Atto V

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Atto IV
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ATTO V.

SCENA I.

Capitano de birri, Forca, Alessandro, Pirino, Panfago.

Capitano. Eccoci qui apparecchiati a servirvi.

Forca. Or ponetevi qui in agguato; e passando quel furfante, lo pigliarete e strascinatelo in prigione.

Pirino. Ecco Alessandro. La cosa va bene.

Forca. Tolto che voi l’arete, andremo in casa sua, ché quivi troveremo le vesti e le robbe che ha rubate, e le porteremo in Vicaria.

Capitano. Cosí faremo.

Forca. Eccolo che giá viene.

Panfago. Quel maledetto pazzo ha mancato poco a strangolarmi: ho passato un gran pericolo.

Forca. (In un maggior incorrerai).

Panfago. Son stato tutto oggi in travaglio, e non ho potuto tòrre un maledetto boccone.

Forca. (Via piú gran travaglio ti sta apparecchiato, e non cenerai per questa notte, ché dormirai in un criminale).

Panfago. Quel dottoraccio sta arrabbiato, ché non ha trovato la sua innamorata: né ha cenato egli né ha fatto cenar me.

Forca. O voi, togliete questo ladro traditore.

Panfago. Io ladro, eh? voi m’avete rubbato il pasto, e io sono il ladro! Che volete da me?

Forca. Lo saprai quando starai attaccato alla corda, e il confessarai a tuo marcio dispetto.

Panfago. Lasciate le mani voi: perché mi ligate?

Alessandro. Legatelo bene che non vi scappi; ché non è questa la prima volta che ha patiti simili affronti. Vuoi tu [p. 175 modifica]negar, ladronaccio, che non sia entrato in casa mia, rubbatemi certe vesti da raguseo d’un mio amico, quelle di uno schiavo e molte cose da mangiare, come provature, salcicciotti e barili di malvaggia?

Panfago. Quelle vesti con le quali v’ho servito oggi e che voi mi prestaste?

Alessandro. Io non so chi tu sia, e non t’ho visto fin ora: questi sono i testimoni che ti han visto entrare in casa mia, rubbarle e portarle via.

Panfago. Ed è questo atto da gentiluomo? Cosí vi sète concertati con Forca, per vendicarvi dell’offesa che v’ho fatta.

Alessandro. Che offesa? Capitano, ecco la sua casa: voi lo serrate qui ligato; e voi altri entrate e cercate la casa, ché le trovarete, se non l’ará sbalzate in altra parte.

Panfago. O Dio, che cosa avete inventato contro di me! Troppo acre vendetta per sí picciola offesa.

Alessandro. Che vendetta, ladronaccio? pensi con le tue paroline scappare ch’oggi il boia non ti abbia a far una pavana senza suoni sovra le spalle?

Forca. Ecco le vesti, ecco le robbe toltemi! cosí, furfantacelo, s’entra nelle case di gentiluomini e si vuotano le casse? Su, strascinatelo in Vicaria.

Panfago. O Dio, lasciatemi tor prima un bicchiero di vino, ché la gola mi sta tanto asciutta che non ne può uscir parola.

Forca. Te la stringerá il capestro, la gola.

Panfago. O gola, mi farai morir appiccato per la gola.

Alessandro. Su, caminate, andate via.

Panfago. Vorrei sapere il vostro disegno, io.

Alessandro. Il nostro disegno? non lasciarti mai finché tu non muoia appiccato.

Panfago. Merito questo io per avervi cosí ben servito?

Alessandro. Non si trova gastigo che basti a meritar la tua ladreria. Capitano, di grazia, fatelo strascinare, ch’io mi muoio di voglia di vederlo appicato presto.

Panfago. Oimè, oimè, perché con tanta fretta?

Alessandro. Perché cosí meritano i pari tuoi. [p. 176 modifica]

SCENA II.

Raguseo, Mangone, Isoco.

Raguseo. Io non so che hai tu meco né che cerchi da me: che sai tu chi sia io, se questa è la prima volta che pongo il piede in questa terra? e tu come una infernal furia mi persegui!

Mangone. Vo’ che mi restituisca la mia robba, poiché per tuo conto io son stato miseramente assassinato.

Raguseo. O che tu sei infernetichito o devi star ubbriaco, poiché cerchi da un uomo che mai vedesti, che ti restituisca la tua robba.

