano stradale ad alcuni, ad altri le stazioni, ad altri i ponti, ad altri la sistemazione delle rotaje e dei rotanti; ma sempre in modo che ciascuno avesse sull’opera propria il proprio nome. Ma intendiamoci, molte livellazioni, molti calcoli, molti scandagli, molte discussioni, ma pochi disegni; perchè queste finitezze sono inutili in un progetto sommario, soggetto a grandi mutazioni. Se un ponte viene smosso dal suo luogo un centinajo di passi, non si trova più la stessa direzione della corrente, la stessa profondità, la stessa larghezza, le stesse rive, si cangiano le arginature, si cangia l’avvallamento. Dunque basta stabilire i limiti estremi, fra i quali possono variare le masse di costruzione. Il concorso delle viste e delle menti, e il conflitto regolare delle opinioni avrebbero recato nell’officio dell’impresa tutti quei lumi dei quali il paese parve povero, mentre più ne abonda, L’uomo di merito avrebbe potuto servire con dignità e responsabilità, e non avrebbe avuto a soffrire il giogo di discipline umilianti; avrebbe prestato l’opera della sua intelligenza, non la servitù della sua mano. A diecimila lire ciascuno, sarebbero costati a un dipresso ciò che costarono i trenta ingegneri subalterni, trattenuti a lungo a miniar disegni d’inutile apparato, e troppo scarsamente pagati. E sarebbero sparite tutte le altre spese di questa partita (180,000), e sopratutto il costoso stabilimento d’un officio tecnico, al quale poteva ben servire il locale della direzione, e il mostruoso onorario dell’ingegnere in capo, che in luglio scorso era già salito, senza le spese d’alloggio, a lire 88 mila (87,984), e che a conti finiti non sarà molto al disotto di lire centomila; con quell’utilità che omai si vede.

Le spese statistiche costarono per le province lombarde 3318 lire, per le province vénete più del doppio (6807). Fatte da una sola mano, e non dirette dall’ingegnere, che non ne aveva pratica, dovevano costare assai meno; e [p. 80 modifica]potevano abbozzare una statistica del regno, opportuna a mille usi industriali. La maggior parte delle notizie raccolte per le province lombarde rimasero inedite nell’officio tecnico, perchè non erano estese colla stessa diligenza alle province vènete. L’ingegnere diramò una rete estesissima di dimande inutili, e le ricerche più importanti e fondamentali, cioè quelle che riguardano il riparto e l’aggruppamento e l’indole della popolazione, si riducevano a due sole: popolazione assoluta d’ogni provincia e d’ogni città, senza alcun rapporto alla densità ed alla distribuzione. L’esteso lavoro tabellare che si fece nelle province lombarde, porse materia ad un articolo di questa nostra Raccolta (vedi Vol. I.); ma restano inéditi per lo meno venti altri lavori tabellari d’egual fatica, frutti di spontaneo zelo, e due soli vennero inseriti in parte nel progetto Milani, cioè i movimenti dei sali e dei tabacchi, però mutilati, e non estesi con eguale sviluppo alle province vénete. Mancano le tabelle dei consumi urbani, delle importazioni, delle esportazioni, dei tránsiti, dei produtti rurali, dei bestiami, delle industrie principali, delle materie da costruzione, dei mercati, dei pedaggi di terra e d’acqua, dei viaggiatori, dei passaporti, delle strade, dei prezzi di trasporto per terra e per aqua, delle linee navigabili, del tempo delle corse in ascesa e in discesa, della portata e del numero delle barche sui canali, sui fiumi e sui laghi, e dell’attitudine della strada ferrata a collegare fra loro le diverse linee di navigazione interna, le quali in Lombardia sono in proporzione maggiore che nel Belgio, e in paragone di superficie più del doppio che in Francia. Questo ammasso di notizie, raggruppato e riassunto in breve spazio, avrebbe svelato la prima volta agli esteri, e a noi medesimi, l’immensa forza produttiva del paese sul quale si doveva stendere la strada ferrata; e col confronto dei fatti materiali avrebbe infuso una ragionata e ferma persuasione nella immancabile bontà finale dell’impresa, e dimostrato ch’essa non si deve confondere colla marmaglia delle altre strade ferrate. In questo doveva consistere il progetto a stampa, perchè questa è la base, sulla quale deve surgere, e alla quale deve proporzionarsi il coraggio degli azionisti e lo slancio delle spese. Per la parte tecnica bastava indicare le pendenze e i movimenti ai terra, nonché le gallerie e [p. 81 modifica]gii altri lavori straordmarj; perchè del resto gli azionisti sanno a memoria i prezzi delle guide, e dei cuscinetti, e dei chiodi, e di quelle pietre milliari che nessuno dimentica mai. E tutti infine sanno che gli ingegneri i quali fanno i conti preventivi, scrivono sempre i numeri più piccoli dei ragionieri i quali fanno i consuntivi.

Se le cose fossero procedute coi principi d’una domestica azienda, gli amministratori avrebbero potuto seguir sul terreno l’impresa, e stabilirsi in qualche punto della linea, probabilmente nel mezzo; e non si sarebbero disgregati in due sezioni alla massima distanza, in modo che un corpo forma due corpi; quando una parte non si rassegni ad una continua nullità, le volontà più concordi non possono non venire presto o tardi a conflitto; e le minime communicazioni, a cui basterebbe una parola, importano impegno di processi verbali e lettere e protocolli, e un tempo infinito; il quale, divorando gl’interessi, divora i capitali, e provoca la nascita delle difficoltà, e sembra aspettare a bello studio finché arrivino le crisi, e ai furori del credito succedano le smanie del discredito. Per questo modo le spese d’onorarj, locali e registri, e posta e corrispondenze si sarebbero in gran parte soppresse. Posso provare che a quest’ora si sarebbero risparmiate 70 mila lire; e in futuro a proporzione.

In tal caso gli amministratori, essendo interamente dedicati a quest’opera, e non assorbiti dagli affari della propria casa, avrebbero potuto recarsi ove il bisogno richiedeva; e non avrebbero dovuto confidarsi ad agenzie di terzi. Queste non sollecitarono menomamente le faccende sociali; anzi da esse provennero tutte le presenti complicazioni e difficoltà. Quanto poi al commodo ch’esse porgono ai versamenti nei diversi luoghi, a ciò avrebbero pensato gli azionisti che vi si trovano. La spesa di queste inutili e pregiudicevoli agenzie, non legittimate dallo statuto, saliva già l’estate scorsa a lir. 42,646; e uon si è mancato di dirlo e di scriverlo in tempo.

Così pure mentre i fondatori ottennero centomila lire (99,638) di rimborso, in forza d’uno statuto fatto da essi medesimi, e non controverso dai direttori perchè sono ancora essi medesimi, questa partita si poteva ridurre alle sole spese d’emissione dei certificati; e la società fondatrice avrebbe proveduto alle spese proprie sulla sua soscrizione, [p. 82 modifica]poiché in virtù di questa ella ottenne anche l’aggio delle azioni. Questa partita si sarebbe dunque potuta ristringere ad un quinto.

Per ultimo, se non si fosse differito d’alcuni mesi ad investire a frutto il capital giacente nella Cassa di Milano, non vi sarebbe una lacuna tra gli interessi pagati agli azionisti (300,000) e i frutti ottenuti dalla Direzione (271,678), cioè più di 28 mila lire.

Riassumendo, diremo, che un’ordinaria amministrazione, come qualunque altra di questo paese, avrebbe fatto i seguenti risparmj:

Spese superflue dell’officio tecnico 
Lir. 180,000
Doppio officio della direzione, corrispondenza e registri doppj 
» 70,000
Agenzie 
» 42,000
Rimborso ai fondatori 
» 80,000
Capitale infruttifero » 28,000
Lir. 400,000


Questi risparmj sono in accordo colla piena osservanza degli statuti, e ammontano alla metà incirca delle spese fatte. Ma se il più semplice principio amministrativo avesse retto la compilazione degli statuti medesimi, le forze pecuniarie della società potevano tenersi ancora più raccolte; e si potevano conservare all’opera altre 300 mila lire, che si dispersero sotto titolo d’interessi, senza vantaggio alcuno nemmeno nell’aggio delle azioni, ch’era alto egualmente prima della promessa degli interessi come dopo. Il risparmio sommerebbe allora a lire 700,000. Perlochè sulla somma di lire 873,408, alla quale ascendeva fin dallo scorso luglio la passività del Rendiconto, le vere spese utili si riducevano allora ad un quinto!

