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La mia vicina

../Un morto ../Un ideale IncludiIntestazione 10 maggio 2021 100% Da definire

Un morto Un ideale

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LA MIA VICINA



NN
ell’infilare il mio soprabito azzurro mi accorsi che vi mancava un bottone, a sinistra, dalla parte del cuore.

Rodolfo — dissi tra me e me — non è cosa conveniente presentarsi al futuro suocero con un bottone di meno, a sinistra, dalla parte del cuore. Ciò darebbe una cattiva idea del tuo ordine personale e sopratutto dello stato del tuo guardaroba; idea la seconda tanto più pericolosa, in quanto che aveva l’appoggio del guardaroba stesso consistente in un chiodo confitto nello stipite del mio uscio — e dicendo il mio uscio non occorre specificar quale, avendo una sola camera e per conseguenza un uscio solo che mette direttamente sul pianerottolo.

Sfilai le maniche (si dice sfilai? non credo; a buon conto io lo feci, altri si tolga la briga di consultare il dizionario). Sfilai dunque le maniche del mio [p. 98 modifica] soprabito azzurro e mi posi a contemplarlo attentamente.

Il mio soprabito azzurro e me siamo vecchi amici e lo saremo fino alla morte — la sua a preferenza della mia.

Ho fatto questa spesa rilevante nell’occasione di una eredità; l’occasione fa l’uomo prodigo.

Avevo ereditato seicentosettantacinque lire, che divise coi miei nove fratelli risultarono settantacinque lire a testa — prezzo esatto del mio soprabito azzurro.

Allora era tagliato all’ultima moda, serrato in vita, col bavero alto, le maniche strette, terminate con due bottoni, altri due bottoni di dietro a quel posto

Che non è gamba ancora e il dorso muore...


e finalmente dieci bottoni sul petto che lo stringevano così perfettamente sul mio corpo da parere una cosa sola con esso.

Accompagnandomi nelle fasi massime della vita, testimonio de’ miei trionfi, compagno alle mie avventure e confidente discreto delle mie buone fortune, quel soprabito risvegliava nel mio cuore cento gradite rimembranze.

Il primo giorno che lo avevo indossato, entrando da un barbiere per farmi radere, mi sentii chiamare monsieur; e madame che stava dietro al banco rassettando della polvere di riso mi gettò uno sguardo languidamente espressivo.

È bensì vero che quel taglio succinto alla militare conferiva ai miei fianchi una nobile eleganza e una [p. 99 modifica]certa grazia baldanzosa...; di più, su quel fondo unito di un bell’azzurro carico spiccava il pallore delle mie guance e l’arco bruno de’ miei lunghi baffi.

Non aggiungo altro per non aver l’aria di vanesio — e poi perchè realmente non avrei altro da aggiungere.

Torno dunque alla contemplazione del mio soprabito. Parrà a qualcuno che per un soprabito usato la contemplazione sia oltremodo soverchia; ma io non ho fretta, cari lettori. Anzitutto non sono un romanziere e non ho gli avvenimenti che incalzano, smaniosi della catastrofe finale.

Io non ho mai scritto romanzi, non saprei da qual parte cominciare, ma mi ricordo di un libriccino letto di traforo ne’ miei momenti d’ozio e che portava questa epigrafe:

...Orecchio ama pacato
La musa; e mente arguta e cor gentile.

Mi pare che se dovessi scrivere un romanzo, mi atterrei a questo precetto. Gli scrittori di cartello direbbero magari che non ho fantasia, che non ho potenza d’immaginazione, che non ho vena feconda e creatrice; ebbene in queste poche pagine io non ho l’ambizione di creare nulla; m’accontento di copiare umilmente il vero, con calma, con pacatezza, con quel prudente riserbo che mi suggerisce dapprima il mio carattere, poi la mia qualità di agente factotum nella casa P. P. Giacobbe del quondam Stanislao per il commercio all’ingrosso delle droghe estere.

Il minuzioso esame del mio soprabito mi condusse alla scoperta di un altro bottone mancante e di tre [p. 100 modifica]sdruciti. Impossibile, impossibile presentarmi in quella guisa al mio futuro suocero, il signor P. P. Giacobbe, l’ordine personificato.

Oooh! il signor P. P. Giacobbe, nientemeno? Sei ben fortunato, mi dicevano i miei amici.

Sì, era una fortuna, lo confesso; ma la ragazza zoppicava un tantino e aveva gli occhi che guardavano indipendentemente l’uno dall’altro, il destro a sinistra e il sinistro a destra.

Oooh! zoppa e losca?

Sì, ma era la figlia ed ereditiera del signor P. P. Giacobbe, una casa solida, fondata dal quondam Stanislao, che aveva relazioni dirette colle due Americhe e colle coste algerine.