Mangone. Io non ho visto te, ma sí ben il tuo fattore che, vendutomi un schiavo in tuo nome, m’ha rubbata la schiava mia.

Raguseo. Io non ho fattori, ma disfattori sí bene; e il fattore servo e mastro di casa e padron della nave son io stesso.

Mangone. Tanto è: egli mandatomi da te venne a cercarmi a casa, con dir che volevate tener conto meco di vendere e comprar schiavi.

Raguseo. Come si chiamava quell’uomo?

Mangone. Maltivenga.

Raguseo. Mal ti venga e mille cancheri e mille ruine!

Mangone. E non contento di avermi rubbata la mia schiava, per svillaneggiarmi mi mandasti un presente pieno di furfanterie, con dirmi ch’eran le miglior robbe di Raguggia.

Raguseo. Le robbe di Raguggia son buone: e stimo che le robbe di Napoli, come tu sai, sieno piene di furfantane e di sporchezze; e se tutti i napolitani sono come tu sei, dal cattivo saggio che me ne dái, son uomo da tornarmene in nave or ora, far vela e girmene all’Indie nuove, per non aver a far con simili uomini.

Mangone. Qui in Napoli avemo buona ragione.

Raguseo. A me par che ve ne sia molto poca; perché tu mi richiedi di cose senza ragione, mi molesti con poca ragione e mi provochi a ira con molta ragione. [p. 177 modifica]

Mangone. Oh, seria bella certo, ch’essendo tu solo e forassero, senza aver alcuno per te, volessi vincer me che ho parenti e amici nella mia terra.

Raguseo. Dimmi, ch’è l’arte tua?

Mangone. Comprare schiavi e schiave belle e venderle poi a’ giovani che se n’innamorano.

Raguseo. Come se dicessi ruffiano.

Mangone. Come se tu lo dicessi e io ci fussi. Non mi vergogno dell’arte mia; ma qual arte è la tua?

Raguseo. Di corseggiar mari e lidi de’ nemici e andar facendo prede.

Mangone. Come si dicessi un spogliamari, saccheggialidi, cacciator d’uomini; come si dicessi un ladro publico.

Raguseo. Piacesse a Dio che il mar ben spesso non spogliasse e rubasse me!

Mangone. Or tu che osi rubar i lidi e i mari e gli stessi ladri, hai osato rubar ancor a me.

Raguseo. O ruffiano, lassemi stare.

Mangone. O ladro de’ ladri publichi, tornami quel che m’hai rubato.

Raguseo. Un corsaro si chiama soldato e non ladro.

Mangone. Tu sei un di quei soldati che non dái batterie se non alle case private e alle porte delle botteghe.

Raguseo. O fussi incontrato piú tosto con la nave in un scoglio che in costui!

Mangone. O fussi venuto piú tosto in Napoli un diavolo che tu! Ma qui arai condegno castigo delle tue opere, che vendi i cristiani per turchi e per mori.

Raguseo. E tu fai peggio.

Mangone. Qui ti saranno scontati i tuoi ladronecci.

Raguseo. E a te le tue poltronerie.

Mangone. E come un publico ladro morirai nell’aria publica.

Raguseo. E tu per il tuo mestiero nel foco.

Mangone. E tu che vai pescando gli uomini per lo mare, sarai pescato dal mare.

Raguseo. E tu lapidato da’ giovani che rovini. [p. 178 modifica]

Mangone. E se pur il mar ti rifiuta per un cattivo guadagno, un giorno i turchi ne faranno vendetta per me, ché sarai impalato.

Raguseo. Ed il boia la fará per me, ché sarai arrostito.

Mangone. Mi pensava aver fatto un gran guadagno, che cotal mercatante fusse venuto ad alloggiare in casa mia: bella mercanzia che hai portata in Napoli!

Raguseo. Ci ho portata una gran mercanzia di legne; e se le cerchi, te ne darò a buon mercato quante ne cerchi.

Mangone. Orsú, vieni innanzi al Reggente.

Raguseo. Tu cerchi briga e n’arai.

Mangone. Se non vieni di bona voglia, ti strascinarò a forza.

Raguseo. Dubito che lo strascinato sarai tu.

