L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo IX

Parte seconda - Capitolo IX

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO IX.


Il brutto tempo — L’ascensore idraulico — Fabbricazione del vetro e dei bicchieri — L’albero del pane — Visite frequenti al ricinto — Accrescimento del gregge — Una domanda del reporter — Coordinate esatte dell’isola Lincoln — Proposta di Pencroff.

Il tempo mutò nella prima settimana di marzo. Era stata luna piena nel principio del mese ed i calori erano sempre eccessivi. Si sentiva che l’atmosfera era impregnata d’elettricità, ed era veramente a temersi un periodo più o meno lungo di tempi burrascosi.

Infatti, il giorno 2, il tuono brontolò con estrema violenza. Soffiava il vento dall’est, e la grandine percosse direttamente la facciata del Palazzo di Granito, crepitando come mitraglia. Bisognò chiudere immediatamente la porta e le finestre, altrimenti l’interno delle camere sarebbe stato inondato.

Vedendo cadere quella gragnuola, di cui alcuni grani eran grossi come uova di colombi, Pencroff ebbe un solo pensiero, cioè che il suo campo di biade correva gravi pericoli.

E subito corse là dove le spighe cominciavano già a levare la testolina verde, e con una grossa tela riuscì [p. 97 modifica]a proteggere il suo raccolto. Fu lapidato in sua vece, ma non se ne lamentò.

Quel brutto tempo durò otto giorni, durante i quali il tuono non cessò di brontolare nelle profondità del cielo. Fra due uragani lo si udiva ancora sordamente fuor dei limiti dell’orizzonte, poi ripigliava con nuovo furore. Il cielo era solcato da baleni, e la folgore percosse molti alberi dell’isola, fra cui un enorme pino che sorgeva accanto al lago, nel lembo della foresta. Due o tre volte, anzi, il greto fu colpito dal fluido elettrico, che sciolse la sabbia e la vetrificò.

Ritrovando quei folgoriti, l’ingegnere fu tratto a credere che fosse possibile guarnire le finestre di vetri, capaci di sfidare il vento, la pioggia e la grandine.

I coloni, non avendo lavori pressanti da fare fuori di casa, approfittarono del brutto tempo per lavorar nell’interno del Palazzo di Granito, che si perfezionava e si compieva ogni giorno. L’ingegnere preparo un tornio che permise fabbricare alcuni utensili ad uso di abbigliamento o di cucina, e specialmente bottoni, la cui mancanza si faceva molto sentire.

Era pure stata preparata una rastrelliera per le armi, che erano tenute con cura estrema; gli stipetti e gli armadî non lasciavano nulla a desiderare; si segava, si piallava, si limava, si torniva, ed in tutto quel periodo di brutto tempo non s’intese che lo stridere degli utensili o il russare del tornio in risposta ai brontolii del tuono.

Mastro Jup non era stato dimenticato, ed occupava una camera in disparte vicino al magazzino generale, specie di camerino con un telajo sempre colmo di buono strame che gli conveniva a maraviglia.

— Con questo bravo Jup non si va mai in collera, ripeteva spesso Pencroff; che domestico! Non c’è pericolo che risponda impertinenze!

— È il mio allievo, diceva Nab, e sarà presto mio pari. [p. 98 modifica]

— Tuo superiore, soggiungeva ridendo il marinajo, perchè tu, Nab, parli, ed esso non parla.

Naturalmente Jup era oramai al corrente del servizio. Batteva i panni, girava lo spiedo, scopava le stanze, serviva a tavola, accatastava le legna e, cosa che faceva la delizia di Pencroff, non si coricava mai se prima non era andato a rincalzare il letto del degno marinajo.

Quanto alla salute dei membri della colonia, bipedi o bimani, quadrupedi o quadrumani, non lasciava nulla a desiderare. Con quella vita all’aria aperta, su quel suolo salubre, sotto quella zona temperata, lavorando colla testa e colle mani, essi non potevano credere che dovessero mai ammalare.

Stavano tutti a maraviglia; infatti Harbert era già cresciuto due pollici in un anno; la sua faccia diveniva più maschia; prometteva di diventare un uomo saldo tanto fisicamente quanto moralmente. D’altra parte egli approfittava, per istruirsi, di tutti i momenti d’ozio che gli lasciavano le occupazioni manuali, leggeva i pochi libri trovati nella cassa e oltre alle lezioni pratiche che ricavava dalla necessità medesima della sua condizione, trovava nell’ingegnere per le scienze, nel reporter per le lingue, dei maestri che trovavano gusto a compiere la sua educazione.