Del pagamento degli interessi.

Questo punto si oppone alle abitudini della Borsa; ma un'amministrazione paterna, e non complicata col principio bancario del lucroso smercio delle azioni, non avrebbe mai costituito sulle rate di capitale un frutto prematuro [p. 83 modifica]e fittizio. Chi mai, edificando una casa, ne riscuote il fìtto, prima d’averne posto le fondamenta?

Se per supposto, un tunnel sotto un gran fiume, o un gran ponte, alla perfetta sua costruzione e consolidazione richiedesse dieci anni prima d’esser posto in utile esercizio, il frutto del capitale investitovi non potrebbe scaturirne se non dopo i dieci anni. I frutti non percepiti si metterebbero in conto di maggior capitale contribuito; il ricavo dell’opera dovrebbe essere largo abbastanza di farvi compenso; e quindi a opera inoltrata le azioni non si potrebbero cedere senza perdita se non al disopra del pari.

Ma se, per allettare con vezzo bancario e coll’apparenza d’una vendita al pari, si preleva un interesse durante i dieci anni, ciò vuol dire, cbe chi avesse contribuito per un’azione di 1000 lire, suddivisa in versamenti di 50 lire a sei mesi d’intervallo, e ne avesse ricevuto il 4 per 100, in capo ai dieci anni avrebbe ritirato a sè, sotto forma di preteso frutto, 210 lire del capitale; e ne avrebbe messo realmente nell’opera sole 790. Tanto fa cbe avesse pagato le sole lire 790; e avesse risparmiato l’incommoda e non gratuita farsa delle rate d’interesse. Nella nostra impresa ognuna di queste rate importa cinquantamila numeri d’annotazione, e quando interviene un’agenzia, il triplo!

Se poi per la materiale costruzione è veramente necessario il prefisso numero d’azioni intere da lire mille, egli è certo che l’opera in capo ai dieci anni non si troverà flnita; e bisognerà effettivamente rimettere, in altre azioni o in qualche maniera, le 210 lire, che si sono date e riprese. I versamenti, in apparenza sempre eguali, saranno divenuti progressivamente più deboli e languidi, poiché ad ogni versamento l’azionista, pagando con una mano una somma sempre eguale, avrebbe riscosso coll’altra una rata d’interessi sempre crescente; cosicché nel ventesimo pagherebbe le solite 50 lire, ma ne riprenderebbe 20 a titolo d’interesse, e 30 sole entrerebbero nelle costruzioni, le quali perciò si protrarrebbero fin oltre il quattordicesimo anno.

Il dividendo promesso dovrebbe dunque ripartirsi sopra una maggior cifra capitale. Epperò l’impresa sembrerebbe sbagliata, anche quando i lavori riescissero di tutta perfezione, e le spese corrispondessero a tante migliaja di lire quante vennero fedelmente indicate nella stima dell’opera. Questa [p. 84 modifica]falsa apparenza di cattiva riuscita è perniciosa al pari d’un vero disastro. Per facilitare in modo improvido e inopportuno lo smercio delle azioni, il banchiere smove da lontano quel credito universale di cui la professione vive, e provoca quella crisi che può portare in fumo la seducente sua fortuna.

Questo è dunque un gran quesito che la legislazione europea deve sciogliere. Postochè l’opera dei banchieri è necessaria alla diramazione delle azioni industriali, ossia all’adunamento del capitale: postochè senz’aggio largo e pronto non si può pretendere l’opera dei banchieri: qual forma la legge debba condannare nell’aggio, e quale ella debba proteggere, affinchè l’inganno sia minimo, e men ruinoso il disinganno, e le utili opere vengano efficacemente promosse.

Origine della controversia sulla linea di Bergamo.

La controversia, che ferve tra la linea di Treviguo e di Bergamo, non si può intendere, se non si risale alla sua fonte, poiché non è questione d’arte, ma d’interessi. La commissione fondatrice veneta erasi appropriata, come già si disse, la soscrizione di cinque milioni, senza il parere degli interessati, in un tempo in cui già vi correva l’aggio del 9 per 100; vale a dire una somma di quattrocento e più mila lire, post factum, e senza rischio. Gl’interessati se ne lagnarono; varj banchieri viennesi vi fecero far protesta all’adunanza del 21 agosto 1837; e nel processo verbale si possono leggere le sottigliezze colle quali s’impose silenzio ai procuratori. Ma per riuscirvi si era già promessa l’instituzione d’un’agenzia, la quale promovesse colà la spedizione degli affari (ciò che toccava veramente ai direttori in persona), e pagasse e riscotesse in luogo a rischio della società; ciò che non era necessario, nè previsto dagli statuti.

Le trattative si prolungarono; e giova qui riferire alcuni brani d’una nota ch’ebbi allora occasione di scrivere pei direttori.

"Si tratta di porre in mano di terzi parte del patrimonio sociale, senz’ autorizzazione della società, e senza vero bisogno, cosa che non entra nei limiti d’una generale e paterna amministrazione. Poiché non si può dire [p. 85 modifica]che i padri di famiglia sogliano accumulare senza bisogno le somme in una sola mano, che, comunque onorata e valida, è pur sempre esposta alle umane vicende".

"L’istituzione d’una ricevitoria per sè non facilita le opere di costruzione, non accerta maggiormente l’incasso del denaro... non promove la collocazione delle azioni, perchè son già tutte collocate. Essa non è che un’agevolezza conceduta a quella parte degli azionisti... e deve dare alle azioini un maggior favore su quella piazza, che sulle altre grandi piazze d’Europa. Se la direzione crede utile all’impresa che le azioni ristagnino perpetuamente in una sola piazza... ch’esse non entrino mai nella gran circolazione europea, che possano soggiacere ad un’unica crisi, ed all’arbitrio di poche case, alle quali sarà necessario render pedissequa la gestione degli affari, ella deve determinare da questo momento che non si debba mai erigere altra ricevitoria. Ella deve determinare che gli azionisti che colà risiedono, debbano avere un privilegio,... senza il quale essi furono egualmente volonterosi d’acquistarle ... Ma se il credito delle azioni può venir promosso dall’istituzione d’un’agenzia, sarebbe utile tenersi in libertà di poterne stabilire altre ancora ... Dunque le cautele da imporsi a questa prima istituzione devono servire di modello perpetuo, dal quale non si potrebbe più prescindere senza far torto ... Se una protesta o qualunque altra opposizione avesse mai a rinovellarsi, l’instituzione d’un’agenzia potrebbe forse divenire un pegno in mano agli avversarj ... Quanto al compenso da prestarsi, l’agenzia come sollecitatrice dev’essere a carico di tutta la società; ma quello della ricevitoria deve tornar a carico di chi ne profitta; quindi non può consistere in una somma fissa, perchè il numero di quegli azionisti è variabile".

Il parere fu inutile: s’instituì fuor dello statuto l’agenzia e s’instituì con annuo soldo fisso, il quale dalle richieste lire 50 mila con fatica si ridusse a 24 mila. L’unico servigio ch’ella prestò in quell’anno si fu di pagare a quegli azionisti due rate d’interesse, cioè forse 60 mila lire; il che costò una provisione di lire 24 mila (4o per 100) alla società tutta, compresi quegli azionisti che dimorando in altre città, non se ne potevano valere. Le amministrazioni [p. 86 modifica]bancarie inclineranno sempre a condurre gli affari in questo modo.

