Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Strada remota.

Pancrazio e Lindoro.

Pancrazio. Figlio, l’abbiamo fatta bella.

Lindoro.   Il dissi,
Che negata l’avria.
Pancrazio.   Negarla è il meno,
Ma i strapazzi, le ingiurie? Ah giuro al Cielo,
Sofferirle non vuò.
Lindoro.   Che s’ha da fare?
Che pensate di far?
Pancrazio.   Lascia per ora
D’amoreggiar colei; poscia col tempo
Penseremo la via di vendicarci.
Lindoro. Ah caro padre, eccomi a’ vostri piedi.
Pancrazio. T’intendo, gran tormento
Ti darebbe il lasciarla un sol momento.
Non è così?
Lindoro.   Pur troppo è ver; ma quello
Che mi tormenta più, si è la promessa
Fattagli che verranno
Da Milano le prove in quantità
Della mia simulata nobiltà.
Pancrazio. Oh grande amor di padre! Oh bel ripiego
Mi suggerisce a tuo favor la mente!
Vanne, attendimi in casa; anch’io fra poco
Vi giungerò.
Lindoro.   Ditemi, a qual partito
D’appigliarvi pensate?
Pancrazio.   Io nulla ancora
Ti voglio dir. Va via curioso. Oh quanto,

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Oh quanto riderai!

Senti... Non lo vuò dir. Va; lo saprai.
Lindoro. Di voi mi fido; attenderò impaziente,
Padre, del vostro amor sicure prove.
Al tuo favor mi raccomando, o Giove. (parte

SCENA II.

Pancrazio solo.

La voglio far; benché in età avanzata,

Ho lo spirito pronto; e saprò bene
La finzion sostener. Sì, di Lindoro,
Che marchese si finse, anch’io il marchese
Padre mi fingerò. Cangerò vesti,
Cangerò la favella, e nell’aspetto
Trasformarmi saprò. Ah se mi riesce
Di ottenere l’intento,
Se deludo il superbo, io son contento.
Ma se scoperto poi... Eh farò in modo
Che scoprir non potrà... Però può darsi...
La voce... la pronuncia... e che sarà?
Non ho timor... facciasi... eppur io sento
Un certo non so che,
Che se non è timor, qualcosa egli è.
  La faccio, o non la faccio?
  Che mi consiglia il cor?
  Sarei un asinaccio
  Mostrando aver timor.
  Sì, sì... così farò...
  Ma adagio, adagio un po’;
  Se poi... se mai... se il fato...
  Non so; son imbrogliato,
  Risolvere non so.
  Mi sento aver coraggio;

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  Desio di vendicarmi;

  Ma poi sì poco saggio
  Non son di cimentarmi;
  Son io fra il sì e il no1.

SCENA III.

Cortile del Conte.

Contessina e Gazzetta.

Contessina. Presto, parla; che vuoi?

Gazzetta.   La lassa almanco
Che chiappa un po de fiao!
Contessina.   Spicciati; offendo
L’alta mia nobiltà, se lungamente
Mi trattengo a parlar con bassa gente.
Gazzetta. Se no la vuol parlar con zente bassa,
Sotto le scarpe metterò i ponteli2,
O la vaga a parlar coi campanieli 3.
Contessina. (Che temerario!)
Gazzetta.   Se la se contenta,
Gh’ho un non so che da darghe.
Contessina. E che?
Gazzetta.   Ho paura
Che in collera la vaga.
Vorla4, patrona mia, che ghe la daga?
Contessina. (Mi fa rider costui). Ma ch’è mai questo?
Che dar mi vuoi?
Gazzetta.   Un sior tutto farina
Da portarghe el m’ha dà sta letterina.
Contessina. Una lettera a me? Non la ricuso,
Se un principe l’ha scritta;
Ma se qualche plebeo l’avrà vergata,
Ad esso tu la renderai stracciata.

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Gazzetta. Se scritta l’averà qualche plebeo,

La manderemo in Roma al Culiseo.
Contessina. È il duca d’Albanuova. Oh, non ricuso
Dell’illustre soggetto il degno foglio;
L’accetto e mi contento.

SCENA IV.

Lindoro e detti.

Lindoro. (Oh femmina bugiarda! Oh Ciel, che sento?)

