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1Nati sul pelio giogo eran quei pini,
     Che primi (se di fede il grido è degno)
     Del Fasi ai flutti ed agli eètei fini
     Il nettunio varcâr liquido regno,
     Quando, l’aureo a rapir vello a’ Colchini
     Il fior de’ prodi argivi, in agil legno,
     Osò, lungi scorrendo i gorghi amari,
     Sferzar con lignei remi i glauchi mari.

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2La dea, che in guardia tien l’ardue castella,
     Il carro alato di sua man costrusse,
     Ella spianò le pinee travi, ed ella
     A la curva carena indi le indusse.
     A nova impresa allor per via novella
     Sul pelago scoglioso egli s’addusse:
     Fendeasi al rostro il mar ventoso, e tutti
     Torceansi al remo incanutiti i flutti.

3Fu allor, che degli abissi biancheggianti
     Le nereidi marine erser le ciglia,
     E allo strano spettacolo i sembianti
     Teneano immoti da la meraviglia.
     Allor fu, che mortale occhio i raggianti
     Corpi fruì dell’equorea famiglia,
     E mirò delle ninfe alme l’aspetto
     Nude, fuor delle spume, a mezzo il petto.

4Indi Peleo per Teti arse d’amore,
     Nè d’umani imenei Teti fu schiva;
     Ed anch’esso di Teti il genitore
     Il maritaggio di Pelèo sanciva.
     O nati in una età tanto migliore,
     Eroi, figli d’un nume o d’una diva,
     Salvete anco una volta; e s’avvien ch’io
     V’invochi, sorridete al verso mio.

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5Or te, colonna di Tessaglia, io canto,
     O Peleo, te cui dall’insigni tede
     Crebbe decoro e a cui dei santi il santo
     Dei numi il padre l’amor suo già diede.
     E sua tu fosti che di bella hai vanto
     Fra quante in mar figlie di Nereo han sede?
     E la nipote sua trar dalle braccia
     Si lasciò Teti e il mar che il mondo abbraccia?

6Giunge il tempo alle nozze, e la bramata
     Alba non prima appar, che a stuolo, a schiera,
     Doni recando, alla magion beata
     Festeggiante si trae Tessalia intera.
     E Sciro e Tempe e Ftia sola è lasciata,
     Si spopola Cranon, Larissa altera:
     Tutti la brama di Farsaglia invase,
     Tutti a gremir van le farsalie case.

7Nessun dei campi al placido lavoro
     O l’umil vigna a rastrellare attende;
     Ammorbidisce ai bovi il collo; il toro
     Col vomer curvo il suol duro non tende;
     Nè gli alberi a potare e scemar loro
     L’ombre soverchie alcun la falce prende;
     Tacciono l’opre; rugginoso ed atro
     Si fa nell’ozio il già lucente aratro.

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8Ma d’argento, ma d’òr tutta sfavilla
     Fin tra’ recessi suoi l’inclita reggia;
     Su l’ampie mense il vasellame brilla,
     Nitido ai sogli l’avorio biancheggia;
     E in mezzo a1 regio fasto, onde scintilla
     La magion tutta, il talamo troneggia,
     Tutto d’indico dente o di tal forma,
     Che degno è bene che una dea vi dorma.

9Di violetto murice dipinta
     Purpurea coltre istoriata il veste,
     Dove con arduo magistero è pinta
     Qua là qualcuna dell’eroiche geste.
     Ecco, sul mare, onde ogn’intorno è cinta,
     Arianna affisar le luci meste;
     Di Nasso ondisonante è questo il lido,
     Quel che fugge è il navil di Teseo infido.

10Guarda incerta la misera, e nel petto
     A frenar la sorgente ansia si prova,
     Chè quanto innanzi a sè vede in effetto
     Credere illusione anco le giova.
     Desta appena dal sonno maledetto
     Sola in deserta arena ella si trova:
     E Teseo fugge, e le promesse care
     Dà all’aure, e solca spensierato il mare.

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11Trista i dolci occhi, di Minòs la figlia
     Mira, ahi, dall’alghe dilungar la vela,
     Mira, e marmorea Menade somiglia,
     Se non che in gravi onde affannose anela.
     Non tenue mitra il crin biondo le impiglia,
     Non zona il latteo seno o frena o cela;
     Le vesti, onde s’è svolto il corpo tutto,
     Son qua e là al suo piè gioco del flutto.