I nocevoli effetti d’una non necessaria fidanza in lontani agenti si congiunsero agli effetti d’una soverchia indipendenza concessa al lontano officio tecnico, poiché i direttori moltiplicavano d’ogni parte questi costosi stabilimenti. Importava assai di promovere cogli studj tecnici quella parte delle domande sociali che si riferiva al braccio di Monza, e perchè cosa di non dubbio valore in sé stessa, e perchè volevasi tenere il terreno tutto libero e sgombro da rivalità. Ma l’ingegnere aveva già tesi i suoi fili sulla Carta, e non voleva spender pensieri fuori di quella sacra lista. Alcuni abitanti di Bergamo, ingelositi del rapido rettilineo che congiungeva il commercio di Milano col mercato di Brescia, Verona e Vicenza, publicarono una memoria, in cui si esponeva l’importanza statistica della loro provincia; il che nessuno aveva mai posto in dubbio; anzi per ciò appunto erasi abbandonata la primitiva linea di Pandino e Orzinovi, e attraversata in lungo e in largo la loro pianura. Ma quando vollero dimostrare che convenisse congiunger Brescia e Milano per la via di Bergamo, e per provarlo citarono le mie stesse Ricerche, vollero provar troppo, perchè le cose ragionevoli hanno un confine. E perchè gli Annali di Statistica riprodussero il loro scritto, mi fu mestieri apporvi alcune note, affinchè quella citazione, in quel giornale, non mi facesse credere d’un’opinione che non era la mia. Accennerò le cose principali che misi in discorso, e che dopo tre anni vennero poi rimesse in campo come cose nuove.

Notava che la strada per Treviglio era quasi rettilinea, quella per Bergamo snodata in più tronchi divergenti, con gravi angolature, complicate colle forti movenze del terreno e cogli sparsi edificj suburbani; maggiore la lunghezza forse da otto a nove miglia; la città bassa di Bergamo, a così breve distanza, elevata all’incirca sopra Milano, quanto Milano è sopra Venezia, e il triplo di quello che la più lontana Brescia è sopra Milano; interrotta la linea da forti interpendenze, perchè rade continuamente il piede delle alture; per tutte queste cose necessità di raddoppiare le forze dei motori, o dimezzare il peso dei carichi, o soffrire la perdita delle velocità. Combinati tutti gli effetti, il tempo e la spesa della corsa fra Brescia e Milano [p. 87 modifica]potevano forse elevarsi a due quinti di più. Bergamo e Monza si potevano involgere nella rete delle strade con rami laterali, mentre il rettilineo vi congiunge di più sei capodistretti, che formano già per sè 40 mila abitanti, e altrettante popolazioni d’indole mercantile, aggruppate in altri grossi borghi. Bergamo si troverebbe alla stessa condizione di Brusselle sulla gran linea belgica; assurdo il cominciare la più rapida via verso Brescia, Verona e le altre città poste a levante, con una gran corsa verso Monza e settentrione. Nel caso poi che la cosa si riducesse ad una linea laterale da Bergamo per Monza a Milano, essa doveva costare il triplo di quella da Bergamo a Treviglio; e la spesa maggiore doveva ricadere sui passaggieri, quindi in massima parte sui Bergamaschi, essendoché pochi Milanesi hanno aziende in quella provincia. Il braccio di Treviglio costerebbe come 1, e servirebbe come 3, mentre quello di Trezzo avrebbe costato come 3, e servito come 1. Il primo era utile per congiungere direttamente Bergamo e le sue valli coi mercati delle sue pianure, altrimenti una gran parte di questo movimento si svierebbe dalla città, scorrendo lungo il lago d’Iséo verso Chiari e il più vicino accesso della strada maestra. Il partito più giovevole all’agricultura e all’industria di tutta la provincia doveva riescire anche il più giovevole ai possidenti ed ai capitalisti che soggiornavano nella città; poiché, se la città si voleva considerare come sconnessa dalla provincia, rappresentava solo l’undecima parte della popolazione e la settima parte delle aziende mercantili e industriali; ma, come capoluogo d’un vasto territorio, doveva arricchirsi a seconda della generale prosperità che gli si propagasse intorno.

Caduta la questione in balia dei disgiunti interessi locali, non si poteva più discutere quella dei grandi e communi interessi. A questo modo anche Mantova avrebbe potuto dire: passate di qua. E perchè non lo avrebbero detto Lodi, e Crema, e Cremona? E quando la strada fosse giunta da Bergamo a Monza, poteva dire l’imprenditore della strada di Como: fate grazia a valervi della mia linea per l'ultimo tronco della vostra, e risparmierete la spesa d'una stazione. La locomotiva dunque andrà girando a spinapesce in su e in giù, a pascolo di tutte le prevenzioni municipali e di tutti i privati interessi? Queste sono pretese fatte [p. 88 modifica]per disciogliere ogni principio d’associazione e di generale prosperità. Gli uomini culti, che, facendosi adulatori alle vulgari opinioni, ritardano o sconciano o sventano le belle ed utili imprese, devono risponderne sul nome loro alla posterità. Ed è perciò che in quella controversia ebbi loro il riguardo di non nominarli; ed essi si lagnarono a torto del mio silenzio 2. Ad ogni modo Bergamo non poteva lagnarsi di chi si era adoperato per trasferire la strada ferrata della provincia di Lodi e Crema nella sua, attraversandola per venti miglia, e sviluppandola o direttamente o lateralmente sopra 31 miglia di paese.

Del resto il progresso dei tempi si mostra in questo, che degli altri municipi, che avevano in questa controversia simili interessi, nessuno li pose inanzi, a turbare le deliberazioni della generale utilità; e tutti si rimasero tranquilli nella certezza che alla prosperità commune dello Stato rapidamente cresciuta ognuno avrà la sua larga parte.

Tuttavia siccome la contraria prevenzione aveva preso forte radice e si nutriva dall’emulazione mercantile, bisognava impedire che queste false e importune idee opponessero all’impresa ed al bene generale quei disastrosi ostacoli, dei quali ora possiamo già valutare e deplorare gli effetti. Bisognava dunque difendere con solerzia e vigilanza gli ampj diritti di priorità, coi quali fin dalla primavera del 1836 la Società lombardo-veneta aveva preoccupato le communicazioni di Brescia, Bergamo e Monza. Bisognava sostenerli tutti, per aver campo libero di scegliere l’ottimo partito e d’assicurarsi prima ch’entrassero imprese rivali a farne contesa. In ogni guisa il braccio di Monza, tra la capitale e la popolosa Brianza, non era poi cosa da spregiarsi tanto, che non valesse la fatica di farvi fare una passeggiata dagli ingegneri della società; e persone avvedute vi avevano cominciato quegli studj preparatori, che diedero poi così sollecito frutto. Ma non fu possibile determinarvi l’ingegnere Milani; e quantunque la sezione lombarda infine se ne fosse persuasa, le sue deliberazioni svanirono in un inutile carteggio, e non presero mai l’efficacia di comando. La stessa cosa era avvenuta [p. 89 modifica]sulla questione del lago di Garda. Anche per il braccio da Treviglio a Bergamo fu necessario in novembre 1837 promover dimande d’altre persone, prima che l’officio tecnico se ne volesse occupare. E il luogo indicato nel 1837 dall’architetto Durelli per la stazione di Milano, non si adottò definitivamente se non col protocollo d’agosto 1838, quando il progetto era già compiuto; poiché l’ingegnere Milani voleva fare l’entrata per l’angusto Borgo dei Monforti.

Il principio dell’amministrazione bancaria produsse tutti i suoi effetti e mentre il lontano officio tecnico nella sua indipendenza si rifiutava a difendere cogli studj del terreno la proprietà sociale, la lontana agenzia si collegò sul braccio ai Monza coll’avversa impresa, a cui rimase abbandonato il campo; e così di ritardo in ritardo andò trascorrendo infruttuoso il tempo fatale del favore di Borsa. In breve le cose erano cangiate; l’impresa di Monza divenne un fatto, un fatto in Borsa, e un fatto sul terreno. Non si poteva più far sembiante di non vederla; non le si potevano più ricusare gli onori d’una trattativa, o quelli almeno d’un’operosa emulazione. Chi, sprezzando i buoni consigli, non aveva avuto l’accorgimento di opporre studj a studj e progetto a progetto, doveva opporre in tempo lavori a lavori. Dopo il giorno 7 aprile 1840, la direzione munita di privilegio, poteva recare sul terreno i tre milioni che aveva alla mano, e il dipiù che avrebbe potuto avere. Ella poteva aver già commesso le sue rotaje, le sue locomotive, predisposto i suoi contratti; poteva immantinente dar opera al terrapieno, che sul primo tronco presso Milano, con una più studiata e frequente snodatura di livellette, e con quell’opportuno pendio che Séguin consiglia in vicinanza alle stazioni principali, si può ridurre al minimo (V. Politecnico, vol. III). Con fatti risoluti poteva ancora sottrarsi ad ogni opposizione; e, dacché per tanti anni non aveva mai convocato il congresso degli azionisti, poteva, alla lettera dello statuto, convocarlo pei primi mesi dell’anno consecutivo; e non comparirgli inanzi, se non quando già fumasse sul primo suo stadio la locomotiva. Come avrebbe omai potuto l’impresa rivale costringerla e invilupparla?