Contessina. Veramente è compito. In miglior forma
Scrivere non si può. Conosce bene
Egli il merito mio.
Così finisce: Illustre Dama, addio.
Lindoro. (Ho scoperto il suo cor).
Gazzetta.   Sala l’usanza
Che corre per el mondo?
Contessina.   Io non la so.
Gazzetta. Se la permette, ghe la insegnerò.
A un omo che s’incomoda
A far el battifuogo o sia el mezzan,
Per usanza ghe va la bonaman.
Contessina. Sì, sì, ricompensarti
A suo tempo saprò; per or ti basti
L’onor del mio benigno aggradimento.
Via, baciami la mano; io mi contento.
Gazzetta. Non ricuso el favor.
Donca la man ghe baso, ma de cuor.
Contessina. Vanne, e se vedi il duca,
Digli che le sue grazie a me son care;
Che poi risponderò; che la mia fede
Ad altri ho già impegnata,
Ma che per cicisbeo non lo ricuso,
Poiché già tal di mia famiglia è l’uso.

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  Codesto consiglio

  La madre mi dà:
  Lo sposo di qua,
  L’amico di là.
  Ma poi, se pretende,
  L’amico sen va,
  Ma nulla s’offende
  La bella onestà.
  Il viver del mondo
  Sì facil non è.
  Conoscer il fondo
  Del core si de’.
  Talor dalla gente
  Sparlando si va;
  E pur innocente
  La tale sarà. (parte

SCENA V.

Gazzetta e Lindoro.

Gazzetta. La parla ben, la parla ben da seno.

Lindoro. L’ira più non raffreno.
Tu, mezzano briccone,
Tu le lettere porti alla contessa?
Gazzetta. Cossa voleu saver, sior canapiolo5,
Sior scartozzo de pevere muschià6?
Via, cavève de qua, se no ve zuro,
Che ve batto la panza a mo tamburo.
Lindoro. Ah temerario, a me? (mette mano
Gazzetta.   Se catteremo.
Voi su la schena scavezzarte7 un remo. (parte

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SCENA VI.

Lindoro solo.

Sempre non fuggirai. Ma l’ira mia

Non è contro costui. L’empia, l’infida,
Mi sta sul cor. Come del cicisbeo
Si provvede così pria del marito?
Soffra chi vuol; soffrirlo non vogl’io.
No, non la voglio più. Col padre unito
(Di cui mi piacque l’invenzion bizzarra)
Vendicarmi vogl’io de’ torti miei.
Oh sesso femminil, quant’empio sei!
  Stolto chi crede
  Di donna al core,
  Non serba fede,
  Non sente amore.
  Ditelo, amanti,
  Non è così?
  Finge d’amare,
  Ma cangia poi
  Gli affetti suoi,
  Come si cangia
  La notte e il dì.

SCENA VII.

Il Conte, poi Gazzetta.

Conte. Camerieri, staffieri, cuochi, sguatteri,

Tutto in ordin sia posto;
S’attende in questo giorno da Milano
Il celebre marchese Cavromano8.
Or sì ch’io son contento

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Di dar la contessina al marchesino,

Ora che vien dal proprio suo paese
A dimandarla il genitor marchese
Gazzetta. Lustrissimo patron, allegramente.
Conte. Che c’è di nuovo?
Gazzetta.   Forestieri.
Conte.   È forse
Del marchese Lindoro il genitore?
Gazzetta. Credo de sì.
Conte.   È in gondola9?
Gazzetta.   In burchiello
Cargo da poppe a prova10
Con tanti intrighi11 e tanti,
Che una barca la par de comedianti.
Conte. È lui senz’altro. Vanne tu, Gazzetta,
Apri tosto la riva.
Fa che introdotto sia.
Gazzetta. Ghe mancava de più st’altra caia12. (parte

SCENA VIII.

Il Conte e Servi; poi Pancrazio, finto Marchese, con seguito.

Conte. Olà, servi, venite;

Ite incontro al’ marchese,
Fategli riverenza, ed a lui dite,
Che essendo titolato,
Io lo faccio introdur senz’anticamera.
Ora in questo paese
Si vedrà chi son io,
E qual si tratti un cavalier par mio.
Pancrazio. Al conte Baccellon Parabolano
Or s’inchina il marchese Cavromano.