12Qual della mitria cura e del fluente
     Peplo aver l’infelice allor potea,
     Se con tutto il pensier perdutamente,
     Da te con tutto il cor, Teseo, pendea?
     Ahi, fra che lutti, in che spineto ardente
     L’avea cacciata l’ericinia dea,
     Dacchè, il Pireo lasciando, era all’astuto
     Signor di Creta il fier Tesèo venuto!

13Soleva Atene da un contagio astretta,
     A scontar d`Androgeo l’eccidio infame,
     Di vergini e garzon’ dare un’eletta
     Del Minotauro a saziar la fame.
     Ma Teseo vuol gittar per la diletta
     Patria la vita in singolar certame,
     Pria che Atene lasciare a cotal sorte,
     Che offrir dee, per campare, i figli a morte.

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14S’imbarca tosto, e con propizio vento
     Del gran Minosse all’alta reggia arriva.
     Quivi il vide, il mirò con guardo intento
     La donzella regal, che casta oliva,
     E con la madre in molle abbracciamento
     Nello stesso lettuccio anco dormiva,
     Qual mirto dell’Eurota o fior gentile
     Che alla sponda nativa èduca aprile.

15Ma non prima da lui le desíose
     Luci chinò, che pienamente in core
     E in tutto il corpo e ne le più nascose
     Midolle accolse il violento ardore.
     In quali smanie, oimè, tu che le rose
     Mesci alle spine, o fanciulletto Amore,
     In che mar la balzasti iniquo e fosco,
     O dea di Golgo e dell’idalio bosco!

16Arde la meschinella, ed ogn’istante
     Il biondo ospite suo chiama e sospira.
     Quante nel languidetto animo, quante
     Paure accoglie, e come ansa e delira!
     Come spesso più pallida in sembiante
     Si fa dell’oro, quando Teseo aspira
     Col bieco mostro cimentarsi, e l’alma
     Perdere agogna o conquistar la palma!

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17E muta prega, ed agli Dei promette
     Cari, inutili doni, e voti appende.
     Ma come quercia o pin, che dalle vette
     Del Tauro, vigoroso ampio si stende,
     Squassando e contorcendo al ciel l’erette
     Braccia, al turbine immane alfin s’arrende,
     E sradicato dall’alpestre altezza
     Ruina, e quanto incontra atterra e spezza;

18Così la belva da Tesèo domata
     Cadde, ai venti agitando invan le corna.
     Incolume l’eroe dall’onorata
     Gesta fra molte lodi indi ritorna;
     Nè dalla dritta via per l’intricata
     Laberintèa spelonca erra o si storna,
     Chè dato a lui da la fanciulla fida
     È un tenue filo all’orme sue di guida.

19Ma devo, errando dal primier soggetto,
     Narrar com’ella agli occhi si togliea
     Del padre, ai baci della suora, al petto
     Della madre che in lei tutta vivea?
     E che, tutto posposto al dolce affetto
     Di Teseo, il mar seco passato avea?
     E che, mentre dormía di Nasso al lito,
     L’abbandonò l’immemore marito?

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20Chiama ella e grida, e insana e furibonda
     Per greppi e balze angoscíosa ascende,
     E nell’immensa azzurrità dell’onda
     L’arse pupille immobile protende;
     Poi corre all’orlo dell’ondosa sponda,
     Nè di calzare il piè molle difende;
     E singhiozzando e lacrimando insieme,
     Queste muove dal sen querele estreme:

21“Così, perfido, me ch’al natio lito
     Strappasti, così me, perfido, in questa
     Piaggia hai lasciata? E sei, Teseo, partito?
     E pensiero di me nullo a te resta?
     Il giuramento dagli Dei sancito
     Così l’anima tua dunque calpesta?
     E rechi, in pegno di cotanto affetto,
     Gli esacrandi spergiuri al patrio tetto?

22Come, o crudel, potè l’aspra tua mente
     Non inchinarsi ad un pensier men rio,
     E verun senso di pietà, clemente
     Ti fe’, non che benigno, al dolor mio?
     Eppur ben altro, o falso cor, sovente
     Mi promettevi, altro a sperare ebb’io,
     Quando, misera, offrivi agli occhi miei
     Bramate nozze o splendidi imenei!