Ora, perchè la direzione non fece nulla? Perchè lasciò giacere inonorato il suo privilegio? Fatto sta che l’ingegnere [p. 90 modifica]aveva poco ardore d’impegnarsi nell’opera; e i direttori non potevano più esercitare il comando sull’officio tecnico, perchè, non avendo già diretto rapporto cogli ingegneri subalterni, avevano poi conchiuso coll’ingegnere in capo, in onta agli statuti e al deciso e insuperabile dissenso dei legali, quel contratto di locazione e conduzione d’opera, che lo costituiva irremovibile, e perciò affatto indipendente, e signore di sè e dell’impresa. Quindi, invece d’attendere a ribassare le sue livellette e contar bene i suoi metri cubi, egli attendeva a scrivere dissertazioni contro la linea di Bergamo, e dichiarare ai direttori in cospetto del publico ciò che voleva fare, e ciò che voleva non fare 3. E in queste confabulazioni, seminate di molti e gravi errori 4 si consumava il tempo, il tempo prezioso per far chiamate di denaro; poiché l’aggio correva al disopra del 20 per 100; ed era providenza il moderarlo. E non sarebbe poi stato necessario chiamar denaro quando l’aggio era già ricaduto sotto al pari, per poi disdir la chiamata, e tuttavia provocare il rischio dell’abbandono delle azioni.

Il primo congresso dei rappresentanti degli azionisti avrebbe dovuto anzi tutto esercitare le esclusive facoltà, riservategli dello statuto, d’eleggere i direttori. Non lo fece; e passò oltre con una specie di ringraziamento, che poteva valere come una conferma, se la conferma non supponesse un previo fatto legale, che qui non esiste. E cosi a tutti gli atti della presente amministrazione manca il fondamento d’una rigorosa legalità; e sovrastano tutte quelle conseguenti risponsabilità che il corso delle cose e degli improvidi contratti potrà tosto o tardi arrecare.

Nel congresso il presidente espose in succinto il progetto dell’ing. Milani; e ripetè la strana asserzione che l’introito delle persone debb’essere due quinti del totale, e tre quinti [p. 91 modifica]quello delle cose. E questo e gli altri radicali errori, che il lettore conosce, vennero accolti con vivi e replicati applausi di piena approvazione (Protocollo ec., pag. 13).

Allora il sig. J, Castelli, forse non ricordandosi più che la strada di Monza era già fatta da altri, e la locomotiva vi aveva già corso le sue prime prove, propose il dubbio se la società dovesse fare la sua strada per Monza o per Treviglio. Il suo dubbio venne anch’esso accolto con applausi, non però unànimi. Ma tuttavia l’adunanza deliberò ch’entro a quindici giorni, che divennero poi quattro mesi, si dovesse eleggere una commissione di tre tecnici e due statistici, per chiarire il dubbio del sig. Castelli. I quali avendo, dopo altri quattro mesi, pronunciato che convenisse fare la strada per Monza, rimane ancora che gli azionisti dicano la loro volontà; e frattanto l’anno primo del privilegio andò compiutamente perduto. E v’è di più che anche la strada di Monza a Bergamo è preoccupata, e di poco stava che non fosse occupata anche quella da Bergamo a Brescia.

In che consista la questione di Bergamo.

S’intende forse che si debba fare una seconda strada, ed anch’essa per Monza? oppure che la società, la quale ha l’intero privilegio, e non ha peranco ragione d’essere pentita, debba lasciarne cadere la parte migliore, quella cioè che riguarda i tronchi di strada più prossimi a Milano, la città più popolata, più industriosa, e oltre modo più ricca di tutte? Ammetto, contro l’opinione del sig. J. P., che la società possa cedere una parte' del suo privilegio, poiché si convenne negli statuti che lo possa cedere per intero, e il diritto maggiore comprende il minore. Ammetto che lo possa fare, quando l’interesse suo glielo consigli, e quando massimamente la communicazione a vapore tra Venezia e Milano venga con questi concerti assicurata, anzi condotta a più pronto esercizio. Ma di questa cessione, e della convenienza di conchiuderla o di rifiutarla, nulla si è giudicato; e senza questa premessa è inutile ogni altro discorso.

E vero che quando i movimenti di due strade si possono radunare sopra una sola, questa a circostanze pari potrà dare un reddito più pingue. Ma dopo le cose dette, non [p. 92 modifica]parranno molto solidi i calcoli dell’ingegnere Milani, dai quali risultò che l’una strada sia per dare 9,65 per 100, epperò che sia per dare 11 l’altra. E chi ci assicura poi che tutte le persone e le cose, che avrebbero percorso la linea retta e piana, troveranno l’interesse loro a pagare la corsa sulla linea tortuosa e acclive? È già grave il dubbio che quell’enorme ammasso di merci, che, giunto per acqua a Mantova, s’avvia poi per terra verso Milano, possa confluir per intero sulla linea ferrata del piano. Chi assicura che ne possa giungere alcuna parte fino all’altezza di Bergamo? Bergamo è sopra Milano, a un dipresso quanto Milano è sopra il mare, cioè quanto la cupola del Duomo è sopra Milano. Credete voi che tutte le merci potranno pagare quello sforzo di machine e di fuoco, ch’è necessario per portare inutilmente e perpetuamente a quell’enorme altezza trecento o quattrocento mila tonnellate all’anno, cioè il carico di mille bastimenti?

Le azioni della strada di Monza per ora non corrono la Borsa, non sono possedute da terzi, come suppone il sig. J. P.; ma sembrano ristrette in una sola mano; quindi facile sarebbe l’aggregarle alla società lombardo-vèneta: ma come si può determinarne il valore? Come potrà stabilirsi la cifra alla quale il possessore abbia guadagno a cedere, e alla società convenga comperare?

Le questioni da studiarsi erano molte, I.° Se convenisse alla società lombardo-véneta ricuperare a titolo oneroso quella parte della primitiva sua impresa, che riguarda il braccio di Monza, e che l’incuria dei direttori e dell’ingegnere lasciò cadere in altre mani? 2.° Qual prezzo si potesse attribuirle, e per l’introito cbe si può sperarne, e per il vantaggio di rimovere una dannosa rivalità, e riacquistare il libero movimento. 3.° Se divenuta signora del braccio di Monza, la società non dovesse alienarlo di nuovo, paga di stipular condizioni che l’assicurassero dalle molestie della rivalità. 4.° Se non piuttosto debba giovarsene, per promovere con proprio vantaggio il prolungamento laterale verso Bergamo; 5.° finalmente se, acquistato il braccio di Monza, non le convenga dirigere per quella parte la sua linea maestra, e abbandonare la via rettilinea di Brescia. A quest’ultima questione debbono precedere tutte le altre, e perchè questa presuppone già l’acquisto della strada di Monza, e perchè [p. 93 modifica]quelle potrebbero sciogliere la difficoltà, senza rimettere in controversia l’opera fondamentale, e arrestarne il pronto compimento. Il ripiego dell’uso promiscuo renderebbe più difficile la questione e più oneroso il suo scioglimento. Ma la società non deve darsi molta sollecitudine di tutto questo; poichè tre quarti della sua linea le rimangono in piena libertà; e invero l’attività dei direttori e il capitai sociale ne hanno d’avanzo per parecchi anni.