Da parte mia, il principale mi riconosceva le migliori attitudini per gli affari, per il calcolo, per la tenuta dei libri in scrittura semplice e doppia ed anche per le corrispondenze... non in lingua araba però — adoperavo il francese. Guadagnavo millecinquecento lire e mi si lasciava vagheggiare la prossima prospettiva di duemila.

Avevo conosciuto la signorina Giacobbe in una circostanza notevolissima, durante cioè un raffreddore tracheale che la obbligava a tossire tutte le volte che passava a fianco del mio scrittoio; io le offersi modestamente del succo di liquirizia e così si stabilì la relazione.

Le cose, a dir vero, non erano molto inoltrate; per tutto l’inverno le avevo fatto una corte assidua sì, ma prudente; al principiare della bella stagione mi offersi di accompagnarla al passeggio, in [p. 101 modifica]compagnia, s’intende, della mamma; poi ella era partita per i bagni ed io non osai scriverle; appena tornata ripartì per la villeggiatura e adesso, adesso che si avvicina coll’inverno l’anniversario di quel giorno memorabile in cui, levando dal cassetto del mio scrittoio un cartoccino di carta lilla, ardii dirle: «Madamigella, posso?» è ora di dichiararsi formalmente al babbo. Ma Dio! come si fa con questo soprabito?

Così esclamavo in tono dolente ed in manica di camicia.

Era domenica, passate le due ore da un pezzo e nessuna bottega di piccolo mercante sarebbe stata aperta; non potevo dunque comperare dei bottoni nuovi e avrei dovuto aspettare l’altra domenica per presentarmi al signor P. P. Giacobbe in qualità di futuro genero.

Brutto bivio.

Non sapevo risolvermi nè per l’andare, nè per il restare.

Intanto suonarono le tre.

Rodolfo, Rodolfo, che facciamo? Ho io un secondo soprabito abbastanza decoroso per la circostanza? No.

Perlustrata tutta quanta la mia guardaroba — un chiodo in uno stipite — non rinvenni che una montagnola d'orleans, un frac un po’ antiquato e la cacciatora di panno bigio che mi serve nello studio, colle sue relative maniche di tela nera lucida.

Signori! chi di voi andrebbe a chiedere la mano di una fanciulla educata a un padre educato, educati voi medesimi, con una montagnola indosso, oppure una cacciatora? [p. 102 modifica]

Del frac non parliamo nemmeno, in pieno giorno, e a piedi; la carrozza non l’avevo (e non l’ho), il brougham era ridicolo nella mia posizione.

Rodolfo! Rodolfo! chi t’aiuta a levarti d’impaccio? Sarai forse costretto...

A questo punto interruppi il monologo e tesi l’orecchio perchè avevo udito sul ballatoio un leggero rumore di passi.

Anzi non solo tesi l’orecchio, ma cacciai fuori il capo per vedere se fosse mai qualche amico che mi capitasse sotto forma di provvidenza con un soprabito nuovo.

Era la mia vicina.

Sul ballatoio del quarto piano non c’era altro uscio che il suo, oltre il mio. L’avevo incontrata rare volte, non le avevo mai parlato e, preoccupato come ero di madamigella Giacobbe, non le concessi mai un pensiero.

Nel seguirla gradino per gradino, quando saliva le nostre lunghe scale, non m’era sfuggito certamente il suo piedino leggiadro e la curva flessuosa della persona ondeggiante sotto uno scialletto di lana nera. Ma santo Iddio, se si dovesse fare una dichiarazione a tutte le donne vezzose!

La mia vicina poi aveva un contegno modesto e riservatissimo; mi guizzava davanti come una caprioletta inseguita, e tanto nello scendere come nel salire misurava con un tatto così preciso il livello su cui alzare l’orlo candido della sua gonnella, e lo rialzava con una certa grazia piena di adorabili reticenze, e apriva così rapidamente l’uscio della sua [p. 103 modifica]cameretta, e vi si serrava con tanto apparato di chiavistelli, che a me non restava altro a fare se non una profonda scappellata.

— Buon giorno! — le dissi questa volta perchè allo schiudersi del mio uscio ella aveva rivolto su di me due occhioni interrogatori, e fuggirmene così senza dir nulla mi pareva villania. — Devo aiutarla?

Questo aggiunsi perchè, contrariamente al solito, la chiave della mia vicina non girava nella toppa.

— Grazie — ella rispose, nè mai voce più argentina modulò questa parola così soave in bocca di garbata femmina.

Dir grazie, forzar la chiave, aprir l’uscio e scomparire fu l’affare di un minuto secondo.

Ella era scomparsa, ma un lembo del suo vestito rimase appicciccato a una puntina di ferro che faceva parte dell’uscio stesso.