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23Ma le promesse e i giuramenti in preda,
     Ahi, dell’aria e del vento, ecco, sen vanno.
     Ad uom che giuri or più donna non creda
     Nè speri un detto sol senza un inganno.
     Finchè di noi fatto non hanno preda,
     Di pregar, di giurar, tema non hanno;
     Ma sazio appena il cupido desio,
     Giuri e promesse pongono in oblio.

24Del turbibe di morte, in cui travolto
     Ti travagliavi, io sola, io ti strappai;
     E più tosto il fratel mi fosse tolto,
     Che all’uopo a te mancar, perfido, amai.
     Oh dolce guiderdon che n’ho raccolto!
     Oh premio degno che donato m’hai!
     Sarò sbranata dalle belve, e l’ossa
     Mie nessun comporrà dentro alla fossa!

25Qual lionessa, in che burroni orrendi
     Ti partorì? Qual mai Sirti abborrita,
     O Scilla irta, o Cariddi atra, se rendi
     Tale a me premio della dolce vita?
     Se dell’antico genitor tremendi
     Eranti i patti, se al tuo cor gradita
     Cosa non era a te consorte farmi,
     Potevi pure alla tua reggia trarmi.

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26T’avrei seguito ancella, avrei gioconda
     Queste mie mani al tuo servigio addetto,
     Terso i bianchi tuoi piè nella pura onda,
     Ricoperto di porpore il tuo letto.
     Ma a che per questa solitaria sponda
     All’aure ignare i miei lamenti io getto?
     Forse alcun senso di pietade esse hanno,
     E udir mie voci e a me risponder sanno?

27Ei per l’onde sen va mentre ch’io gemo;
     Nè uman vestigio su l’arena appare:
     Così feroce nel momento estremo
     La fortuna ai miei mali ama insultare;
     Ed un’orecchia invidia al mio supremo
     Dolor, che ascolti le mie voci amare!
     Oh, non avesse mai l’ateniese
     Prora, gran Dio, toccato il mio paese!

28Mai non avesse il perfido nocchiero,
     Recando al Toro indomito il tributo,
     Qui legato la fune e lusinghiero
     Da noi, nel tetto nostro, ospizio avuto!
     Malvagio! E mascherar sì rio pensiero
     Sotto un volto sì affabile ha saputo!
     Ma che rammento io mai? Di qual consiglio
     Mi giovo? A che speranza ora mi appiglio?

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29Andar su l’Ida? ahi, per mirar l’orrendo
     Gorgo, onde il tetto mio quinci è diviso?
     Sperar nel padre ch’io lasciai, seguendo
     Chi nel sangue fraterno erasi intriso?
     O dello sposo a consolarmi io prendo
     Nell’amor fido e nel sincero viso,
     Dello sposo, che a me togliesi, e lento
     Curva i remi sul liquido elemento?

30Tetto non ha la spiaggia abbandonata;
     Non ha l’isola tutta uman soggiorno;
     Varco non è tra’ flutti ond’è cerchiata,
     Sì ch’io d’uscirne sperar possa un giorno;
     Di fuggir, di campar via non m’è data;
     Tutto è silenzio, è vuoto, è morte intorno.
     Ma non pria languiran nel sonno immenso
     Quest’occhi, e perderò stanca ogni senso,

31Che sul capo del perfido consorte
     lo non chieda agli Dei giusta vendetta,
     E non implori al ciel sino alla morte
     La giustizia ch’ai miseri si spetta.
     Su, Furie, voi che il crin di serpi attorte
     Gli empj colpite della pena addetta,
     Voi che l’ire del cor sul fronte avete,
     Le mie querele a udir qui qui correte.

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32M’udite; dalle mie viscere, o dive,
     Sgorgan le voci mie calde e sincere,
     E voi non fate che d’effetto prive
     Cadan col pianto mio le mie preghiere.
     Misera, ardente, insana in queste rive
     Teseo lasciommi con crudel pensiere;
     E col pensier, con cui da me partia,
     A’ suoi funesto ed a sè stesso ei sia!”

33Poichè dal core addolorato questi
     Detti la donna abbandonata emise,
     E anelando imprecò giorni funesti
     A chi tutte le sue speranze uccise,
     Assentì l’immortal re dei Celesti
     Col cenno invitto, e alla preghiera arrise:
     Tremò la terra al cenno, e gli aspri flutti
     E gli astri e i cieli s’agitaron tutti.