L’idea fissa dell’ingegnere era di trasmettere al giovinetto tutto quanto sapeva, d’istruirlo colla parola e coll’esempio, ed Harbert approfittava largamente delle lezioni del suo maestro.

— Se morrò, sarà lui che farà le mie veci, pensava Cyrus Smith.

La tempesta cessò verso il 9 marzo, ma il cielo rimase coperto di nugoli per tutto quell’ultimo mese dell’estate. L’atmosfera, violentemente turbata da quelle commozioni elettriche, non potè riacquistare la primitiva purezza, e ci furono invariabilmente [p. 99 modifica]pioggie e nebbie, salvo tre o quattro belle giornate che permisero escursioni d’ogni genere.

Verso quel tempo l’onagga partorì un piccino che apparteneva al medesimo sesso della madre e che si tirò su a maraviglia. Nel ricinto vi fu, nelle medesime circostanze, accrescimento del gregge dei mufloni, e già molti agnelli belavano sotto le tettoje con gran gioja di Nab e di Harbert, i quali avevano ciascuno il loro favorito tra i neonati.

Fu pure fatto un tentativo di addomesticamento dei pecari, tentativo che riuscì benissimo. Presso al cortile fu costrutto un porcile, che in breve contò molti piccini che si educavano, vale a dire s’ingrassavano per cura di Nab.

Mastro Jup, incaricato di portar loro il cibo quotidiano, lavatura di piatti, avanzi di cucina, ecc. attendeva coscienziosamente alla sua bisogna. Talvolta gli accadeva, è vero, di darsi spasso a spese dei piccoli pensionarî, tirando loro la coda; ma era malizia, non cattiveria, perchè le coduzze attortigliate lo tentavano come un trastullo, ed i suoi istinti erano quelli di un fanciulletto.

Un giorno Pencroff, discorrendo coll’ingegnere, gli ricordò una promessa che questi non aveva avuto ancora il tempo di mantenere.

— Avevate parlato d’un apparecchio che sostituirebbe le lunghe scale del Palazzo di Granito; non lo porrete voi in opera?

— Volete parlare d’un ascensore.

— Chiamatelo pure ascensore se volete, il nome non importa nulla, purchè la cosa ci porti su senza stancarci,

— Nulla di più facile, Pencroff, ma è proprio utile?

— Certo, signor Cyrus; dopo d’esserci concessi il necessario, pensiamo un po’ alle comodità. Per le persone sarà un lusso, se volete, ma per le cose è indispensabile. [p. 100 modifica]Non è per nulla comodo l’arrampicarsi su una lunga scala, quando si ha un carico grave sulle spalle.

— Ebbene, caro Pencroff, cercheremo d’accontentarvi.

— Ma non avete macchina a vostra disposizione.

— Ne faremo una.

— Una macchina a vapore?

— No, una macchina idraulica.

Ed infatti, per muovere il suo apparecchio, l’ingegnere aveva a sua disposizione la forza naturale dell’acqua, di cui poteva fruire senza gran difficoltà.

Gli bastava aumentare lo scolo della piccola derivazione fatta al lago per fornire l’acqua all’interno del Palazzo di Granito. L’orifizio aperto fra i sassi e l’erba all’estremità superiore dello sbocco fu allargato: il che produsse in fondo al corridojo una forte cascata, il cui soverchio si verso dal pozzo interno. Sotto questa cascata l’ingegnere pose un cilindro a palette che corrispondeva all’esterno con una ruota a cui era attortigliata una grossa corda che sorreggeva un paniere. A questo modo, per mezzo d’una lunga corda, che cadeva fino a terra e che permetteva di mettersi in comunicazione col motore idraulico, si poteva tirarsi su nella cesta fino alla porta del Palazzo di Granito. Fu il 17 marzo che l’ascensore venne messo in esercizio per la prima volta con soddisfazione di tutti. Quind’innanzi fardelli, legna, carbone ed i coloni medesimi furono issati con questo sistema così semplice che sostituì la scala primitiva non rimpianta da nessuno. Top più di tutti si mostrò felice di tale innovazione, perchè egli non aveva e non poteva avere la destrezza di Jup nell’arrampicarsi, e molte volte era sulle spalle di Nab o dello scimmiotto medesimo che aveva dovuto far l’ascensione al Palazzo di Granito.