Bergamo potrebbe applaudirsi gran fatto, quando, non ottenendo il passaggio della linea maestra, ottenesse, in luogo dell’unico braccio dì Treviglio, il doppio braccio laterale verso Monza e verso Chiari? Non si può dirlo. Essa vi avrebbe sempre perduto le pronte communicazioni colla bassa provincia, e colla pianura di Crema e Cremona. Le sue communicazioni con Milano e con Brescia sarebbero più rapide, ma più rare e doppiamente costose; poiché invece di pagar l’interesse e la manutenzione d’una sola e breve e poco dispendiosa strada, dovrebbe pagarne due più lunghe e difficili, e tenervi maggior proporzione di machine e di personale. Sull’unica via di Treviglio si radunerebbero i passaggieri per tre diverse destinazioni; quindi convogli pieni e frequenti. Soppressa una di queste destinazioni, e disgregate le altre due, ognuna d’esse raccoglierebbe, a circostanze pari, solo una terza parte dei passaggieri; quindi ridutta ad un terzo la frequenza dei convogli, oppure ridutto a un terzo il numero medio dei passaggieri in ogni convoglio; e accresciuta di necessità la tariffa, a carico della popolazione di Bergamo, quando non si trovasse un’impresa che volesse perpetuamente rimettervi del suo.

Sono questi errori gravi; ma vedo bene che pochi avranno la generosità di rimettersi e di confessarli. Siamo adunque certi che Bergamo persisterà nel volere la doppia linea per Monza e per Brescia. E bene, quando si trovi chi gliene voglia fornire i capitali, la società lombardo-véneta la lasci pur fare; anzi raccomandi pure alla superior protezione l’impetuosa sua rivale, che, in uno o in altro punto della linea, le porterà sempre dagli interni suoi territorj una buona mano di passaggeri. Se l’esperimento sarà felice, noi diremo, viva il nostro bel paese; poiché sarà provato dall’esperienza che le relazioni parziali tra città e città bastano ad alimentarvi una lunga strada ferrata; ciò che non si è potuto [p. 94 modifica]dire d’altri paesi. E allora la società lombardo- véneta potrà con tanto più coraggio lanciare la sua retta linea da Brescia a Milano; poiché sopra questa alle relazioni vicinali si aggiungerebbe la gran communicazione generale del regno. La provincia di Brescia è assai più fertile e più densamente popolata di quella di Bergamo; e quanto all’industria, non si può dire che Bergamo abbia territorj che vincano le Riviere di Salò e d’Iséo, la Val Trompia, e tutto il paese che giace tra Brescia e Chiari. Allora si potrebbe por mano ad altre linee che congiungessero direttamente Milano a Lodi, e Piacenza, e Cremona; e compiere anche la linea del Po sì caldamente raccomandata dal signor Carlo De Kramer. Insomma in quel fortunato caso da Milano si diramerebbero tanti raggi di strade ferrate in ogni direzione, verso Como, verso Bergamo, verso Brescia, verso Lodi, verso Pavia; i quali tre ultimi si prolungherebbero fino a Venezia, a Mantova, a Genova, a Torino, e, col corso dei tempi, a Piacenza, a Bologna, e forse ad Ancona. Se poi le prove riescissero a debol fine, allora la società potrebbe coi tronchi già fatti aggrapparsi prudentemente alla linea di Bergamo, lieta di portarle soccorso, e di collegare in qualsiasi modo quel massimo numero di città che si potesse, e di lasciare ai più felici pósteri un prudente principio ed un imitabile esempio. E in questo caso non tema il sig. J. P. che venga meno a questa risoluzione l’unánime consenso di ogni singolo portatore di azioni, poiché quand’anche sia fuori dello scopo il fare una strada ferrata che non sia proprio quella da Venezia a Milano, sarebbe ancora più fuori dello scopo il persistere in un’impresa infelice. E non importerebbe con quali speranze si fosse inaugurata, nè sotto qual nome avrebbe fatto punto a’ suoi lavori, per lasciai- luogo agli sforzi della ventura generazione.

La rivalità della vicina linea di Bergamo, potrà mai nuocere alla retta linea da Milano a Brescia? Non pare. La linea da Milano per Treviglio a Brescia è di 78 chilometri, e il passaggiero al prezzo medio di 10 centesimi nostri al chilometro, ch’è assai mite, pagherebbe lire 7,80. La linea tortuosa per Monza e Bergamo è di 93 chilometri; e supponendo pure che le maggiori intensità della pendenza, ossia le maggiori spese di trattura, non debbano influire sui prezzi, la corsa media, a dieci centesimi, [p. 95 modifica]costerebbe lire 9,30. Il passaggiero adunque, passando per Bergamo, pagherebbe almeno 1,50 di più, non per averne un vantaggio, ma per correre ogni volta inutilmente quindici chilometri di strada, e alzarsi a un centinajo di metri, e involgersi in molte curve, e perdere per tutte queste cause un proporzionato intervallo di tempo. Pei molti casi fortuiti, ai quali soggiaciono sempre queste corse, massime sotto gravi pendenze, ciò basterebbe a rendere in parecchie settimane invernali troppo breve la giornata alle intere corse da Milano a Venezia, e alle corse d’andata e ritorno tra Milano e le città interposte; o almeno darebbe un’incertezza agli arrivi, che non potrebbe non danneggiare il generale avviamento.

Perlochè se vi può essere frequenza di passaggieri, i quali s’adattino a passare per Bergamo pagando 1,50 di più, e soggiacendo ad uno svantaggio e ad un maggior rischio di ritardi fortuiti, possiamo ben esser certi che sarebbero tanto più contenti, se a prezzo eguale venissero serviti con prontezza maggiore. Dunque tutti quei passaggieri, che non abbiano affari a Bergamo, se giunti presso Chiari si trovassero aperte manzi ambedue le linee, per Bergamo e per Treviglio, anche a prezzo eguale dovrebbero preferire la corsa più spedita. Dunque in tal caso la locomotiva, solo col dirigersi piuttosto per Treviglio che per Bergamo, guadagnerebbe l’auamento nitido di 1,50 per ogni passaggiero. Il che produce lire annue 750 mila, ove si supponga che collo svilupparsi dell’impresa il il numero dei passaggieri debba adeguare la popolazione delle sei o sette città che deve collegare; tanto più che il tronco prossimo alla capitale sarà sempre il più frequentato.

Siccome poi la speditezza non basterebbe ad attrarre su questa linea tutte le merci, sia pure che vi si debba aggiungere l’allettamento d’un ribasso. Epperò questo introito delle merci, che, supposto a due quinti del totale, ascenderebbe a lire 500 mila, si riduca pure alla metà. La retta linea da Brescia a Milano avrà dunque, a fronte dell’altra e a pari circostanze, un márgine nitido d’un milione; col quale sussidio non potrebbe mai soccombere alla rivalità; ma potrebbe con ulteriori ribassi assicurarsi sempre tutte le merci e tutti i passaggieri, quand’anche fossero meno numerosi che non si possa ragionevolmente sperare. [p. 96 modifica]

Per movere un convoglio su un piano orizontaìe bisogna prima vincere l’attrito degli assi e delle ruote. A ciò si richiede5. per ogni tonnellata del suo peso una forza eguale a quella che eserciterebbe un peso di chilogrammi 2,4 attaccato ad una fune. Se poi la strada è acclive, bisogna, oltre all’attrito, vincere anche la gravità del convoglio. A ciò si richiede per ogni tonnellata una forza eguale al peso di tanti chilogrammi quanti sono i millimetri della salita. Dunque se la strada sale un millimetro, ossia 1 per mille, sì richiede una forza che corrisponde al peso d’un chilogrammo. Se sale 2,4 per mille, si richiede la forza di chilogrammi 2,4; cioè altrettanta come a vincere l’attrito. Laonde se il pendio d’una strada giunge a 2,4 per mille, si richiede una forza doppia a salirla con eguale velocità. Se giunge al 4,8 per mille, si richiede una forza tripla; se giunge al 7,2 per mille, si, richiede una forza quàdrupla. Se non si accresce la forza, si diminuisce la velocità, s’illanguidisce la ventilazione del forno, e quindi la produzione del vapore; cose tutte per le quali cresce il tempo della salita, e il consumo del combustibile e delle macbine, ossia la spesa. Questo è ciò che avviene per i convogli di mercanzia.