Isoco. Io son stato tacito insino adesso, stimando che la tua importunitá avesse pur a far qualche fine; ma veggio che sei soverchiamente temerario, e dubito che non facci temerario ancor me. Ma forse non v’intendete l’un l’altro.

Mangone. La ragione che ho, e l’importanza del fatto che importa cinquecento ducati, faranno o che io uccida costui o che sia ucciso da lui, perché non è cosa che ne possa passare.

Isoco. Che costui non sia stato mai piú in Napoli e questa la prima volta che sia sbarcato di nave, ne son buon testimone.

Mangone. O che testimone! Mi venne un uomo da parte di costui e mi chiamò per nome — Mangone! — e dissemi: — Poiché sei mercadante di schiavi, il mio padron Rastello Fallatutti di Monteladrone...

Raguseo. Menti per la gola, ché rastello di Monteladrone sei tu!

Isoco. Lascia dire.

Mangone. ... ne ha portato una nave, e si vuol accomodar teco.

Isoco. Férmati, di grazia. Tu sei colui che vendi schiavi e schiave, che ti chiami Mangone?

Mangone. Io son: mal per me!

Isoco. Lasciamo il primo e cominciamo un altro ragionamento piú importante. Son d’intorno a tre anni che certi [p. 179 modifica]uscocchi depredando i lidi della Schiavonia, da una villa dove io abitava mi tolsero una giovane bellissima; e mi fu riferito che la vendero in Napoli per ducento ducati ad un mercadante di femine, detto Mangone.

Mangone. È vero; e si chiama Melitea.

Isoco. Non, no: quella si chiamava Alcesia.

Mangone. Ho inteso ben dir da lei che si chiamava Alcesia; ma allora che la comprai, si chiamava Melitea.

Isoco. Che n’è di questa giovane?

Mangone. Di questa giovane ragioniamo ora, che sotto nome di costui m’è stata sbalzata da casa.

Isoco. Sappi che quella Melitea, che tu dici, è donna libera e gentildonna cristiana e non schiava; è figlia di un napolitano molto ricco e importante.

Mangone. Fusse alcuna altra trappola ordita tra voi, per rubbarmi alcuna altra cosa?

Isoco. Sappi che a questo effetto son venuto qui in Napoli, per saper nuova di suo padre, se sia vivo o morto; e qui non son per tòrti alcuna cosa, anzi per giovarti: ché ritrovandosi lei e suo padre, sarai per averne una buona mancia. Ma, di grazia, sapete voi s’ella si ricorda del nome di suo padre?

Mangone. Di suo padre no, ma ben d’un suo balio detto Isoco, e d’una sua balia detta Galasia.

Isoco. Io son Isoco, e mia moglie, giá morta, era detta Galasia. Ma oh, piaccia a Dio ch’essendo venuto qui per un fatto che non pensava espedirlo in un anno, lo spedissi in un giorno e liberassi l’anima di mia moglie e la mia da cosí fatta angoscia! Io vo’ venir teco per saper nuova di costei, e ritrovata, so che ti sará di non poco utile.

Mangone. Pur che mi sia utile, eccomi pronto a far quanto comandi.

Isoco. Di grazia, lasciamo il padron della nave che vada per i suoi affari, ché quando saprai ch’egli abbia errato in alcuna cosa di quel che ti duoli di lui, io voglio rifar il danno.

Raguseo. Isoco, a dio. [p. 180 modifica]

SCENA III.

Dottore, Mangone, Isoco.

Dottore. Mangone, hai saputa alcuna novella di Melitea?

Mangone. Sí bene, anzi di cose che voi non sapete.

Dottore. È dunque in poter di Pirino?

Mangone. Dico altro che voi pensate.

Dottore. Che cosa dunque?

Mangone. Melitea è libera e gentildonna.

Dottore. Che non sia qualche nuovo inganno ordito da Forca, per schernir me dello amore e del desiderio di aver figliuoli?

Mangone. L’uomo che qui vedete, dice ch’è napolitana, figlia di uomo nobile e di gran qualitade.

Dottore. Certo che m’è carissimo, ch’essendo di buon legnaggio e avendola per moglie, arò meno reprensori; e se per rispetto del mondo faceva prima resistenza alle mie voglie, or le farò correre a tutto freno. Gentiluomo, vi prego a narrarmi quanto sapete di lei.