Udii un piccolo grido e una manina coperta di un guanto di fil di Scozia si affrettò a scuotere nervosamente quel lembo di vestito ch’era rimasto prigioniero.

Io feci un balzo e fui abbastanza fortunato per arrivare ancora in tempo. La mia vicina si morse le labbra; io, chinandomi rapidamente, staccai la gonna; ma come spiegare quel moto istantaneo dell’anima mia?... Invece di lasciarla libera, la rattenni, e in quella positura, a’ suoi piedi, alzai gli occhi per guardarla.

Giuro che ne’ miei sguardi non v’era ombra di malizia, come non ve n’era nella intenzione e la mia pupilla s’era appena posata su lei che già la mano rallentavasi. [p. 104 modifica]

— Grazie — disse ella per la seconda volta.

Eravamo sulla soglia dell’uscio, nè l’uscio si poteva chiudere finchè io rimanevo colà, nè ragionevolmente potevo rimanervi.

Mossi due passi indietro; la mia vicina, che teneva una mano sull’imposta aperta, la richiuse dolcemente ed oramai non si vedeva più che la punta del suo ditino nel guanto di fil di Scozia.

— Signora!

L’imposta girò lenta lenta e senza metter fuori il capo rispose:

— Signore?

Qualche cosa bisognava dire ad ogni costo; colla coda dell’occhio avevo veduto nella mia camera (era aperta, come sapete) il mio soprabito azzurro che giaceva dimenticato sulla sponda del letto, quella vista, oltre al richiamarmi all’attualità della mia posizione, mi suggerì una idea splendida.

— Signora! — ripigliai con sicurezza — sarebbe ella disposta a volermi aiutare in una circostanza che mi rende desolato e che mi fa invocare la mano gentile d’una sorella?

— Che cosa posso fare? — chiese guardandomi senza ombra di diffidenza, ma con una leggera inquietudine, cui tradiva il movimento rapido de’ suoi sguardi da me alla mia camera.

— Vuole avere la bontà di aspettarmi un momento?

Entrai in casa mia; vestii il primo oggetto che mi capitò sotto mano e che si trovò essere la montagnola d’orleans (qualcuno si ricorderà che ero in [p. 105 modifica]maniche di camicia), presi il soprabito azzurro e mi rifeci all’uscio della vicina, mormorando con voce commossa.

— È permesso?

Il nido che la rondinella sospende ai veroni inghirlandati d’edera non è tessuto con eguale amore, non ha luce così soave ed ombre così piene di deliziosi misteri come ne aveva la cameretta della mia vicina.

Piccola, ravviata, linda, modesta; due tende azzurre nascondevano il letto, altre due bianche come un fiocco di neve adombravano la nitidezza luccicante dei vetri sull’unica finestra; uno stretto divano azzurro, una poltroncina azzurra, dei ninnoli, dei piccoli tappeti, dei posapiedi in ogni angolo, dei cuscini su ogni sedia, quadri graziosi e lieti, statuette biricchine, un angolo di cielo! un paradiso a quarto piano.

— E così? — fece sorridendo, poichè io restavo immobile col mio soprabito sul braccio.

Come ella sorrideva!

Aveva dentini candidi e brillanti; non sembravano perle, la Dio mercè, ma si mostravano quali erano, denti giovani e sani, disposti a mordere egualmente un labbro innamorato o una bella melagrana matura.

Le esposi il mio caso in poche parole, chiedendole se avesse qualche bottone da supplire almeno almeno ai due mancanti.

— Mi dispiace, non ne ho — rispose ella guardandoli attentamente.

— O povero me, dovevo campare trentacinque [p. 106 modifica]anni per vedere il mio destino sospeso ad un bottone?

— L’affare è così serio? — domandò con interesse la mia graziosa interlocutrice.

— Il più serio di tutti. Vo a chieder moglie.

— Ah!

Non altro. Voltò il capo con naturalezza guardandosi attorno come chi cerca qualche cosa, magari una ispirazione. Io seguii macchinalmente il giro dei suoi occhi finchè la vidi aprire un armadietto, tirare una cortina di sargia che formava come una seconda barriera a quel Sancta-Sanctorum e uscirne un waterproof azzurro...

Adorabili signore, che discendendo alla porta di un teatro trascinate sulle ruote del vostro coupé la punta immacolata d’un cachemir delle Indie, dive del settimo cielo cui serpe nei magnanimi lombi il sangue di blasonati eroi, quale attitudine sta per prendere il vostro bel volto aristocratico davanti a quel plebeo waterproof?

Ahi! povera fanciulla, era il suo oggetto di maggior lusso, come lo era per me il soprabito azzurro.

Azzurri entrambi!

Ella tornò a sorridere e facendo scorrere i ditini veloci sulla bottoniera, esclamò con accento trionfante:

— Diciassette!