Verso quel tempo Cyrus Smith volle far del vetro, [p. 101 modifica]e dovette adattare l’antico forno di vasellami al nuovo uffizio. Ciò offriva gran difficoltà, ma dopo molti tentativi infruttuosi, l’ingegnere riuscì a mettere in opera un’officina di vetri che Gedeone Spilett ed Harbert, ajutanti naturali di Cyrus Smith, non lasciarono per alcuni giorni.

Quanto alle sostanze che entrano nella composizione del vetro, sono soltanto sabbia, creta e soda (carbonato o solfato). Ora la spiaggia forniva la sabbia, la calce forniva la creta, le piante la soda, le piriti l’acido solforico, ed il suolo il carbone per scaldare il forno alla temperatura necessaria.

Cyrus Smith si trovava dunque nelle condizioni richiesto per operare. L’utensile, la cui fabbricazione offrì le maggiori difficoltà, fu la cannella del vetrajo, tubo di ferro lungo da cinque a sei piedi, che serve a raccorre con una delle estremità la materia tenuta in istato di fusione. Ma per mezzo d’una lastra di ferro, lunga e sottile, che fu rotolata come una canna da fucile, Pencroff riuscì a fabbricare quell’arnese.

Il 28 marzo il forno fu scaldato vivamente. Cento parti di sabbia, trentacinque di creta, quaranta di solfato di soda, mescolate a due o tre parti di carbone polverizzato, composero la sostanza che fu deposta nei crogiuoli di terra refrattaria. Quando la temperatura del forno l’ebbe ridotta allo stato liquido, o, per meglio dire, allo stato pastoso, Cyrus Smith raccolse colla cannella una certa quantità di questa pasta, la voltò e rivolto sopra una lastra di metallo preparata, in guisa da darle la forma necessaria per la soffiatura. Poi diede la cannella ad Harbert, dicendogli di soffiare dall’altra estremità.

— Come per fare delle bolle di sapone? domandò il giovanetto.

— Appunto.

Ed Harbert, enfiando le gote, soffiò così bene nella [p. 102 modifica]cannella, badando a farla girar di continuo, che il suo soffio dilatò la pasta. Altra pasta fu aggiunta alla prima infusione, e ne risultò una palla che misurava un piede di diametro. Allora Cyrus Smith ripigliò la cannella dalle mani di Harbert, e imprimendole un movimento di pendolo, finì coll’allungare la bolla in guisa da darle una forma cilindro conica.

L’operazione della soffiatura aveva dato un cilindro di vetro terminato da due calotte sferiche, che furono facilmente staccate per mezzo d’un ferro tagliente bagnato nell’acqua fredda. Poi collo stesso processo questo cilindro fu tagliato per lo lungo, e dopo esser stato reso malleabile, scaldandolo un’altra volta, fu disteso sopra una lastra e spianato per mezzo d’un cilindro di legno.

Bastava ripetere l’operazione per avere cinquanta vetri. Nè andò molto che le finestre del Palazzo di Granito furono guarnite di lastre diafane, non bianchissime, ma abbastanza trasparenti.

Quanto ai bicchieri ed alle bottiglie, non fu che un giuoco. Erano, del resto, accettati come venivano. Pencroff aveva domandato il favore di soffiare alla sua volta; era un diletto per lui, ma egli soffiava così forte, che i suoi prodotti pigliavano forme stravagantissime che formavano la sua ammirazione.

In una delle escursioni fatte in quel tempo, fu scoperto un nuovo albero, i cui prodotti vennero ad accrescere gli alimenti della colonia.

Cyrus Smith ed Harbert, andando a caccia, s’erano avventurati un giorno nella foresta del Far-West, sulla riva sinistra della Grazia, e, come sempre, il giovinetto faceva mille domande all’ingegnere, alle quali costui rispondeva di gran cuore. Ma avviene della caccia come d’ogni altra occupazione di quaggiù, e quando non vi si mette tutto lo zelo voluto, vi sono molte ragioni per non riuscire. Ora, siccome Cyrus [p. 103 modifica]Smith non era cacciatore, e d’altra parte Harbert parlava di chimica e di fisica, in quel giorno molti kanguri, cabiaj ed agutis passarono a tiro impunemente. Ne avvenne che, essendo già inoltrato il giorno, i due cacciatori rischiavano d’aver fatta un’escursione inutile, quando Harbert, arrestandosi e mandando un grido, esclamò:

— Ah! signor Cyrus! Vedete quell’albero?