Isoco. Dico che questa giovane fu rapita dalla sua balia e portata in Raguggia sua patria. La cagion della rapina fu che, nascendo la bambina, morí sua madre nel parto; e restando la balia col padre in casa, o che si fusse innamorato di lei o che fusse intemperante di sua propria natura, la ricercò piú volte dell’onor suo. Ed avendogli ella piú volte detto che nel fatto dell’onor non volea esser molestata in conto veruno, ché altrimente si partirebbe, ed egli non restando di noiarla, non s’arrestò di quanto l’avea minacciato: onde, per fuggir gli disonesti assalti del padrone, se ne fuggí di casa sua e se ne venne con la bambina in Raguggia, dove dimorò tre anni. Abitando in un suo podere alla costiera della marina, un vassello de scocchi la rubbò e la vendé qui in Napoli ad uno mercatante di schiave, che si chiama Mangone.

Dottore. Come si chiamava la balia?

Isoco. Galasia. [p. 181 modifica]

Dottore. Galasia? oimè, che dici? e può esser questo? si ricorda la fanciulla del nome di suo padre e di sua madre?

Isoco. La fanciulla non se lo poteva ricordare, ché non giongeva a duo anni. Ma io l’ho inteso dir mille volte da Galasia che la madre si chiamava Brianna e il padre il dottor Carisio.

Dottore. O Dio, che intendo? son desto o sogno? Ma tu come sai questo? a che effetto sei venuto qui in Napoli?

Isoco. Io lo so, ché quando Galasia gionse in Raguggia, si maritò meco; e siam vissuti insieme dodici anni, pensandomi sempre che questa fanciulla fusse sua figlia, d’un suo primo marito. I mesi a dietro venne a morte; e chiamatomi, mi pregò caldamente — e ne volse la fede per iscarico della sua conscienza — che fusse venuto in Napoli e cercato se fusse vivo quel dottore, e raccontargli il suo furto, accioché n’andasse scarica e contenta all’altra vita; la qual cosa le ho promesso e osservato.

Dottore. O Dio, non potrei esser oggi il piú felice uomo del mondo! Dimmi, di grazia, che effigie avea quella fanciulla?

Isoco. Era di viso un poco lunghetto, di guardo austero ma dolce, di carnagione mescolata di rosso e latte, di capelli com’io, di maniere assai signorili; e mostrava in tutte le cose esser di sangue nobilissimo, di animo generoso e d’ingegno vivace.

Dottore. Questa è dessa, certissimo; ché i segni che mostrava in quelle piccole membra, davan presagio che nella compita etá non dovesse riuscir altrimente che le sue fattezze. Avea ella alcun segnale nella persona?

Isoco. Una macchia rossa nella mammella sinistra come di un vovo; e diceva la balia che fu una gola che venne a sua madre di quei frutti, e venne a caso a toccarsi alla mammella.

Dottore. Questa è dessa: non bisogna piú dubitare; e io son quel dottor Carisio che tu dici. Ma dimmi, come è stata allevata la fanciulla?

Isoco. Questo posso ben giurarvi che, se ben in povera casa come la nostra, non avria potuto esser meglio allevata nella vostra istessa: appena ave avuto nella mia casa quella libertá che si conveniva all’etá fanciullesca; ed ella si mostrò sempre gelosissima e rigida defenditrice dell’onor suo. [p. 182 modifica]

Dottore. La rapina, la povertá, la lontananza da’ suoi parenti, la violenza de’ corsari liberano la sua volontá d’ogni colpa di disonestá, e massime in lei che per la sua soverchia bellezza chiama a sé la violenza.

Isoco. Non dite cosí; ché la generositá dello aspetto, la maestá della bellezza sforza ancor le genti barbare a non cercarle cosa contra il suo volere: e io vi giuro — poiché mi fu referito — che i corsari che me la ruborno, la vendero come la tolsero da mia casa, con speranza di cavarne piú guadagno.

Mangone. Ed io vi assicuro di questo: ch’eglino, volendomela vendere per vergine cinquanta ducati di piú, la feci veder dalle commari, ed essendomi cosí affermato, li sborsai ducento ducati; e in mia casa è stata cosí conservata come uscí dal corpo di sua madre.

Dottore. Che costumi mostrava in quella sua etá?