Capivo a metà; incominciavo a sorridere io pure e la guardavo titubante e dubbioso.

— Signorina...

— Signore, ella è servito; in un momento stacco [p. 107 modifica]questi bottoni del mio waterproof e li attacco al suo soprabito.

— Ma è troppo incomodo...

— Nulla affatto.

— Ma il suo waterproof...

— Per oggi non esco più.

— Ma tutti quei bottoni...

— Me li renderà.

— Ma io...

— Ma lei m’ha chiesto un favore di sorella e non faccio altro che accontentarla. Prego, s’accomodi.

Sedette ella pure nel vano della finestra e s’accinse subito al lavoro.

— Se la aiutassi a scucire i bottoni?

— Benissimo, tempo guadagnato.

— O perduto — mormorai fissandola negli occhi.

Ella arrossì lievissimamente.

— Badi a non tagliare il panno.

Io presi le forbici con tutta circospezione, ma ciò non mi impediva di osservare che il waterproof della mia vicina strascicava un po’ per terra; lo sollevai delicatamente posandolo sulle mie ginocchia, nè potei, per quanto vi mettessi di verecondia, evitare un rapido contatto che ci fece trasalire.

Il rossore che non era peranco scomparso dalle sue guance si accrebbe di una tinta più viva.

— La vostra fidanzata si impazientirà del ritardo.

E disse queste parole con tanta placidezza benigna e serena che mi sentii improvvisamente la voglia di abbracciarla.

— No, no, non si impazienta di certo; non mi aspetta oggi. [p. 108 modifica]

Tacque, ma aveva due occhi eloquentissimi, limpidi e bruni, due occhi che parlavano prima ancora che il labbro si fosse schiuso.

In quegli occhi lessi un vago dubbio sulla sincerità della mia dichiarazione.

Allora proseguii:

— Le parrà singolare, ma è proprio così. Sono deciso a chiedere la mano della signorina Giacobbe, senza aver detto nulla alla ragazza.

È dunque necessario buttarsi in ginocchio e gridare a squarciagola: io t’amo!? Queste scene non si vedono che nei vecchi melodrammi o nelle opere serie, quando il tenore canta la sua grand’aria di effetto.

La mia vicina infilò l’ago ed anche questa volta non rispose.

— Sono un uomo pratico io, vo dritto allo scopo. Ho deciso di metter su casa, di ammogliarmi e... e...

Poffarbacco!

Come uno sprazzo di luce improvvisa mi si affacciarono queste riflessioni.

Perchè ho scelto la signorina Giacobbe? Non v’era altra donna al mondo? Non ne avevo io conosciute di più leggiadre? L’amavo forse?

— Ahi! — La forbice m’era entrata nel polpastrello dell’indice riducendomi a pensieri meno filosofici.

Conchiusi. Cosa fatta capo ha e quando il capo è fatto, convien metterci la coda.

— S’è punta? — chiese la mia vicina.

— Oh nulla. Che è mai la puntura d’una forbice in confronto... [p. 109 modifica]

Cosa volevo dire? Una sciocchezza senza dubbio; la mia vicina la troncò a mezzo, esclamando:

— Ha già disposto tutto per il suo matrimonio?

— Tutto mentalmente; mi manca il consiglio di una donnina di gusto per concretare.

Feci una pausa studiata; ella non parve avvertirla o non volle.

— Ho in vista quattro camerette... crede che potranno bastare?

— Per due cuori bastano certamente.

— Oh! per due cuori sono anche di troppo: due cuori che si amano dovrebbero trovarsi tanto bene in una camera sola, un piccolo nido... come questo, per esempio.

Ella si chinò a raccogliere un bottone che non avevo visto cadere. Io continuai:

— Una finestrina con due cortine così candide e trasparenti, un piccolo tavolo come questo, ove l’amore verrebbe a mescere gioia e vino in una unica coppa.

Qui il mio sguardo cadde e si fermò sulla tenda celeste che nascondeva il letto... e sa Iddio il mondo di pensieri dolcissimi che mi suscitò quella vista — dolcissimi, onesti — pure non osai esprimerli; e tacqui, e la mia vicina, che avvertì la sospensione, indovinò fors’anche il motivo.

Per la terza volta il suo bel volto si coperse di innocente rossore; tremò tutta, balzò in piedi e con un delizioso smarrimento negli occhi mi consegnò il soprabito.

— Ecco, è finito. [p. 110 modifica]

— Sono veramente mortificato di doverla contraddire, ma non mi sembra finito; mancano ancora due bottoni, e poichè fu tanto gentile cogli altri...

Tornò a sedere e attaccò quei due bottoni con incredibile prestezza.

Io la guardavo e devo pur confessare che in questa occupazione mi fuggiva il tempo rapidissimo, poichè ella era di quelle timide e modeste bellezze che non colpiscono direttamente i sensi, ma si insinuano inconsapevoli nel cuore.