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Conte. Oh degno sol13, cui d’umiliarsi or degni

Il conte Baccellon Parabolano;
A voi m’inchino, e datemi la mano.
Pancrazio. Mano degna di stringere uno scettro.
Conte. Dite, marchese mio, come si parla
In Milano di noi?
Pancrazio. Non passa giorno,
Che per quella città
Non si esalti la vostra nobiltà.
Ciascun parla di voi; tutto il paese
Conoscervi sospira,
Ed ogni dama ad obbedirvi aspira.
Conte. Converrà poi, ch’io dia piacere al mondo,
Ch’io mi faccia veder.
Pancrazio.   Son io venuto
Già sapete perchè. Grazie vi rendo
Dell’onor che voi fate al figlio mio.
Se sapeste quant’io
Ho faticato a superar gl’impegni,
Che tenevo in Milano; oh se sapeste14,
Conte, ve lo so dir che stupireste!
Ognun voleva apparentarsi meco.
Il marchese Busecca,
Il duca Cervellato,
Il principe Strachino,
Il cavalier Torrione,
Sino il governator di Mezzo-miglio,
Per genero volean tutti mio figlio.
Conte. E voi sceglieste me? Si vede bene
Nel vostro rubicondo almo sembiante,
Che della nobiltà voi siete amante.
Pancrazio. Amo li pari miei. So che voi siete
Di più titoli adorno.
Io per un anno intero

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Un titolo mostrar posso ogni giorno.

Conte. Poffar bacco baccon, quest’è ben molto!
Pancrazio. Vi dico il ver, non son mendace o stolto.
Olà, prendi, Salame,
Aprimi quel baullo, e qua mi reca
Li privilegi miei.
Conte. Non s’incomodi, no; lo credo a lei.
Pancrazio. Non sono un impostor. Mirate qua:
L’arbore è questo di mia nobiltà.
Ecco l’autor del ceppo mio: Dindione,
Re de’ galli e galline,
Da cui per linea retta anch’io discendo;
Sovra il regno degli ovi anch’io pretendo.
Conte. E con ragion.
Pancrazio.   Ecco il mio marchesato
Fra cavoli e verzotti situato.
Questa qui è una contea
Ereditata da una dama ebrea.
E questo è un prencipato,
Il di cui feudatario fu appiccato.
Mirate quattro titoli in un foglio:
Conte, duca, marchese e cavaliero.
Ecco li quattro stemmi:
Un cane, un mulo, un gatto ed un braghiero.
Conte. Anche un braghiero?
Pancrazio.   Sì, vi pare strano?
Mirate qui quest’altro marchesato
Ch’ha per arma le corna d’un castrato.
E poi volete in corto
Veder ciò ch’io possiedo? Ecco raccolto
In questa breve carta il poco e il molto:
Trecento mila campi,
Che rendon cadaun anno
Trenta e più mila scudi sol di paglia,
Settecento villaggi all’ombelico,

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Quattro provincie intere,

In luogo che si chiama il precipizio,
E ventisei contadi all’orifizio.
Conte. Non voglio sentir altro. Son contento,
Vado a chiamar la contessina: io voglio
Recare ancora a voi
L’onor di rimirar i lumi suoi.
Pancrazio. S’è bella come voi, sarà bellissima,
E se serena in volto
Come voi siete, sarà serenissima.
Conte. Bella, bella non è, ma può passare.
È vezzosa, è galante e sa ben fare.
  Ha un certo brio.
  Che so ben io...
  La vederete,
  Vi piacerà.
  Ma quando poi
  Non piaccia a voi,
  Al figlio vostro
  Piacer dovrà. (parte

SCENA IX.

Pancrazio, poi la Contessina.

Pancrazio. Se l’ha bevuta il conte; oh bene, oh bene.

Pancrazio, a noi: la contessina or viene.
Contessina. Riverente m’inchino
All’illustre marchese Cavromano.
Pancrazio. Oh, oh! bacio la mano
Alla mia contessina,
A quella che in briev’ora
La sorte avrà di divenir mia nuora.
Contessina. Sì, mia sorte sarà. Ma vostro figlio,
Sendo meco accoppiato,
Potrà anch’egli chiamarsi fortunato.