Isoco. Di grande animo ne’ pericoli, ardita con modestia, di nobiltá umile e onoratissima nella bellezza: in un picciol corpo un gran spirito. E sappiate che di queste arti niuno le fu maestro; che dalle fascie si portò seco simili parti da far invidia a qual si voglia principalissima gentildonna.

Dottore. Io del suo acquisto e del non macchiato fior della sua verginitá per molto stupore son fuor di me stesso. O infinita Providenza, con quanti vari accidenti hai sospesi i nostri amori! per non farci accoppiare insieme, e la sua onestá avesse pericolato con il suo padre, hai fatto che Forca e Pirino con una gentil trappola abbian schernito i miei desidèri e involatamela dal seno.

Isoco. Di grazia, fatemela vedere, che da’ segni del suo conoscermi conoscerete esser vero quanto vi ho detto.

Dottore. Su, Mangone, diasi ordine di ritrovarla: non si perda piú tempo. Ma ecco Filigenio: viene a tempo per saper nuova di suo figlio.

Isoco. Voi cercate di costei e datemi aviso di quel che sará. [p. 183 modifica]

SCENA IV.

Filigenio, Dottore, Isoco.

Filigenio. Veggio venir il dottor verso me: qualche altra burla aranno scoverta di Forca: non sará per finir tutto oggi.

Dottore. Filigenio, io vengo a ragionar di cose assai differenti dalle passate, alle quali mai non pensaste: ora non è tempo di amori, ma di compimenti di onore; e ben sapete che dove va l’onore, poco si prezza la robba e la vita insieme.

Filigenio. Evi alcuna altra terza di cambio di farmi pagare?

Dottore. Ritenetevi ne’ termini della prudenza e della creanza, e ascoltate prima, che non sapendo che abbiamo a narrare, potreste prender error per parlar troppo.

Filigenio. Evi alcuna altra cosa scoverta di mio figlio?

Dottore. Io vengo or per coprir gli errori di vostro figlio e non scoprirgli al mondo piú che sono. Sappiate che Melitea rapita da vostro figliuolo, or non è corteggiana, come stimavate, ma gentildonna libera e onorata.

Filigenio. Come può esser questo, essendo stata tanto tempo in casa di un ruffiano?

Dottore. Di cosí picciola cosa vi meravigliate? vi sono ancora delle cose maggiori. Vi dico in somma che è mia figliuola; che mi fu rapita dalla balia, sendo piccina; e or l’abbiamo riconosciuto, come poi piú minutamente restarete sodisfatto.

Filigenio. Mi rallegro della vostra ventura. Ma che cercate da me?

Dottore. Se ben non ho riconosciuta mia figlia, né so fin ora dove sia, so ben che Forca e vostro figlio l’hanno sbalzata dalla casa di Mangone. Voi sapete che ho tanta robba che posso giovar agli amici e castigar gli inimici; e chi mi toglie lei, mi toglie l’onor mio: e l’onor pone l’uomo in disperazione, e il disperato di se stesso non può aver pietá di alcuno. Son uomo da far che i suoi amori gli costino molto cari, e a voi, a Forca e a tutti i complici; e sará piú duro il vero male che [p. 184 modifica]l’apparenza del falso bene. Nelle cose importanti si conoscono i nobili da’ plebei: se faremo alla scoverta, parlerò a Sua Eccellenza, e con il braccio della giustizia, col favore degli amici e de’ parenti e de’ danari ci offenderemo tra noi, e la cosa si pubblicará; e il meglio sarebbe la secretezza possibile. Bastivi alfin questo, che son padre e son uomo onorato.

Filigenio. Per dirvi la veritá, io non so cosa alcuna de’ fatti suoi: e tanto ne so ora, quanto da voi me n’è stato referito; ché ben sapete che i figli si nascondono da’ padri nei loro amori, e noi siamo gli ultimi a sapergli. Ma che si rimedino gli errori, io lo desidero piú che voi.

Dottore. Come dunque faremo per rimediargli?

Filigenio. Ecco, ecco il secretario de’ suoi pensieri: ecco qua il domestico, il maiordomo maggiore, l’inventore e l’essecutore de’ suoi garbugli.

SCENA V.

Forca, Filigenio, Dottore, Isoco.

Forca. (Or sí che potrò ben andar a sotterrarmi vivo per non incappar nelle mani di costoro).