34Di cieca nebbia e d’oblioso errore
     S’avvolse allora di Tesèo la mente,
     Sì che gli avvisi ch’avea fitti in core
     Dileguaron da lui subitamente;
     Nè, i lieti segni alzando al genitore
     Che l’aspettava trepido e dolente,
     Mostrò, che avendo il Minotauro morto,
     Salvo ei tornava all’erittonio porto.

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35Fama è ch’Egeo, quando il figliuol diletto
     Lasciava della dea casta le mura
     E affidavasi al mar, lo strinse al petto,
     E dar questi precetti ebbe a lui cura:
     “O figlio unico mio, nato al mio affetto
     In sul confin della vecchiezza dura,
     Di lunga vita a me più caro figlio,
     Ch’io lasciar devo a sì mortal periglio,

36Deh, se la mia fortuna ed il tuo molto
     Valor ti svelle a me per mio tormento,
     (Misero, e sazie dell’amato volto
     Queste languide ciglia anco non sento!)
     Tranquillo io non torrò che mi sii tolto
     E lietamente apra le vele al vento,
     Prima che a lungo io non mi sia doluto,
     E sparso abbiam di polve il crin canuto.

37E voglio inoltre, che una vela nera
     Tu su l’ondivagante albero appenda,
     Perchè al color dell’atra tela ibera
     Il mio lutto, il mio foco ognun comprenda.
     Ma se la dea, che al sacro Itone impera,
     Perchè la reggia d’Eretteo difenda,
     Consentirà, che la tua mano intrisa
     Sarà nel sangue della belva uccisa,

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38Ti si suggelli nella mente questo,
     E siati in ogni caso ognor palese:
     Depongano le antenne il vel funesto,
     Come a vista tu sii del tuo paese:
     Issin le torte funi, issino presto
     Il candido trinchetto in sul calcese,
     Perch’io conosca alfin, che a lieti giorni
     Tu sei serbato, ed al mio sen ritorni."

39Come le nubi dall’aerea cima
     Di nevosa montagna il vento caccia,
     Dal core di Tesèo, dov’eran prima,
     Questi avvisi sparîr, nè lasciàr traccia.
     Ma il genitor che da una torre adima
     Lagrimosa pe ’l mare ampio la faccia,
     Ed ansíoso dall’estrema vetta
     Gli occhi consuma, e vigilando aspetta,

40Appena scorge tra le vele al vento
     Svolgersi ancor la lugubre gramaglia,
     Credendo il figlio acerbamente spento,
     Su gli alti scogli a capo giù si scaglia.
     Così pari è la pena al tradimento,
     E Teseo ed Arianna un lutto agguaglia;
     Chè il dolor, ch’egli alla Minòide inflisse,
     Lui spensierato al suo ritorno afflisse.

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41Mira fra tanto la fanciulla mesta
     La perfida carena allontanare,
     E in cor volgendo aspre memorie, resta
     Immobilmente a riguardare il mare.
     Nell’altro lato della regia vesta
     Pinto, anzi vivo, il giovin Bacco appare;
     E a te muove, Arianna; e dall’acceso
     Volto ben mostra che di te s’è preso.

42I Satiri e i Sileni in Nisa nati
     Van dietro a lui ruzzando in lieto coro;
     E, il capo indietro, con fieri ululati
     L`ebbre Baccanti pazzeggian con loro.
     E altre squassano i tirsi inghirlandati;
     Chi scrolla i pezzi d’un sbranato toro;
     Qual di serpi s’attorce, e quale in cieca
     Cesta del Dio gli alti misterj reca.

43Erta le palme altra i timballi scote;
     Chi di metallo due piastre battendo,
     Prolungate ne trae stridule note;
     Caccia il barbaro flauto un fischio orrendo;
     Mentre, gonfiando al corno altra le gote,
     Va di rauchi rimbombi i campi empiendo.
     Bella di tali aspetti è l’ampia tela,
     Che il talamo regale adorna e vela.

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44Poichè la gioventù tessala paga
     Fu d’ammirarla, ai numi il loco diede.
     E come del mattino all’aura vaga,
     Quando l’alba di poco il Sol precede,
     Placido tremolar l’equorea plaga
     E quasi all’euro abbrividir si vede:
     Lente lente da pria muovonsi l’onde,
     E con lieto garrir bacian le sponde;

45Ma se più cresce il vento e il mare investe,
     S’incalzan più e più, sorgono i flutti,
     E lungi alzando le spumose creste,
     D’un purpureo color balenan tutti;
     I Tessali così con orme leste
     Si son già fuori della reggia addutti,
     E movendo qua e là per via diversa,
     Al suo borgo, al suo tetto, ognun si versa.