Tac, tac, tac, tac.

Una piccola pendola di bronzo collocata su una mensoletta suonò quattro ore.

— Di già! — esclamai, prendendo il soprabiti dalle mani della mia vicina; e vi aggiunsi un milione di ringraziamenti; le promisi di riportarle subito i bottoni; le dissi che ero felice di averla conosciuta...

— È tardi — interruppe.

La salutai col massimo rispetto ed ella mi rispose con un leggiadro movimento di capo.

Quattro ore, ripetevo provandomi il soprabito davanti al mio specchietto. Non ho tempo da perdere, È singolare, m’è passata la voglia di andare oggi dal signor P. P. Giacobbe. E se rifiuta? E poniamo anche che non rifiuti, se avessi a pentirmene?

Rodolfo, Rodolfo, quando il vino è spillato... orsù, coraggio. Io non sono perdutamente invaghito della damigella — al contrario; ma se la poveretta ha preso sul serio la mia corte non voglio esserle cagione di disinganni. [p. 111 modifica]

Per fare più presto presi un omnibus; e cacciandomi in un angolo pensavo ai bottoni non miei che portavo, alla simpatica loro proprietaria, a quel colloquio improvvisato e così attraente, finchè mi venne sott’occhio un avviso incollato sul cielo dell’omnibus:

Minestre condensate

di

Rodolfo Sceller

Hildburghausen

(Germania).

Quella minestra apparsa d’un trutto nel bel mezzo delle mie fantasticherie, mi fece pensare che si avvicinava l’ora del pranzo — e sia dettò tra parentesi senza far torto al signor Sceller, che si chiama Rodolfo come me — avrei preferito di gran lunga al suo avviso appetitoso una appetitosa minestra, fumante, anche a costo di non essere condensata.

Chi sa che il mio principale non mi trattenga a pranzo?

L’omnibus era appena a metà strada ed io mi rifeci da capo a pensare... alla mia vicina.

Deh! non tenetemi il broncio, lettrici appassionate e platoniche, se cedendo all’imperiosa esigenza della natura io alternavo pensieri di fame e pensieri di simpatia.

Fino a quando la materia, la divina materia sarà considerata con disprezzo dai poeti e da tutte quelle persone che si vantano di delicato sentire?

E perchè un gelsomino sarà più poetico d’un [p. 112 modifica]cavolo o d’un fagiolo? Forse perchè è inutile, perchè rappresenta nella natura la vacuità del sentimentalismo? O materia, o realtà, o eterna fonte del vero...

A proposito: eccoci alla casa del signor P. P. Giacobbe.

La portinaia era occupata nel tirare le orecchie a un certo suo ragazzetto e mi accordò pochissima attenzione.

Salii le scale non senza un po’ di batticuore; alla serva che mi aperse l’uscio (una serva nuova che non conoscevo) chiesi garbatamente:

— È in casa il signor Giacobbe?

— No, ma può tornare a momenti; resti servito, lo accompagnerò in sala.

— Grazie, bella ragazza, sono pratico — e m’avviai con quel contegno franco e disinvolto che s’addice a un futuro padroncino.

La stuoia che copriva il pavimento smorzò il rumore de’ miei passi, ond’è che arrivai sulla soglia del salotto senza essere veduto da due persone che stavano discorrendo.

Una di esse era la damigella, oggetto de’ miei voti; nell’altra riconobbi il figlio di un corrispondente di Nuova-York, che era giunto da una settimana circa e che alloggiava in casa del principale.

— È dunque una risposta favorevole, che mi lasciate sperare?

Così diceva l’americano.

— È permesso? — feci io; ma nessuno dei due rispose; o, a meglio dire, rispose la signorina in questi termini: [p. 113 modifica]

— Per parte mia non posso nascondervi che un tenero sentimento... un’attrazione arcana.... Se babbo è contento....

— Vi farò una posizione che sarà l’invidia di tutte le italiane stabilite a Nuova-York.

Diavolo! pare che io sia stato prevenuto, pensai; e questa scoperta, lungi dallo sbigottirmi, mi sollevò un gran peso dallo stomaco. Da due ore m’era passata la voglia di diventare il genero del signor Giacobbe.

Ritornai delicatamente sui miei passi, in punta di piedi e col sorriso sulle labbra.

La serva mi domandò se ero già stanco di aspettare.

— No, carina, no; ho dimenticato un campionario che volevo mostrare al signor Giacobbe; del pepe rosso di Caienna prima qualità, ma tornerò più tardi, tornerò.

E guizzai fuori dell’uscio, scendendo balzelloni la scala come un innamorato che...