Filigenio. Forca, vieni a tempo: ascolta questo gentiluomo che dice.

Dottore. Forca mio, se per l’addietro t’ho odiato piú che la morte, come ostacolo de’ miei desidèri; or, come quello che mi hai tolto da illeciti amori o disoneste nozze, te ne arò obligo eterno. Sappi che Alcesia — non piú Melitea — non è schiava di Mangone, ma mia legittima figliuola, che molti anni sono mi fu rapita dalla balia, come potrai piú a lungo intenderlo da costui... .

Isoco. Quanto dice questo gentiluomo tutto è vero.

Dottore. ... Onde io sapendo certissimo che tu e Pirino me l’avete rubbata dalla casa di Mangone, e conoscendo voi l’importanza della cosa, e conoscendo parimente che non posso tormi questa macchia dell’onore se non mi sia restituita, vorrei che facesti pensiero di effettuarlo. [p. 185 modifica]

Forca. Io, in quanto Forca, son persuaso a bastanza; bisogna persuader Pirino che ve la restituisca.

Dottore. Dove è Pirino, accioché possa ragionargli?

Forca. Con Pirino non potrete ragionar altrimente; ma ragionate con me quello che desiate ragionar con lui, e fate conto ch’io sia sua mente, suo desiderio e ch’io ascolti con le sue orecchie e ch’io vi risponda con la sua lingua.

Dottore. La somma è che mi restituisca la figlia.

Forca. Ed in somma io dico ch’egli è innamorato di Melitea non di amore ordinario o sopportabile, ma di un desiderio irrefrenabile; e si privarebbe con assai piú agevolezza della vita che di lei. In somma pensate ad ogni altra cosa che a riaverla; e potete pur ferneticare e consumar il cervello a vostra posta.

Dottore. Io con la giustizia gli levarò Melitea con la vita.

Forca. L’uno e l’altra si strangolerá, e preverrá con una morte volontaria la violenta.

Dottore. Ti do podestá che s’elegga un marito, come saprá desiderarlo.

Forca. Non bisogna piú elezione, ché se l’ha eletto giá; anzi una cosa vi fo saper certissima: che né voi vedrete piú lei, né Filigenio il suo Pirino.

Dottore. Come?

Forca. Amboduo poco anzi, provisti delle cose necessarie, si sono imbarcati per fuggirsene in luogo ove di loro non si sappia mai piú novella.

Filigenio. Che cosa è quello che mi dici, Forca?

Dottore. Dunque a tempo che ho ritrovato la figlia, la perdo: e avendola non l’avrò piú mai, ed era salva quando l’avea perduta!

Forca. Egli non ha animo di comparirvi piú innanzi per vergogna, ed ella per dubbio di non tornar di nuovo nelle mani di Mangone. Da lor stessi s’han preso un volontario essiglio e vita pellegrina e vaga, e sopportar ogni incommoditá e ogni miseria, purché vivano insieme e si soddisfaccino l’un l’altro, e mostrino al mondo che i loro amori non erano fondati in vani desidèri giovanili, ma su salde leggi di santissimo matrimonio. [p. 186 modifica]

Dottore. Filigenio, io conosco che i matrimoni prima si dispongono in Cielo e poi s’esseguiscono in terra, e che invano tenta umana forza impedir quello che è ordinato lá su. A me par che sieno cosí ben accoppiati fra loro, che né io né lui né tutto il mondo l’aría potuto imaginare; e mi par ch’egli sia degno di lei, ella di lui. Io non ho altro figlio, e la mia robba è di valor di quarantamila scudi; sono nell’ultimo della mia etá e inabile alla sperata successione. Fate voi la dote al vostro figlio. Né voi potrete restarvi di apparentar meco; perché non so come meglio si possa rimediare all’acerbitá dell’ingiuria che m’ha fatto vostro figlio.

Filigenio. A cosí buon partito che mi proponete, ogni cosa ch’io rispondessi in contrario, mostrerei che fussi scemo di cervello; ed è ben ragione che avendo io comprato la moglie al mio figlio, che voi con buona dote ricompriate il mio figlio per vostra figlia: e come per l’acquisto di lei è intricato con augurio di scherno, cosí vo’ che, mentre sia vivo, l’abbia ad esser non sposo ma schiavo di vostra figlia.