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Pancrazio. Da questo matrimonio,

In cui felicità non manca alcuna,
Vedrem ripartorita la fortuna.
Contessina. Nobilissimo mio suocero amato,
Ditemi in cortesia,
Come ben vi trattò sì lungo viaggio?
Pancrazio. Io venni a mio bell’agio.
Stavo in una carrozza
In cui v’era il mio letto,
La poltrona, la tavola, il scrittorio15,
La credenza, il cammin, la tavoletta,
E con rispetto ancora la seggetta.
Contessina. Era un bel carrozzone!
Pancrazio.   Era tirato,
Sappia, signora mia,
Da sessanta cavalli d’Ungheria.
Contessina. Come fece a passar per tante strade,
Anguste e disastrose?
Pancrazio. Ho fatto delle cose prodigiose.
A forza d’acquavite ho rotto i monti,
Ho fatto far dei ponti;
E gli alberi tagliati, io non v’inganno,
Potrian scaldar cento famiglie un anno.
Contessina. Gran cose in verità!
Pancrazio.   Tutto s’ottiene
A forza di denaro.
Io non son uomo avaro:
Per farmi voler ben dalle persone,
Ogn’anno getterò più d’un milione.
Contessina. (Egli è ricco sfondato). Ecco, mirate ’
Il marchesin che arriva.
Pancrazio.   Egli d’Europa
È il cavalier più ricco, e non lo passa,

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Nei tesori serbati alle sue mani,

Altro che il gran signor degli Ottomani.
Contessina. (Oh miei felici amori,
Mentre a parte sarò de’ suoi tesori!)

SCENA X.

Lindoro e detti.

Lindoro. Marchese padre.

Pancrazio.   Marchesino figlio.
Lindoro. Che siate ben venuto.
Pancrazio. Più bello sei da che non ti ho veduto.
Contessina. Non degnate mirarmi?
Lindoro.   Eh mia signora,
Se lo sposo vi reca affanno o tedio,
Il duca cicisbeo porga il rimedio.
Pancrazio. Oh questa è bella!
Contessina.   Come? Vi sdegnate,
Perchè di cicisbeo m’ho proveduto?
Lindoro. Di cicisbeo non so, nè d’altra cosa;
So ch’io voglio esser sol, signora sposa.
Pancrazio. (Fingi, pazienta un poco,
Fin che finisca il gioco).
Contessina.   E che parlate,
Signori, fra di voi?.
Pancrazio. Consolo il figlio negli affanni suoi.
Ah, marchesino, osserva
Nella tua contessina
A te quale bellezza il Ciel destina:
Che volto, che maestà, che ciglio altero!
È degna d’un impero.
Dal suo fastoso aspetto
L’alta sua nobiltà si scorge e vede.
(Dico per minchionarla, e non s’avvede).

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Contessina.   Marchese, mi onora

  Con troppa bontà.
Pancrazio.   Perdoni, signora,
  Già il vero si sa.
Lindoro.   Scopersi a buon’ora
  La sua infedeltà.
Contessina.   Guardate, non parla,
  Sdegnato è con me.
Pancrazio.   Ingrato, sdegnarla,
  Mio figlio, perchè?
Contessina.   Mio caro tu sei.
Lindoro.   Non vuò cicisbei.
  Un uomo geloso
(a tre   Riposo - non ha.
Pancrazio.   Codesto è un intrico.
Lindoro.   Lo spiego, lo dico,
  Che solo esser voglio.
Pancrazio.   Codesto è un imbroglio.
Contessina.   Un’alma ben nata
  Sospetto non dà.
Lindoro.   Signora garbata,
  Nol so in verità.


Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Zatta: fra il sì ed il no.
  2. Puntelli.
  3. Campanili.
  4. Fenzo e Tevernin: vuola.
  5. Uomo da nulla: vol. I, 195 e II 195, 144, 206, 436. Canapiòlo è damerino: v. Boerio.
  6. Cartoccio di pepe muschiato, detto per disprezzo, di giovane vano e da nulla: voi. II, 144 e Boerio.
  7. Spezzarti.
  8. Cavroman, "carne di castrato o di capretto cotta in umido": Boario.
  9. Zatta: Ch’è in gondola?
  10. Dalla poppa alla prora.
  11. Arredi ingombranti: Boerio.
  12. Comunemente spilorcio; ma anche significa cosa vile (v. Splegazion in fine al t. III del Bertoldo di G. Pichi, Padova, 1747), rifiuto (vol. XVIII, 424. n. e; V. Rossi, Lettere di A. Calmo, Torino, 1888, p. 468; e Boerio).
  13. Nell’ed. Fenzo è stampato con la maiuscola.
  14. Zatta: se il sapeste.
  15. Zatta: e scrittojo.