Oh! oh! Rodolfo, non è un anticipare troppo gli avvenimenti? Che diamine, il lettore capisce subito dove vuoi andare a finire; non hai scuola, non hai metodo, non sai tenere per ultimo il tuo razzo d’effetto!

Pazienza, mettiamoci in carreggiata.

A metà strada fra la mia abitazione e quella del signor Giacobbe c’era la trattoria dove ho l’abitudine di compiere le mie modeste refezioni, e non spiaccia alle suddette mie lettrici appassionate e platoniche, vi entrai per pranzare. [p. 114 modifica]

Il vecchio Voltaire sogghignava alle ardenti polemiche, che fin d’allora si discutevano sull’anima e sul corpo, quasi che...

Rodolfo! Rodolfo!

Ecco qui. Appena finito di pranzare volai alla mia cameretta; trattandosi di un quarto piano, il verbo volare non sembrerà fuor di luogo; ma prima gettai uno sguardo sull’uscio della mia vicina.

L’uscio era chiuso e non si vedeva la chiave nella toppa.

Dunque era uscita e senza waterproof — a meno che non lo avesse appuntato cogli spilli — supposizione che rigettai subito, pensando all’ordine armonico di quella soave personcina.

O con o senza waterproof ella era uscita, e quasi involontariamente io sospirai.

Occupato a scucire i bottoni che mi avevano servito così poco, porgevo orecchio a tutti i rumori che si udivano sulla scala, sperando di poter discernere il passo leggero della mia vicina.

Come dissi, era giorno di domenica e gli inquilini di quella casa, abitata in massima parte da operai ed impiegati, approfittavano del giorno di riposo per darsi buon tempo.

Molti erano usciti a pranzo in quelle osterie fuori di città che sono la delizia del povero; altri si attillavano per il teatro o per il passeggio o per recarsi a tentare le sorti della tombola in casa d’un amico.

A poco a poco se ne andarono tutti. Le camere parevano deserte. Soltanto un povero gobbetto che [p. 115 modifica]abitava l’abbaino faceva risuonare gli echi di quella solitudine, cantarellando colla sua voce fessa:

Con qual cuor morettina tu mi lasci,
Con qual cuor, con qual cuor...

A furia di ascoltarlo e di non udire altra voce nè altre parole ripetevo anch’io macchinalmente:

Con qual cuor, con qual cuor...

I bottoni erano scuciti tutti; li raccolsi infilandoli in un’agugliata di cordoncino rosa e mi augurai che la vicina tornasse a casa per andare a riportarglieli.

Ma la vicina non tornò — e il gobbetto continuava a cantare «con qual cuor ed io a ripetere e con qual cuor» — finchè udii un fruscio di vesti sulla scala, corsi fuori, ma erano due zitellone del terzo piano che avevano pranzato extra muros e ritornavano con un cartoccio di dolci ciascuna.

L’un dopo l’altro rincasarono tutti, i lumi si spensero, le ciarle e i rumori tacquero; anche il gobbetto finì di cantare.

Lettori! io andai a letto.

Ma prima — ed è qui che mi lusingo di conciliarmi la benevolenza delle lettrici — prima, scrissi su d’un elegante foglietto di carta inglese, lucida, senza righe queste tre parole: «Buona sera, vicina.»

E uscito pian piano sul ballatoio, feci passare il bigliettino nel buco della toppa.

Una vaga agitazione mi impediva di pigliar sonno. Visioni liete e malinconiche mi passavano alternativa[p. 116 modifica]mente davanti agli occhi ed era invano che volevo addormentarmi pensando al lavoro che mi attendeva l’indomani e ad un grosso carico di cannella Cejlan finissima che doveva arrivare.

La porta di strada si aperse e si chiuse, con quel rumore secco che dinota la pratica o la fretta.

Due persone salirono la scala e si fermarono sul mio pianerottolo.

Il cuore mi batteva come una campana a martello.

— Vi raccomando, attenetevi alle prescrizioni del medico, e se c’è pericolo, venite subito a chiamarmi.

Questa che io udivo era la voce blandemente gentile della mia vicina — e un’altra voce, che usciva da una bocca sdentata, rispose:

— Non dubiti, approfitteremo della sua bontà e ne la rimuneri Iddio. Domani le riporterò la chiave.

Un passo pesante scese le scale, mentre l’uscio della mia vicina si schiudeva ed io trepidante pensavo:

— Avrà trovato il biglietto?

Ascoltai nuovamente se sentivo rumore nella di lei cameretta; ma forse che fa rumore la rondinella quando nasconde sotto l’ala la sua vispa testina e si addormenta?

Ella era la rondinella di quel nido — ella, tanto modesta e cara, tanto simpatica!

Era uscita per un’opera pia; aveva visitato una persona inferma e in quel momento mi sentii felice di non aver avuto neppure un dubbio sulla sua assenza prolungata. [p. 117 modifica]

Nel mio pensiero non potevo disgiungere l’immagine della mia vicina dal rispetto il più profondo.