Dottore. E mia figlia, perché sotto auspicio di schiava fu introdotta in vostra casa, non che nuora, ma sia perpetua vostra schiava e di vostro figliuolo: e dove si ha pensato uccellar me, ará posto l’uccello in la sua gabbia.

Filigenio. Orsú, trovinsi costoro, e questa sera medesima facciamo le nozze con reciproca sodisfazione. Forca, perché son chiari che l’uno è dell’altro e non han piú dubio che sieno separati fra loro, falli tornar da viaggio e menali a casa nostra.

Forca. Vi do la mia parola giongerli nel viaggio e far ch’or ora li veggiate qui presenti.

Dottore. Per l’amor di Dio, presto: ché non so se potrò viver tanto che li veggia.

Filigenio. Io me ne vo a casa, a porla in ordine per questa sera. [p. 187 modifica]

SCENA VI.

Dottore, Isoco.

Dottore. Or dimmi, di quelle cose che mi tolse Galasia, non ne ha serbata alcuna Alcesia per ricordo di suo padre?

Isoco. Sí bene: un anello con una fede scolpita, con certi piccioli diamantini intorno; e certi bracciali d’oro che mia moglie tolse con lei: e se l’ha ella sempre portati su’ diti, e se i corsari non gli han tolti, penso che debba avergli.

Dottore. Dimmi, avea ella mai desiderio di riveder suo padre?

Isoco. Anzi, nel mezo sempre delle sue allegrezze si risentiva e si rattristava, e con certi occulti e nascosti sospiri manifestava il dolor della perdita di suo padre e il desiderio che avea di rivederlo, e per lo piú sempre stava sommersa in una tacita malinconia.

Dottore. Dio cel perdoni! ché m’ha fatto buttar piú lacrime e piú sospiri che non ho peli adosso, non solo ogni volta che mi ricordavo le persone, ma quando io son venuto col pensiero da me stesso. Ma eccola che viene.

Isoco. Questa è Alcesia mia.

SCENA VII.

Melitea, Isoco, Dottore, Pirino, Forca.

Melitea. O padre, non a me di minor riverenza di colui che m’ha generato, perché m’hai nodrita e allevata con tante fatiche e diligenze, oh quanto mi rallegro in vederti, vedendovi a tempo quando meno sperava di rivedervi.

Isoco. O figlia cara — ché all’amore e riverenza che vi porto non so che altro nome chiamarvi, — che mi date tanta allegrezza in vedervi quanto mi deste dispiacere essendomi rapita: o che nobile aspetto, o come anco nelle miserie risplende la maestá della vostra bellezza! [p. 188 modifica]

Melitea. Siami lecito abbracciarvi con quella riverenza come mio padre: o mio caro e amato balio!

Isoco. O amata e desiata figliuola!

Melitea. O Dio, quanto presto sète fatto vecchio.

Isoco. Il tempo camina, figlia: tenetelo voi, che stia fermo, e io terrò una medesima forma. Figlia, poiché hai conosciuto il tuo balio, riconosci ora il tuo vero padre.

Dottore. Carissima figliuola, non ti ricorderesti del tuo vero nome?

Melitea. Nascendo fui rapita dalla balia; poi, con piú malvaggia fortuna, fui rapita da’ corsari, i quali mi fecero questo oltraggio che, rubbando me, mi rubbaro il mio vero nome, il quale è Alcesia.

Dottore. Dimmi, figliuola cara, non hai alcuna di quelle coselline d’oro serbate teco, che ti diè Galasia mia moglie?

Melitea. Signor mio, non ho altro che questo anello con una fede scolpita, che l’ho sempre custodito con grandissima diligenza — se pur Iddio mi avesse fatto grazia di riconoscere mio padre, — e questi bracciali.

Pirino. Moglie mia cara, perché mai prima mostrati non me l’avete?

Melitea. Sposo mio, i segni sono segni a coloro che li conoscono. Ma appresso quelli che non sanno che cosa sia, mi potrebbono piú tosto esser cagione di cattiva fama, dubitando che l’abbi per alcun ladroneccio o che alcuno innamorato me l’abbi donati.

Dottore. Pazzia sarebbe dubbitar piú che non sia mia figlia, e giá m’accorgo che allo splendor degli occhi e dalla eccellenza della bellezza, che rassomiglia a quella, quando era bambina: tu sei dessa, e il tuo aspetto è bastevole a farti conoscere che tu sei nobile.