E mostrava un arbusto meglio che un albero, perchè non si componeva che d’un ramo semplice, vestito d’una corteccia squamosa, con foglie macchiate di vene parallele.

— E che albero è questo che assomiglia ad un piccolo palmizio? domandò Cyrus Smith.

— È una cycas revoluta, di cui ho il disegno nel nostro dizionario di storia naturale.

— Ma io non vedo frutti su quest’arbusto.

— No, signor Cyrus, rispose Harbert, ma il suo tronco contiene una farina che la natura ci fornisce bella e macinata.

— È dunque l’albero da pane?

— Sì, l’albero da pane.

— Ebbene, fanciullo mio, rispose l’ingegnere, questa è una preziosa scoperta, intanto che aspettiamo il nostro raccolto di frumento. All’opera, e faccia il Cielo che non ti sia sbagliato.

Harbert non s’era sbagliato. Spezzò il ramo d’una cycas, ch’era composto d’un tessuto glandulare e conteneva una certa quantità di midollo farinaceo, attraversato da fasci legnosi, separati da anelli della medesima sostanza disposti concentricamente.

A quella fecola si mesceva un succo mucillaginoso, d’un sapore sgradevole, ma che doveva esser facile espellere colla pressione. Codesta sostanza cellulare formava una vera farina di ottima qualità, nutrientissima, e di cui una volta le leggi giapponesi proibivano l’esportazione. [p. 104 modifica]

Cyrus Smith ed Harbert, dopo aver ben studiato la parte del Far-West, in cui crescevano quelle cycas, presero punti di mira e tornarono al Palazzo di Granito a far nota la propria scoperta. Il domani i coloni andavano al raccolto, e Pencroff, sempre più innamorato dell’isola sua, diceva all’ingegnere:

— Signor Cyrus, credete voi che vi siano isole da naufraghi?

— Che volete dire?

— Voglio dire delle isole create specialmente perchè ci si possa far naufragio a dovere, in modo che i naufraghi possano sempre cavarsela per benino.

— È possibile, rispose l’ingegnere sorridendo.

— È certo, signore, ribattè Pencroff, e non è meno certo che l’isola Lincoln è una di queste.

Si tornò al Palazzo di Granito con un’ampia messe di rami di cycas. L’ingegnere preparò un torchio per estrarre il succo mucillaginoso mescolato alla fecola, ed ottenne una notevole quantità di farina che nelle mani di Nab si trasformò in ciambelle ed in pasticcini. Non era ancora il vero pane di frumento, ma vi si avvicinava.

A quel tempo pure l’onagga, le capre e le pecore del ricinto fornirono quotidianamente il latte necessario alla colonia. Il carro, o, per meglio dire, una carriola che l’aveva sostituito, faceva frequenti viaggi al ricinto, e quando toccava a Pencroff a fare il suo giro, conduceva Jup e facevalo guidare: la qual cosa Jup compieva colla sua usata intelligenza, facendo schioccare la frusta.

Tutto prosperava adunque tanto nel ricinto come nel Palazzo di Granito, e veramente i coloni non avevano a lamentarsi d’altro che d’essere lontani dalla раtria. Erano tanto avvezzi a quella vita ed a quell’isola, che non ne avrebbero lasciato senza rammarico il suolo ospitale. Eppure tanto l’amore del paese è radicato nel cuore dell’uomo, che se qualche nave [p. 105 modifica]si fosse all’improvviso presentata in vista dell’isola, i coloni le avrebbero fatto dei segnali, e sarebbero partiti. Frattanto però viveano di quella felice esistenza, ed erano meno paurosi che desiderosi d’un avvenimento qualsiasi che venisse ad interromperla.

Ma chi potrebbe mai lusingarsi d’aver formato la fortuna ed essere al sicuro dei suoi voltafaccia?

Checchè ne sia, codest’isola Lincoln, che i coloni abitavano già più d’un anno, era sovente argomento della loro conversazione, e un giorno fu fatta una osservazione che doveva più tardi produrre gravi conseguenze.