La notte era avanzata quando presi sonno, ma dormii placidissimamente.

Alla mattina per tempo mi recai allo studio; la giornata mi parve lunga e mi parve più brutta che mai la signorina Giacobbe che vidi attraversare il magazzino con una foglia di geranio in petto... foglia che più tardi riconobbi alla bottoniera del giovane americano.

E così sia!

Pochi momenti prima di abbandonare lo studio, intanto che lisciavo colla manica il pelo del mio cappello, mi si avvicinò il signor P. P. Giacobbe con un sorriso soddisfatto e battendomi sulle spalle una larga mano profumata di vaniglia, esclamò:

— Dunque il bilancio è finito. Abbiamo duecentomila lire di vantaggio sull’anno passato. Le vostre mille e cinquecento stanno per diventare duemila e chi sa!... chi sa!...

Allegro come un pesce (una qualche domenica che mi trovo in libertà voglio verificare sulla Storia naturale di Buffon per qual motivo i pesci sono allegri) ringraziai il mio principale, posi la via fra le gambe e salii a quattro a quattro i non pochi scalini di casa mia.

Il gobbetto dell’abbaino cantava sfogato e cantava una canzoncina dolce dolce, patetica, sentimentale... Fosse l’ora, fosse la disposizione, quella canzoncina mi parve una musica celeste; incominciava con queste parole:

Ah! dillo se m’ami...

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Tutto commosso, giulivo e pur tremante, mi presentai all’uscio della vicina coi bottoni infilzati nel loro cordoncino rosa. Bussai gentilmente colla nocca e la vocina che mi è tanto cara rispose:

— Chi è?

— Sono io, il suo vicino. Vuole aprirmi?

— Entri, l’uscio è aperto.

Ella era seduta, mi voltava le spalle e cuciva con molta fretta a quanto pare perchè non si alzò, ma con un grazioso movimento mi fe’ cenno di parlare.

Dissi che ero venuto per renderle i bottoni e per ringraziarla — che mi sarei presentato la sera prima se...

Qui pensai al biglietto e la guardai attentamente per poter cogliere sulla sua fisonomia l’impressione che le aveva fatta; ma il suo volto era curvo sul lavoro e mi parve ve lo tenesse per deliberato proposito.

— Ieri sono uscita diffatti; vennero a chiamarmi perchè una povera donna di mia conoscenza era stata colpita da apoplessia e non c’era alcuno a soccorrerla.

— Ella è tanto buona!

— Questa non è bontà, è umanità semplice.

— E non aveva il suo waterproof perchè io...

— Mi bastò lo scialletto nero.

— E quella povera donna ora sta meglio?

— Sta meglio, grazie.

La voce era pur sempre cortese, ma che risposte gelide!

Non sapevo più che dire; m’era sbollito [p. 119 modifica]l’entusiasmo, mi si rallentavano i palpiti del cuore, un gruppo di singulti repressi mi stringeva la gola.

Tenevo ancora in mano i bottoni; li guardavo, li voltavo, li rivoltavo. Ella continuava a cucire e il silenzio era così perfetto che udii il ritornello del piccolo gobbo:

Ah! dillo se m’ami...

— Vicina!... — mormorai con accento supplichevole.

— Signore? — fece ella sollevando un istante i suoi begli occhi un po’ severi.

— Ella è molto crudele oggi con me.

— Ha il confronto di molti anni per poterlo dire?

Con questa osservazione fina e pungente volle rammentarmi che la conoscevo da ieri.

Sì, da ieri — ma quanta strada ella aveva già percorso nel mio cuore! — ed è il cuore che partorisce gli affetti, non il tempo.

— Signora — ripresi — ella che ha tanta umanità per le sofferenze fisiche non ne avrà affatto per i mali dell’anima... anche se quest’anima le è sconosciuta?

— Se parla per suo conto trovo ben singolare lo sfogo. Non vi è un’altra persona che ha tutto il diritto e tutto il dovere di consolarla?

— Comprendo; vuole alludere al mio matrimonio; ma è un matrimonio che non si farà nè ora nè mai.

È impossibile ch’io descriva a parole il lampo che balenò negli occhi della mia vicina. Come in una buia notte quel lampo mi rischiarò il cammino che dovevo percorrere. [p. 120 modifica]

In un momento le parti cangiarono. Da altera ella si fece malinconica; io da malinconico ridivenni giulivo. Continuai:

— Un matrimonio senza amore è possibile? Lo comprende ella? Io non amavo la signorina Giacobbe.

Appena distinta la sua voce mormorò:

— Così tardi se n’è accorta?

— La verità scaturisce molte volte dai confronti. Noi ci crediamo sapienti finchè lo studio ci dimostra la nostra ignoranza... e allora...