Ma pei convogli di passaggieri, dovendosi conservare la massima velocità, bisogna proprio accrescere la forza; e stabilir macbine d’una potenza doppia e tripla di quella che basterebbe a correre sul piano orizzontale. Ora le macbine più potenti sono più costose di compera e di conservazione, e richiedono più combustibile, e sono assai più pesanti, e quindi vogliono rotaje con guide più grosse. Tutto questo soprapiù di forze e d’apparato si prodiga inutilmente anche sui tratti orizontali, e altera tutto l’impianto della strada. Si paga dal paese e non gli giova. Quando le salite sono brevi, e riescono alternate colle discese , la forza preconcepita dal convoglio nei declivj ajuta a vincere l’ascesa. Ma nel nostro caso, dove, per giungere a Bergamo da qualunque parte, la salita a crescente intensità è quasi continua, bisogna proprio adoperare o macbine più potenti, o machine di rinforzo.

Se al milione annuo di spesa, che importa la maggior [p. 97 modifica]lunghezza delle strade per Bergamo, si aggiunge l’effetto della maggiore intensità delle pendenze, si può con tutte moderazione conchiudere che il passaggio per Bergamo cagionerebbe alla circolazione generale del nostro regno un annuo aggravio di due milioni, per lo meno, i quali dovrebbero moltiplicarsi per il numero degli anni durante i quali questo aggravio venisse conservato. Questa è la tassa che Bergamo domanda d’imporre a tutto il regno, non per essere congiunta alla linea ferrata, poiché lo può essere altrimenti, ma per esservi congiunta piuttosto in un modo che in un altro. Il calcolo preciso è alquanto più sottile e complicato, ma in monte si riduce a questo; e par che basti.

Perlochè se si suppone fatto il rettilineo da Brescia a Milano, le linee laterali da Monza a Bergamo e da Bergamo a Chiari, che sommano in circa a 60 chilometri, non avrebbero altro sicuro appoggio che il movimento particolare di Bergamo all’infuori della sua provincia, verso Milano e verso Brescia. Le corse adunque non potrebbero essere altrimenti che assai costose e assai rare, a finale pregiudizio del commercio di quella città. Non è spirito di parte che m’induce a dillo, e a ripetere che il vilipeso braccio di Treviglio, avendo solo un terzo di lunghezza richiederebbe una minor parte di capitale, e quindi d’interesse e di dividendo e d’ammortimento. Perlochè a guadagno eguale potrebbe dare un proporzionato ribasso sulle tariffe dì corsa. E siccome poi servirebbe al gran movimento interno della provincia e alla maggior parte delle sussistenze della città e di alcune valli, non solo tornerebbe assai più utile a tutte quelle popolazioni; ma potrebbe venir servito con tutta frequenza e vivacità. La discesa da Bergamo a Treviglio sarebbe una rapidissima corsa d’una ventina di minuti, fatta ad ogni ora del giorno ed a vilissimo prezzo.

Quei trafficanti spenderebbero minor tempo e fatica a trovarsi nel nuovo loro sobborgo di Treviglio che ad ascendere all’Alta Città, o recarsi a Stezzano, giusta l’assurda mezza misura, suggerita da alcuni, che vorrebbero imporre una servitù ed una tassa a tutto il regno, senza tampoco toccar Bergamo o i suoi sobborghi. Per trovarsi a Treviglio sulla via di Brescia e di tutte le città venete, i Bergamaschi dovranno percorrere soli 19 chilometri, mentre i [p. 98 modifica]Milanesi ne dovranno percorrere 30; eppure si crede e si fa credere che col braccio di Treviglio, Bergamo sarebbe tagliata fuori, tradita, disfatta? Prendiamo le cose con più calma, se vogliamo veder chiaro, e fare i conti giunti.

I 60 chilometri di linee laterali da Monza per Bergamo a Chiari, interrotti da molte alture e da sette fiumi, Lambro, Mólgora, Adda, Brembo, Serio, Cherio ed Ollio, non possono costair meno di 18 milioni. I calcoli degli stessi ingegneri di Bergamo dimandano 20 milioni da Monza fino a Brescia (V. Nuovo Esame ec.). Supponiamo che l’impresa, per non esservi perdente, debba ottenervi almeno l’otto per cento, compreso l’interesse, il dividendo e l’ammortimento; supponiamo che altrettanto debba costare l’esercizio. L’introito lordo dovrà esser dunque di lire 2,880,000. Supponiamo che alla tariffa di dieci centesimi per chilometro i passaggieri debbano produrre tre quinti di questa somma. Essi dovranno essere ottocento al giorno, su tutta la linea verso Monza e verso Chiari. Se supponiamo che un egual movimento vi sia tra Bergamo e la sua pianura, cioè verso Treviglio (e debb’essere maggiore), si dovrebbero dunque a circostanze pari adunare su questo tronco per le tre diverse destinazioni 2400 passaggieri al giorno. Sì largo numero sarà poco probabile; ma in questo caso valga la stessa probabilità contro le corse divergenti di Monza e di Chiari; le quali allora non avrebbero più gli ottocento passaggieri e non darebbero il necessario frutto.

Ora i supposti 2.400 passaggieri sopra i 19 chilometri dei braccio di Treviglio, alla medesima tariffa di dieci centesimi, produrrebbero lire 1,641,600, e coll’ aggiunta della stessa proporzione di merci 2,786,000. Dedotta la metà per le spese d’esercizio, rimarrebbero dunque a frutto 1,368,000, che in ragione dell’otto per cento coprirebbero un capitale di 17 milioni.

Dunque una delle due: o i bracci da Bergamo verso Monza e verso Chiari non produrranno la necessaria misura di dividendo e d’ammortimento: o il braccio di Treviglio deve valere a pari circostanze 17 milioni.

Supponiamochee tutti quei tronchi rendano solo la metà, cioè il 4 per 100, senza ammortimento. Nessuno vorrà farli; o fatto il primo, non si potrà fare il secondo. E qui sta [p. 99 modifica]un pericolo grave per Bergamo; se il capriccio di Borsa non lasciasse condurre a termine la seconda parte dell’opera, perdere la rapida communicazione con Brescia e tutte le città vénete, e porsi 47 chilometri indietro di Milano! Ma il braccio di Treviglio potrebbe, nello stesso supposto, valer ancora otto milioni e mezzo, e rendere più del 20 per cento. Perlochè in tal caso l’impresa della strada di Monza, se si prolungasse fino a Bergamo e a Chiari (o Coccaglio, che in tutti questi calcoli è lo stesso), potrebbe perdervi quel guadagno, che finora potrebbe essersi assicurata. Il freddo calcolo consiglia dunque, a circostanze pari, di lasciare il braccio di Monza qual è; e trasferire la speculazione sopra quello da Treviglio a Bergamo. Infatti è meglio aver due buone e piccole imprese in due luoghi diversi, che guastarne una per prolungarla al di là de'suoi limiti di favorevole probabilità.

Ma i periti dicono che il braccio da Treviglio a Bergamo ha una pendenza intrattabile. Cominciamo a rispondere che il limite delle pendenze lodevoli si deve oltrepassare su tutti codesti tronchi. Quello da Monza a Bergamo per un buon quarto (8800m) oltrepassa il 4 per mille (1/251), e per altri 3000 metri sorpassa il 6 1/2 (6,66m). Quello da Bergamo a Chiari, o propriamente a Coccaglio , per poco meno della metà (10,600m) riesce del 5 per mille.

Sommiamo queste tre lunghezze e le loro pendenze; e avremo 22 chilometri colla pendenza di 109 metri; mentre in fin del conto il braccio di Treviglio è di 19 chilometri colla pendenza di 117. Ma su questo braccio non siamo costretti a condurre inutilmente e a grave spesa tutte le merci che si muovono tra Milano e il territorio bresciano e veneto, nè ad alterare la forza delle macbine e delle guide, e l’impianto tecnico ed economico di tutta la linea lombardo-véneta.