Melitea. Gentiluomo, ecco alcuno altro segnale per lo quale possiate rendervi piú certo che sia vostra figlia.

Dottore. Figlia, giá son certificato da tutti e son vinto da tutti i segni, e finalmente mi chiamo vinto dalla di tutte cose vincitrice natura, per tirarmi nel core una insopportabile [p. 189 modifica]allegrezza. Figlia dolcissima, lascia che ti abbracci e baci, e non trattenermi un cosí dolce contento.

Melitea. Gentiluomo mio, se ben voi sète certificato che io sia vostra figlia, voglio anche io certificarmi se sète mio padre, né cerco altri segni da voi se non un solo; se sète del medesimo voler che son io, che non conviene tra padri e figli diversa volontá. Io mi trovo esser sposa, e amata da questo cavalliero senza inganni e senza simulazione, piú svisceratamente che sia stata amata donna giamai; e per rendergli guiderdone di tanto amore, l’ho amato e amo con tutto il core e tutta l’anima mia: e sapendo certissimo che ogni debito può ricever cambio e ricompenso, e solamente l’amore non può pagarsi se non con amore, me l’ho eletto per isposo. Ed essere amata da lui è la mia gloria e mia terrena beatitudine: me li sono data in tutto e per tutto, o che mi schivi o che mi batta o mi venda in man di turchi. Mi contento del suo contento; onde se voi avete la medesima volontá mia, sète mio padre, altrimente io non ho padre né madre né altra persona al mondo se non lui.

Pirino. Caro signore, con che parole poss’io corrispondere a tanta affezione, conoscendo che mi ama sovra il mio merito? qual uomo sarebbe al mondo piú ingrato di me, se non l’amassi con tutto il cuore? Da quel ponto che ci vedemmo insieme — o fusse caso o destino o che cosí fusse piaciuto a Dio, per un gran pezzo sospesi insieme, imaginandoci dove prima ci avessimo potuto vedere e riconoscerci insieme, e quando avessimo avuto insieme domestichezza; e conoscendoci fra noi l’un l’altro di merito proporzionato e l’un degno de l’altro, — ci arrossimmo insieme e insieme ci impallidimmo; e insieme chiedendo l’un a l’altro misericordia, con gli occhi pieni di lacrime e riverenti, giurammo ne’ nostri cuori di amarci fin alla morte.

Dottore. Carissimi figliuoli, se conosco l’uno e l’altro di giudicio pieno e vivace, vi conosco in questo principalmente che cosí bene ambo insieme accoppiati vi siete: onde io non son d’altra volontá che voi medesimi, ed io ho impetrato da vostro padre licenza d’ammogliarvi amboduo insieme: però abbraccio e bacio amboduo come miei carissimi figliuoli. Ma [p. 190 modifica]io non so chi abbracciar prima, cosí egualmente vi amo e desio. Solo ti priego, caro mio Pirino, ch’ami la mia figliuola come l’hai amata per lo passato.

Pirino. Se l’ho amata schiava, povera e in casa d’un ruffiano, che si può dir piú? benché dalle sue maniere e sue creanze l’ho stimata sempre nobile e onorata, or dico che se non conoscendola l’ho tanto amata, quanto debbo or amarla sapendo che è vostra figlia? E quanto m’ho imaginato di lei, tutto m’è riuscito.

Dottore. Figlia, entriamo in casa, che ivi ragionaremo piú a lungo. Forca, trova Mangone e digli che gli dono i cinquecento ducati e che la mia facoltá è tutta sua; e chiama Panfago e liberalo dalla prigionia.

Pirino. Chiama ancora Alessandro, ché venghi a riconciliarsi con mio padre e goder insieme con noi una commune allegrezza.

Forca. Farò quanto comandate.

Melitea. Forca mio, giá è tempo di riconoscerti de’ piaceri ricevuti da te.

Pirino. Farò che questa sera sia tu libero e a parte d’ogni mio bene.

Forca. Io non merito tanti favori. Spettatori, Alessandro, Panfago e Mangone verranno a noi per la porta di dietro. Voi potrete andarvene a vostro piacere; e se la comedia v’ha piaciuta come l’altre, fatele il solito segno di allegrezza.