Era il primo aprile, una domenica, il giorno di Pasqua, che Cyrus Smith ed i compagni avevano santificato col riposo e colla preghiera. La giornata era stata bella, quale potrebbe essere una giornata di ottobre nell’emisfero boreale. Tutti, verso sera, dopo desinare, erano riuniti sotto la veranda, sul lembo dell’altipiano di Lunga Vista, e guardavano salir la notte sull’orizzonte. Alcune chicchere di quella infusione di grani di sambuco, che faceva le veci del caffè, erano state servite da Nab. Si parlava dell’isola e della sua situazione solitaria nel Pacifico, quando Gedeone Spilett fu tratto a dire:

— Mio caro Cyrus, dacchè possedete il sestante trovato nella cassa, avete rilevato di nuovo la posizione della nostra isola?

— No.

— Ma sarebbe forse opportuno farlo con uno strumento più perfetto di quello che avete adoperato.

— A qual pro? disse Pencroff; l’isola sta bene dov’è.

— Senza dubbio, soggiunse Gedeone Spilett, ma accadde talvolta che l’imperfezione degli istrumenti ha nociuto alla giustezza delle osservazioni, e posto che è facile accertarne l’esattezza....

— Avete ragione, caro Spilett, aggiunse l’ingegnere, [p. 106 modifica]ed avrei dovuto fare tale verifica più presto, benchè, se pure ho commesso qualche errore, esso non deve passare i cinque gradi in longitudine ed in latitudine.

— Chissà, soggiunse il reporter, chissà che non siamo più vicini di quel che crediamo ad una terra abitata?

— Lo sapremo domani, rispose l’ingegnere, e senza le tante occupazioni lo sapremo di già.

— Buono, disse Pencroff, il signor Cyrus non può essersi sbagliato, e se pure non muto posto, l’isola deve essere dove egli l’ha messa.

— Vedremo.

Al domani adunque, per mezzo del sestante, l’ingegnere fece le osservazioni necessarie per accertare le coordinate che aveva già ottenute, ed ecco qual fu il risultato della sua operazione:

La prima osservazione gli aveva dato:

In longitudine ovest: da 150° a 155°.
In latitudine sud da 30° a 35°.

La seconda diede esattamente:

In longitudine ovest: 150° 30’.
In latitudine sud: 34° 57’.

Così, adunque, malgrado l’imperfezione dei suoi strumenti, Cyrus Smith aveva operato con tanta abilità, che l’errore non avea superato i cinque gradi.

— Ed ora, disse Gedeone Spilett, poichè oltre un sestante possediamo un atlante, vediamo, caro Cyrus, la posizione che l’isola Lincoln occupa nel Pacifico.

Harbert andò a cercare l’atlante, che, come è noto, era stato pubblicato in Francia e per conseguenza aveva la nomenclatura in francese.

Fu svolta la carta del Pacifico, e l’ingegnere, preso il compasso, s’accinse a determinarne la situazione.

D’un tratto il compasso gli si fermò in mano, ed egli disse: [p. 107 modifica]

— Ma esiste già un’isola in questa parte del Pacifico!

— Un’isola! esclamò Pencroff.

— La nostra senza dubbio, aggiunse Gedeone Spilett.

— No, rispose Cyrus Smith. Quest’isola è situata a 153° di longitudine e 38° 11’ di latitudine, vale a dire due gradi e mezzo più all’ovest e due gradi più al sud dell’isola Lincoln.

— E qual’è quest’isola? domandò Harbert.

— L’isola Tabor.

— Un’isola importante?

— No, un isolotto perduto nel Pacifico e che non fu forse visitato mai.

— Ebbene, lo visiteremo noi, disse Pencroff.

— Noi?

— Sì, signor Cyrus. Costruiremo una barca, e m’incarico io di condurvi. A che distanza siamo da quest’isola?

— A centocinquanta miglia circa nel nord-est, rispose Cyrus Smith.

— Centocinquanta miglia! niente altro? rispose Pencroff. In quarantott’ore e con un buon vento le avremo percorse.

— Ma a qual pro? domandò il reporter.

— Non si sa, bisogna vedere.

Fu dunque deciso di costrurre una barca in guisa da poter prendere il mare nel prossimo mese d’ottobre, al ritorno della bella stagione.