Mi feci animo, avvicinai la sedia, le presi una mano.

— Allora si tenta di riacquistare il tempo perduto!

I miei occhi erano sprofondati ne’ suoi, le stringevo la mano con passione ed ella mi guardava benigna e commossa.

Un angelo invisibile alitava in mezzo a noi.

— Signore — ella disse, ritirando la mano — non sta bene farsi gioco di una povera donna.

Ma non lo credeva! no, non lo credeva, perchè io non ebbi bisogno di giustificarmi; i miei sguardi le dissero quanto ella mi calunniava e quanto io la amavo.

La sua mano tornò a posare dolcemente nella mia.

— Vicina, crede al destino?

— Senza dubbio, è il Dio dell’avvenire; spesso l’unica consolazione del passato.

— E ha fede nel destino che ci ha posti sulla medesima via per... per...

Qui mi cascò l’asino; ella interruppe ridendo: [p. 121 modifica]

— Vi sono tante persone sulla nostra via! Si fa strada insieme finchè giunge il momento di separarsi con una buona stretta di mano. Ed è quello che faremo noi, vicino, perchè la sera si avanza.

Faceva buio realmente; ombre grigie si posavano sulle bianche cortine della finestra. Ella smesse di lavorare e si atteggiò in guisa da congedarmi.

— La annoio?

— Ma... no.

Seguì un breve silenzio che parve metterla in imbarazzo; io esclamai:

— Pensavo...

Ella non domandò a che cosa, ma io soggiunsi:

— Pensavo che sono solo al mondo e mai la solitudine mi è pesata come oggi.

Evidentemente il mio accento era sincero perchè ella rispose con somma grazia:

— Vorrei esserle sorella.

Il mio cuore traboccava. Torrenti di lava infiammata mi scorrevano nelle vene e l’oscurità crescente mi faceva ardito.

— Il nome di sorella è dolce, ma l’amore ne ha inventato uno più dolce ancora!...

Sentivo il suo respiro caldo e frequente; le sue mani tremavano nelle mie, osai baciarle l’estremità delle dita.

Ella gettò un grido di gazzella spaventata, io la rassicurai con un secondo bacio...

Poichè è da notarsi che per guarire le scottature non v’è niente di meglio del fuoco.

Una volta lanciato bruciai le mie navi e le dissi [p. 122 modifica]tutto quello che poteva suggerirmi una vita di trent’anni spesa alla ricerca del vero amore.

Ella oppose qualche resistenza; parlò della signorina Giacobbe, de’ miei impegni, della mia posizione e concluse chinando il capo:

— Sono povera.

Ed io risposi stringendola sul cuore:

— Uniremo le nostre due povertà e ne faremo una ricchezza.

Il buio era completo; al di sopra di noi il gobbetto accese la sua lucerna.

Ella si sciolse dalle mie braccia e un momento dopo la luce blanda d’una lampada di cristallo illuminò la cameretta.

Soavissimo nido! Era così ch’io l’avevo sempre sognato.

E come mai trovandomi presso alla felicità ero andato a cercarla altrove?

— Ma forse è meglio, meglio, meglio! — esclamai fregandomi le mani.

— Che cos’ha? — chiese la mia vicina.

— Ho trentacinque anni, duemila lire di stipendio e una voglia pazza di sposarla!

Questa dichiarazione alla bersagliera fece impallidire che rispose:

— Ella non ha pensato certamente alle conseguenze di una risoluzione improvvisa...

— No, non è improvvisa. Dal primo momento che udii la sua voce presi a odiare la signorina Giacobbe, che d’altronde non avevo mai amata. Lei, lei è la mia donnina ideale, la compagna che il mio cuore [p. 123 modifica]invoca per questi giorni che mi rimangono e per le primavere che ci sorrideranno, e per il sole che spunterà radioso, e per i fiori che sbocceranno sotto i nostri piedi, e per la pace che benedirà il nostro amore. Vicina! tutto è illusione su questa terra, tutto passa, tutto muore, ma due cuori caldi e sinceri che palpitano l’uno accanto all’altro, possono sfidare la fortuna. Amiamoci! Che c’è di più bello, di più vero, di più santo?

Una lagrima tremava sulle sue palpebre, ma non faceva più buio ed io non osai raccoglierla.

Mezz'ora dopo saltavo nella mia camera come un fanciullo; e ballai e cantai fino ad ora tarda; al punto che le due zitellone mie vicine di sotto picchiarono nel soffitto col manico della scopa per invitarmi a tacere.

Così finì quella memorabile giornata; e se lo permettete finirò anch’io la mia storia.

La conclusione precisa e legale potete trovarla sui registri della parrocchia e su quelli del Municipio, sezione matrimoni, addì 11 aprile 1875.