Lettere (Sarpi)/Vol. I/67

LXVII. — Al medesimo

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LXVII. — Al medesimo
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LXVII. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Alla ricevuta di quella di V.S. delli 12 aprile, veduta la memoria di monsieur Vieta, impaziente d’aspettare, innanzi che leggessi le molte lettere ricevute quel giorno, fui necessitato trascorrerla. Il principio è un buon ragionamento di governo; il rimanente, quando viene alla materia, è preparazione per far lungo trattato. Credo che quella scrittura [p. 229 modifica]fosse un proemio e principio di commentario per preparar materia ad una opera buona. M’è stato carissimo aver veduto quel che ci è; e quantunque non sia quale risponda al valor eccellente di monsieur Vieta, ne ringrazio V.S. quanto so.

Se monsieur Alleaume riducesse il metodo della risoluzione delle cifre, farebbe opera molto degna. Io ho gran dubbio se questa materia sia capace di arte, e me lo causa la sua infinità; nè posso intendere come si possa ridur in arte quel che non si può ridur a numero. Mi persuado aver cifra che si può tener in mente (che importa molto, acciò non sia perduta o rubata la contracifra), e credo esser impossibile levarla, perchè infinitamente si varia, nè mai più d’una volta un carattere ha l’istessa significazione: ma è difficile da scrivere per il pericolo di fallare. Il che quando occorresse in un solo carattere, l’amico è spedito d’intenderla: per la qual cosa non è anco di gran uso. Ma lasciamo queste considerazioni.

Intorno la relazione dell’accidente miracoloso che mi scrive, non fu quella levata del suo plico, ma l’error fu il mio; quale io riconosco adesso. Aprii diversi pieghi che mi vennero di Francia in quel tempo, e posti tutti insieme per leggere continuamente, errai il luogo della suddetta relazione, ponendola appresso la lettera del signor ambasciatore: il che mi fece credere ch’egli l’avesse mandata; e vi concorse verisimilitudine, perchè egli è molto curioso: onde a lui risposi.

Dirò a V.S. sopra quel successo primo, che io mai non ardisco negare cosa alcuna riferta sotto titolo d’impossibilità o d’altro, sapendo molto bene [p. 230 modifica]l’infinita varietà delle opere della natura e di Dio; ma bene uso, secondo il precetto d’Aristotele, di non ricercar la causa, salvo che di quelle ch’io stesso veggo. Nella cosa stessa molte volte sta la causa coperta, che l’occhio acuto scuopre; ma nella relazione non si rappresenta. Il relatore anco alle volte vede con occhiali, ovvero essendo attento ad altro; onde la cosa gli è altrimente rappresentata: le quali cose fanno che ognuno debbe fondar sopra li suoi sensi, non sopra li alieni.

Ma quando V.S. mi fa passaggio da questo miracolo a quell’altro mostro delli Gesuiti, posso ben dire che tratti di cosa veduta e conosciuta da me, se bene non interamente. Hanno tanti recessi, tanti pretesti, tanti colori, che sono molto più vari del sofista di Platone; e quando l’uomo crede averli compressi in un dito, scappano e si dileguano di mano. Ogni giorno veggo in loro cosa maravigliosa per innanzi non scoperta. Qui viene avviso che di Ungaria siano scacciati. L’intenso desiderio del ben publico facendomi temere, mi sforza ad aspettar il secondo avviso prima che credere. Questi sono quelli che incitando ogni giorno la corte romana contro questa Repubblica, nodriscono le vecchie differenze, seminano quotidianamente di nuove e inacerbiscono gli animi. Io non posso prevedere dove queste cose siano per terminare. Solo temo che l’Italia possa dar materia di ragionamenti a’ suoi vicini, come adesso ne riceve da loro.

Il padre Fulgenzio ha fatto quello che conveniva ad un predicatore veramente cattolico: ha predicato l’evangelio di Cristo nostro Signore, astenendosi da notare qualsivoglia persona: non ha dato [p. 231 modifica]soddisfazione a Roma nè agli aderenti, perciocchè è impossibile farlo se non predicando loro in luogo di Cristo.2 Disse ultimamente di lui il pontefice, ch’egli ha fatto di buone prediche, ma anco di cattive: che sta troppo sopra la Scrittura; alla quale chi vuol stare attaccato, ruinerà la fede cattolica. Le quali parole non sono state molto approvate qui: io però le lodo e le tengo vere, purchè ci si metta la sua coda. Io veggo che gli uomini, come la Chiesa dice negli Atti degli Apostoli, convengono insieme non a fare quello che vogliono, ma quello che la Provvidenza divina disegna. Non credo che nissuno avesse per fine quello che Dio ha fatto seguire: la cui Maestà sia sempre benedetta.

S’è inteso qui li disegni sopra Ginevra molto pericolosi e strani, essendo più facile difendersi da un assalto, che da una sorpresa. Il mondo è tutto pieno di mali umori. Dio faccia che in luogo di seguire una pace universale, come si disegna, non segua una universale guerra: ma se sarà per augumento della sua gloria, e avanzamento della Chiesa di Dio, o almeno purgazione del mondo, non doveremo dolercene.

Qui finisco, pregando la divina Maestà che accompagni sempre V.S.; alla quale bacio la mano. Il padre Fulgenzio si è risoluto di fare stampare una certa specie d’apologia, in discolpa di quanto se gli è opposto da’ nostri comuni avversari. V.S. ne riceverà copia al suo tempo debito, e per Lei e per quelli amici quali s’interessano nella nostra causa. Dio mandi a tutti quella consolazione che [p. 232 modifica]tutti desiderano, e pace a questo Stato: ch’è quanto posso fare come buon cristiano. E qui di nuovo faccio fine col pregarla della continuazione del suo affetto.

Di Venezia, il 10 maggio 1609.




Note

  1. Edita: come sopra.
  2. Loro e Cristo, quarto caso; come a dire: la dottrina o divinità loro, in luogo di quella di Cristo.