46Primo dal Pelio, quando ei fûr partiti,
     Chiron, recando agresti doni, arriva:
     Quanti mai di favonio all’aure miti,
     Ai campi, agli alti monti, ai fiumi in riva
     Crea, sporge, educa April steli fioriti,
     Tanti ei commisti in vaghi mazzi univa;
     Sì che di lieti odori imbalsamata
     Sorrise tutta la magion beata.

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47Peneo vien dopo, che l’amena valle
     Abbandonò di Tempe, a cui solenne
     Dan le selve imminenti ombra a le spalle,
     E c’ha dai sacri balli onor perenne.
     Platani ombrosi e alteri faggi dalle
     Radici evulsi egli a recar qui venne;
     Nè il cipresso e l’allor ch’erge la fronte
     Manca, nè quei che piange arso Fetonte.

48E perchè l’atrio abbia di fronde un velo,
     Folti dintorno alla magion li assetta.
     Vien poi Prometeo, che dell’arduo zelo
     Il fio pagò su la caucasea vetta,
     Quando sospeso all’alte balze anelo
     Sentì delle catene aspre la stretta;
     Passò stagion, ma della pena acerba
     Scemati alquanto i segni antichi ei serba.

49Il padre degli Dei dal ciel poi giunge
     Con la consorte santa e la felice
     Prole, te sol, Febo, lasciando lunge
     E l’unica dell’Idro abitatrice:
     Però che desiderio alcun non punge
     Nè te, nè lei cui fu Latona altrice,
     Di venir su la terra, e l’imeneo
     Concelebrar di Teti e di Pelèo.

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50All’ampie mense d’ogni cibo piene
     Siedon gli Dei sui nivei sogli, intanto
     Che tentennando il corpo in moto lene
     Sciolgon le Parche veritiere il canto.
     Fin al piè l’egre membra avvolte tiene
     Bianco e di rossa lista ornato un manto;
     Nivee sul capo antico hanno le bende;
     La man di rito all’opra eterna attende.

51Regge la manca la vellosa rocca,
     Trae l’altra or con dita alte il fil diffuso,
     Or col pollice in giù torcendo scocca
     Librato in aria in largo giro il fuso;
     E ad ora ad ora eguaglian con la bocca,
     E assottigliano il fil, siccome è l’uso;
     E i bioccoli, che fean l’opera scabra,
     Qua e là s’attaccan su l’arsicce labra.

52Anzi ai lor piedi in viminei cestelli
     La molle e bianca lana è custodita;
     E mentre che così filano i velli,
     Suona la voce lor chiara e spedita:
     Parlano i fati ne’ lor canti belli
     Ch’avranno al mondo imperitura vita,
     E che giammai, finchè s’aggiri l’anno,
     Popol nessuno accuserà d’inganno.

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53“Tu che a difesa dell’ematia gente
     Degli avi le virtù crescendo vai,
     E di tua nobiltà segno eccellente
     Darai nel figlio, onde più chiaro andrai,
     Quest’oracol verace accogli in mente,
     Che le tre suore a te schiudono omai;
     E voi che i fati insiem col fil traete,
     Correte, o fusi, a trarre il fil correte.

54Già, desio di mariti, Espero splende,
     Già viene a te col lieto astro la sposa,
     E l’anima, che a lei paga s’arrende,
     T’inonda della sua luce amorosa:
     Ecco, le braccia tenere protende,
     Ed intorno al tuo gran collo le posa;
     E unir vuol teco sul guanciale istesso
     I sonni languidetti in lungo amplesso.

55Qual tetto accolse mai, qual fido amore
     Legò, Teti e Pelèo, due pari a voi?
     Da voi verrà chi non saprà terrore,
     Achille nascerà fior degli eroi;
     Che dal petto fia noto in suo valore
     E non dal tergo agl’inimici suoi;
     E tanto avrà nel corso agili i nervi,
     Che il piè fulmineo vincerà dei cervi.