Inoltre abbiamo sul braccio di Treviglio un márgine, che, a circostanze pari, dai tre milioni del conto preventivo giunge fino ai supposti 17 milioni. Ora, crediamo noi forse che l’arte quando può disporre di tanto denaro non abbia ripieghi d’opere grandiose ?

Noi però crediamo che, trattandosi d’una linea laterale, nessun altro ripiego sia miglior di quello d’adoperar macbine alquanto più forti che sulla linea maestra, e rafforzar [p. 100 modifica]in proporzione le guide; poiché infine una pendenza del 7 per mille, in vicinanza alla stazione, non può essere insuperabile, quando sulle strade da Liverpool a Manchester si contano cinque chilometri che sorpassano il 10 e l’11 per mille, e da simili pendenze sono inevitabilmente interrotte tante altre strade inglesi.

L’ingegnere Possenti, nostro collaboratore, si sforzò di semplificare con processo analitico la questione generale, rappresentando con altrettanti punti le città e con linee le strade ferrate che potrebbero congiungerle. Ma può un punto rappresentare egualmente Milano come Crema o Monza? E se Crema e Monza valgono un punto, non varranno un punto Codogno e Chiari, solamente perchè nel nostro paese non hanno nome di città? Una linea da Monza a Milano, o da Bergamo a Treviglio, rappresenta una massa di rapporti attivi, intimi, continui; ma una linea da Bergamo a Chiari non ha la stessa intensità di valore; e una linea retta da Crema a Mantova s’avvicina semprepiù ad una mera astrazione. Inoltre le nude lunghezze non rappresentano le pendenze, nè le contrapendenze, nè la loro successione e proporzione, quindi non rappresentano le spese d’esercizio, e molto meno le spese capitali di costruzione; le quali cose tutte sono i coefficienti delle tariffe. Ora il commerciante calcola le tariffe di trasporto, e non le distanze astratte; e vé un limite di tariffa, oltre il quale le merci o non si movono, o cangiano direzione. L’análisi non può raggiungere l’opera complessa e simultanea di tanti elementi. E quindi sugli stessi dati gl’ingegneri Possenti e Rossetti hanno potuto giungere a opposte conseguenze. L’unica maniera di ridurre a paragone di cifra le diverse linee sta nella densità delle popolazioni riferita alle tariffe, in cui siano valutati tutti gli elementi di costruzione, d’esercizio, di dividendo e d’ammortimento. Ma la matematica precisione non si può raggiunger mai, perchè rimane ancora a calcolarsi l’avventizio elemento del commercio estero, la diversa attitudine e ricchezza delle popolazioni, e il grado di distanza a cui può giungere l’espansione commerciale d’una massa d’abitanti. [p. 101 modifica]

Conclusione.

Conchiudiamo dicendo, che quando la società lombardo-véneta conservi l’ottenuto privilegio sulla retta linea da Brescia a Milano, essa non dovrà mai temere la concorrenza d’un’altra linea che passi per Bergamo e Monza. E perciò lasci pur fare, se pur v’è chi voglia seriamente fare; e attenda frattanto al rimanente, cominciando da Chiari verso Brescia e il lago di Garda, anche per approfittare, almeno in quei vivaci paesi, del vantaggio della novità che ha improvidamente perduto a Milano. Così potrebbe giovarsi della prova che, senza suo rischio, si facesse da Bergamo a Monza. Se questa riescisse favorevole, allora tenti pure la linea retta da Brescia a Milano, senza tema di rivalità; ma se la prova riescisse sfavorevole oltre una certa misura, rimanga quieta a Chiari, o vada pure al soccorso dell’infelice rivale.

Alle compagnie che vantano di voler fare ad ogni modo quelle due laterali, direi che, a freddo calcolo, dovendosi sempre preferire e per la minore spesa e pel maggior ricavo, il tronco unico da Treviglio a Bergamo, essi ne dovrebbero dimandar la cessione all’altra società. E questa dovrebbe allora appagarsi d’imporre tre condizioni: 1.° che le tariffe non fossero mai superiori alle proprie; 2.° che l’opera venisse fatta immantinenti, e allora si potrebbe por mano in pari tempo alla linea da Milano a Treviglio e Brescia; 3.° che vi venissero applicati, entro un proporzionato limite di spesa, quei grandi ripieghi che l’arte adulta offre agli uomini studiosi e intelligenti; e quindi essa dovrebbe riservare a sè medesima l’approvazione del progetto. Questo è il trattato di pace che si può proporre. Il commune vantaggio delle società imprenditrici è probabile; quello della città e della provincia tutta di Bergamo è certo. Ma se la ragione del soverchio circuito e dell’inutile contrapendenza consiglia di seguire la linea retta nella provincia bergamasca, anche Bergamo ha diritto d’esigere che si eviti il soverchio circuito e l’inutile contrapendenza del progetto Milani tra Brescia e Verona.

Gl’interessi della Società dunque sarebbero:

1.° Conservarsi il privilegio sulla linea retta da Brescia a Treviglio: [p. 102 modifica]

2.° Rinunciare ad ogni ostilità, e lasciare alle tre compagnie di Bergamo la facoltà di fare l’unico braccio di Treviglio, oppure di farne due, o tre, o quanti vogliono e possono:

3.° Riformare a qualunque patto l’insensata curva della Volta:

4.° Avvicinare al Dolo la linea padovana, affinchè quel primo esperimento nelle province vénete riesca il meno sfavorevole che si possa, e rifonda coraggio agli azionisti:

5.° Far punto per ora a Mestre, ma mitigando l’angolo, e tenendosi qualche centinajo di metri più verso mezzodi:

6.° Sospendere e vietare ad ogni modo ogni prematuro tentativo d’opere nella laguna; sia che i rischi subacquei siano compresi nel prezzo d’appalto, sia che direttamente o indirettamente rimangano a carico della società.

Risparmiati in tal modo o differiti ventitremila metri d’opere dannose o infruttifere, e lasciata a chi vi ha interesse l’inviluppata controversia delle tre compagnie, il .progetto Milani da 290 chilometri, sarebbe ridutto ad una decisiva e necessaria linea di 248. In ragione di 250 mila lire al chilometro potrebbe con qualche probabilità valutarsi, a doppia rotaja, 62 milioni; oppure 50 milioni ad una sola rotaja.

Ciò fatto, e non è poco, la corsa del vapore per terra e per aqua da Milano a Venezia, sarebbe una lite vinta entro i limiti del capital sociale. Rimarrebbe di perfezionare e sviluppare; e allora, solo allora, e in ragione della prosperità dell’impresa, e per mezzo di préstiti ipotecati, si potrebbe con senso di commune prudenza dar mano alla doppia rotaja, alle grandi stazioni, al ponte sulla laguna, all’ingresso nelle città; e a tutti gli altri trofei della vittoria. Adesso si pensi a vincere, e sopratutto a non soccumbere. Quindi non si faccia un’altra volta, a casse piene e mani oziose, una chiamata esorbitante di cinque milioni in un colpo, per ritirarla tosto indecorosamente. Siffatte imprudenze in momenti inopportuni possono produrre nientemeno che l’abbandono delle azioni. Nello stabilire i versamenti si abbia riguardo allo stato della Borsa, e non si pongano in inutili e tiranniche angustie gli azionisti, i quali infine sono i padroni dell’impresa.

Dove gli statuti sono oscuri o difettosi se ne faccia [p. 103 modifica]regolare riforma; ma frattanto si osservino con tutto rigore. Sì elegga adunque dal congresso la direzione; poiché dei presenti direttori due soli hanno qualche apparenza d’essere eletti a rigore di legge, e due soli non possono legalmente contrarre. Si richiami e si cassi il contratto illegale coll’ingegnere. Si costituisca il corpo tecnico a modo dei publici officj, e con regolamento stabile e stampato.