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56Nessun guerriero in sua virtù securo
     Del Pelide sfidare osi la mano,
     Allor che nel decenne assedio duro
     Il frigio suol berà sangue trojano,
     E il nipote di Pelope spergiuro
     Adeguerà le troiche mura al piano.
     Su, voi che i fati insiem col fil traete,
     Correte, o fusi, a trarre il fil correte.

57Il suo valore, ogni sua chiara impresa
     Su’ morti figli le madri diranno,
     Quando, il crin bianco tra la polve, offesa
     Con l’egre palme al sen vizzo faranno.
     Siccome il falciator per la distesa
     Bionda de’ campi, allor che ferve l’anno,
     Mietendo atterra il denso grano, Achille
     Prostrerà i Troj col ferro infesto a mille.

58Di sua virtù, del poter suo stupendo
     Sarà del Xanto testimonio il flutto,
     Che al rapido Ellesponto alto volgendo
     Avrà il cammin d’uccisi corpi ostrutto,
     E nella mora dell’eccidio orrendo,
     Ecco, diventerà tiepido tutto.
     Su, voi che i fati insiem col fil traete,
     Correte, o fusi, a trarre il fil correte.

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59E dell’estinto attesterà la possa
     La vergine da lui prima rapita,
     Che all’eccelso suo tumulo percossa
     Le nivee lascerà membra e la vita;
     Quando, le mole delle rocche scossa,
     Che intorno ad Ilio avea Nettuno ordita,
     Gli Achei già stanchi della lunga guerra
     Si verseran nella dardania terra.

60L’eminente sepolcro allor bagnato
     Fia del sangue gentil di Polissena:
     Come vittima suol, cui ben temprato
     Ancipite coltel subito svena,
     Ella ad un tratto il corpo inginocchiato
     Mozzo abbandonerà sopra l’arena.
     Su, voi che i fati insiem col fil traete,
     Correte, o fusi, a trarre il fil correte.

61Su dunque, o sposi: il desiderio ardente
     Sia dell’anime vostre alfin compito;
     Mescete i baci, il giovane fervente
     La sposa accolga con felice rito;
     Sia la divina giovane fiorente
     Concessa alfine al cupido marito;
     E voi che i fati insiem col fil traete,
     Correte, o fusi, a trarre il fil correte.

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62Cinger lei non potrà più la nutrice
     Del solito monile al novo giorno;
     Nè tremerà l’afflitta genitrice,
     Che la discordia del nuzial soggiorno
     Sperar non le conceda una felice
     Corona di nepoti a lei d’intorno.
     Su, voi che i fati insiem col fil traete,
     Correte, o fusi, a trarre il fil correte.”

63I fausti vaticinj erano questi,
     Che le Parche esprimean dal divin petto,
     Di presenza a Pelèo: giacchè i Celesti
     Scender pria degli eroi soleano al tetto,
     E gli occhi dei mortali ancora onesti
     Bear talora del lor santo aspetto,
     Quando la pia religion primiera
     Dalla terra cacciata anco non era.

64E spesso il padre degli Dei, venuto
     Quaggiù nell’annual festa a lui cara,
     Nello splendido suo tempio seduto
     Cento buoj cader vide appiè dell’ara;
     Spesso là del Parnaso al giogo irsuto
     Scorrazzando venia Libero, e a gara
     Con alte grida e chiome all’aure erranti
     Infuriavan l’uvide Baccanti

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65Tutto allora di Delfo, ad incontrare
     Il dio, correa, premeasi il popol folto,
     E gongolando nel fumante altare
     Era tosto il divino ospite accolto.
     Spesso apparia, tra le funeste gare,
     Di Marte, ad aizzar gli uomini, il volto;
     E la Rammusia vergine scendea
     Sovente e del Triton ratto la dea.

66Ma poi che l’empietà la terra bebbe,
     E cacciata dai cori avidi in bando
     Errò Giustizia, ed il fratel cor ebbe
     Nel sangue del fratel tingere il brando;
     Poi che morire i figli, e non gl’increbbe,
     Vide il padre, anzi cupido, agognando
     Coglier libero il fior d’altra consorte,
     Del suo primo figliuol bramò la morte,

67Poi che contaminando empia i penati
     La madre scellerata al figlio ignaro
     Si soppose, e nei petti infuriati
     Giusto ed ingiusto insiem confusi andâro;
     D’allor gli Dei più non si son degnati
     A noi volger la mente, e sotto al chiaro
     Sol palesare il lor beato aspetto,
     Nè visitar questo reo volgo abietto.