Notiamo alcuni punti sui quali ad ogni caso e senza tardare il corso delle operazioni, potrebbe cadere la riforma degli statuti:

1.° Si dovrebbe restituire un’unica amministrazione di pochissime persone, direttamente risponsabili, le quali si conformeranno d’anno in anno, se lo avranno meritato; e dovranno astenersi da ogni altro impegno d’affari, e sopratutto da ogni proprietà nelle azioni, e da qualsiasi diretto o indiretto interesse di Borsa. Esse esporranno al congresso il prospetto dei lavori che intendono fare nell’annata, e dei fondi che vi si richiedono, affinché le chiamate non riescano improvise, e l’azionista possa fare i suoi conti in tempo. Al successivo congresso renderanno poi conto di ciò che avranno fatto o non fatto; e così d’anno in anno. Per la prima volta presenteranno un prospetto generale di tutta l’impresa, con una distribuzione ragionata e calcolata sulla massima utilità finale.

2.° I direttori o in sostanza i vigilanti, come interessati e a nome degli interessati, avranno libera ispezione sopra le carte, i registri, e gli atti degli amministratori; ma non potranno ingerirsi nel diretto comando. Nei gravi casi di pregiudizio sociale potranno convocare un congresso straordinario, sospendere le operazioni, e dovranno essere scelti fra i cento maggiori azionisti. Al presente ogni direttore colle sue cinquanta azioni obligate rappresenta un solo millesimo dell’interesse sociale, e tutta la direzione rappresenta l’uno per cento. I direttori sono in genere persone aggravate dai proprj affari, legate a consueto domicilio in diversi luoghi, prive di cognizioni speciali, appartenenti ad una classe che men di tutte abbonda di studi superflui, non interessate abbastanza nella stabile proprietà delle azioni, troppo partecipi agli eventi di Borsa; e sopratutto sono in troppo numero; e non ricevono alcun compenso, per cui possano dimenticare i proprj interessi. Quindi [p. 104 modifica]l’amministrazione è meramente nominale, inefficace, dispendiosa. Il nome d’amministratori dato ai secretarj ripugna alla loro posizione precaria, pedissequa, sedentaria; come secretarj devono essere eco legale del volere altrui, immobili sulle loro sedie, non possono prender risoluzioni, nè impegni, nè recarsi continuamente ove il bisogno richiede; insomma non possono amministrare.

3.° Gli azionisti non siano costretti a fare intestazioni fittizie per farsi rappresentare, com’è pur. giusto, nei congressi; ma votino direttamente in proporzione dell’interesse che hanno assunto. Per tal modo i congressi saranno formati da proprietarj o da procuratori di piena confidenza e capacità; e, sgombrati da una moltitudine che non ha vero mandato deliberativo, diverranno utili consulte, e potranno durare quanto è necessario.

Noi abbiam detto molte cose; non tutte però quelle che si possono dire; gli azionisti sono padroni del fatto loro; possono accettare i nostri consigli, e possono rifiutarli; ma i loro milioni ne risponderanno. Essi vedano con qual frutto venne speso il primo milione; dicano se sono contenti; pensino ai cinque anni trascorsi, e a ciò che si è fatto; pensino ai nove anni venturi, e a ciò che resta a fare. Il passato è lo specchio del futuro.

Quanto ai nostri concittadini, noi diremo che i pochi i quali hanno partecipato all’impresa, possono avere i loro torti, o piuttosto gli inevitabili torti della loro professione; ma’ quei molti che non vi vollero prender parte, hanno torto assai più grave. Era questa un’opera di poco momento per noi? Era questa un’opera da lasciarsi in balia di pochi non curanti o non istrutti? Si disse da principio ch’era un sogno, una comedia di Borsa; ma i cinque milioni che si versarono nelle casse sociali, son essi una comedia, son essi un sogno? Chi ha dieci azioni ha voto; la proprietà di dieci azioni oggi, tanto sotto al pari, e colla probabilità d’un rialzo, non costa mille lire; a fine d’anno costerà forse due mila, e così d’anno in anno chi voglia perseverare. £ questo un impegno da far paura? Qui non si tratta d’imprestar denaro alla republica del Messico o al cacico Mac Gregor, a chi insomma domani possa dire che non può pagarvi o non vuole. Quando aveste impiegato i vostri denari, a cagion d’esempio, nella strada di [p. 105 modifica]Monza, che vedete coi vostri occhi, e toccate coi vostri piedi e, se volete, colle vostre mani, ebbene che disastro vi potrebbe sopravenire? Potrà sfondarsi il terrapieno, stritolarsi la rotaja, spopolarsi tutto il paese, e rimaner vuoti i vaggoni per sempre? Ebbene, ancora potreste vendere la vostra strada, le vostre guide, le vostre locomotive, salvar qualche cosa.

E se anche, contra ogni umana probabilità, una buona e diligente amministrazione non potesse ottenere dalla superiore previdenza ulteriori incoraggiamenti, nella durata centenaria del privilegio o nell’allentamento dei vincoli doganali sul ferro, e quindi non potesse dall’ammirabil opera d’una grande strada ferrata tra Milano e il mare guadagnarvi un congruo frutto: non l’otto per cento che vi si promette, non il sei, nemmeno il quattro; ebbene, non avremmo fatto al paese e a noi tutti un prezioso servigio? Che interesse cavate delle vostre strade communali, dai vostri selciati, dalle vostre scuole? E per questo sono forse inutili? Le strade communali non hanno raddoppiato il valore dei fondi, e la prosperità generale, e l’amenità stessa dei luoghi ove passiamo la vita?

Fra poco si adunerà nella nostra città il congresso degli azionisti, la più parte stranieri. Che volete che dicano di noi? che non ci curiamo dei nostri interessi? oppure che non siamo in grado d’intenderli? o che ci manca l’animo di prendere un impegno di poche centinaja di lire, quando tanti capitali si lasciano inoperosi? Questo sarebbe pure il momento di mostrare, che molti non hanno preso parte all’impresa solo perchè incerti della sua verità. Sarebbe il momento di recare in quest’opera quello spirito di misura, di previdenza, di saviezza amministrativa, ch’è il primo fondamento della nostra commune prosperità, e che bilancerebbe la leggerezza e l’imprevidenza dello spirito di Borsa tanto a noi straniero e ripugnante. L’impresa, quando venga governata con ordine, con avvedimento, con sollecitudine, non può non sortire uno splendido esito; perchè bisogna ripeterlo ancora; o le strade ferrate non si devono fare in alcun paese del mondo, e i popoli e i governi che le fanno, i Belgi, gli Inglesi, gli Americani, i Francesi, i Tedeschi, i Russi, sono tutti deliranti: o in nessuna parte del mondo le strade ferrate possono trovare un campo più [p. 106 modifica]favorevole, un terreno più popolato, più ubertoso, più ameno, più opportuno in ogni maniera ad accogliere questo poderoso strumento di publica e privata prosperità.

D. CARLO CATTANEO.


NB. A pag. 94, lin. 18, a Piacenza, leggi a Parma.



  1. "Degli acquidocci di pietra, collocati tra la fabbrica del Ponte, e posti sotto il lastricato dei due camminapiedi servono per la condotta dell’acqua: e dei tubi di ghisa posti nel mezzo della larghezza del Ponte, in un canale fatto appositamente, e rivestito di muro, per quella del vapore". Progetto Milani (pag. 56, § 144).
  2. Vedi Esame delle osservazioni soggiunte dagli Annali di Statistica (pag. 4. III).
  3. Vedi le memorie dell’ingegnere Milani: Qual linea seguir debba da Brescia a Milano ec. Dietro quali considerazioni generali, topografiche, economiche, tecniche si debba determinare il luogo o luoghi ec.
  4. Per esempio, dimenticando l’attivissima navigazione da Trezzo per l'Adda e il Naviglio di Paderno al lago di Como, e quella da Palazzolo per la Fusa al lago d’Iseo, scriveva: "La seconda linea alla di lei destra ha monti ed alpi, dove popolazione scarsa, paesi rari, strade poche e difficili, nessuna acqua navigabile, nessun canal manufatto" (V. Qual linea ec., § 35, pag. 16).
  5. V. Bineau: Chemins de fer etc. Paris 1840, pag. 132