L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo XV

Parte prima - Capitolo XV

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XV.


L’inverno è assolutamente deciso — La questione metallurgica — Esplorazione dell’isolotto della Salute — La caccia alle foche — Cattura d’un echidneo — Il Kula — Ciò che si chiama il metodo catalano — Fabbricazione del ferro — Come si ottiene l’acciajo.

Il domani, 17 aprile, la prima parola del marinajo fu per Gedeone Spilett.

— Ebbene, signore, gli domandò egli, che mestiere faremo oggi?

— Quello che piacerà a Cyrus, rispose il reporter.

Ora, di vasai e di fabbricanti di mattoni che erano stati finora, i compagni dell’ingegnere dovevano di venire metallurgisti.

Alla vigilia, dopo colazione, si era spinta l’esplorazione fino alla punta del capo Mandibola, distante circa sette miglia dai Camini. Colà finiva la lunga serie delle dune, ed il suolo prendeva un aspetto vulcanico. Non erano più alte muraglie, come nell’altipiano di Lunga Vista, ma una bizzarra e capricciosa orlatura che incorniciava lo stretto golfo compreso fra i due capi, formata di materie minerali eruttate dal vulcano. Giunti a quella punta, i coloni eran tornati indietro, ed al cader della notte rientravano nei Camini; ma non s’addormentarono innanzi che la questione di sapere se bisognasse pensare a lasciare o no l’isola Lincoln fosse definitivamente risoluta.

Era una gran distanza quella delle milledugento miglia che separavano l’isola dall’arcipelago delle Pomotu. Un canotto non avrebbe bastato a superarla, specialmente all’accostarsi della brutta stagione. [p. 29 modifica]Pencroff l’aveva dichiarato espressamente. Ora costrurre un semplice canotto, anche cogli utensili ne cessarî, era opera difficile, e non avendo utensili, bisognava incominciare a fabbricar martelli, accette, ascie, seghe, trivelle, pialle, ecc., il che doveva richiedere un certo tempo. Fu adunque deciso di svernare all’isola Lincoln e di cercare un’abitazione più comoda dei Camini per passarvi l’inverno.

Si trattava innanzi tutto di trar partito del minerale di ferro, di cui l’ingegnere aveva osservato alcuni strati nella parte nord-ovest dell’isola, e di trasformare quel minerale in ferro od in acciajo. Il terreno non contiene generalmente i metalli allo stato di purezza; di solito si trovano coll’ossigeno e collo zolfo; ed appunto i due campioni raccolti da Cyrus Smith erano uno di ferro magnifico non carbonato, e l’altro di pirite, altrimenti detta solfuro di ferro; era dunque il primo, l’ossido di ferro, che bisognava depurare col carbone sbarazzandolo dall’ossigeno; codesta depurazione si fa ponendo il minerale al contatto del carbone ad alta temperatura, sia col facile e spedito metodo catalano, che ha il vantaggio di trasformare direttamente e con una sola operazione il minerale in ferro, ossia col metodo dei fornelli, che cambia prima il minerale in ghisa, poi la ghisa in ferro, togliendole i tre o quattro per cento di carbone che sono combinati con essa.

Ora, di che aveva bisogno Cyrus Smith? Di ferro e non di ghisa, e doveva ricercare il più spedito metodo di depurazione. D’altra parte, il minerale raccolto era per sè stesso molto puro e ricco. Era quel minerale ossidulato che s’incontra in masse confuse di un grigio carico, che dà una polvere nera, cristallizza in ottaedri regolari, fornisce le calamite naturali e serve a fabbricare in Europa quel ferro di prima qualità di cui la Svezia e la Norvegia sono così largamente provviste. Poco lungi da quello strato si [p. 30 modifica]trovavano gli strati di carbon fossile, che aveva già servito ai coloni: d’onde gran facilità per il trattamento del minerale, poichè gli elementi della fabbricazione si trovavano ravvicinati. Gli è anzi codesto che forma la prodigiosa ricchezza delle miniere del Regno Unito, ove il carbon fossile serve a fabbricare il metallo estratto dal medesimo terreno ed al medesimo tempo.

— Dunque, signor Cyrus, disse Pencroff, lavoreremo il minerale di ferro?

— Sì, amico mio, rispose l’ingegnere, e per far ciò incominceremo dal dar sull’isola la caccia alle foche; questo non vi spiacerà, immagino.

— La caccia alle foche! disse il marinajo volgendosi a Gedeone Spilett; ci vogliono dunque delle foche per fare il ferro?

— Se Cyrus lo ha detto! rispose il reporter.

Ma Cyrus aveva già lasciato i Camini, e Pencroff si preparò alla caccia delle foche senza aver ottenuto altra spiegazione.

Presto Cyrus Smith, Harbert, Gedeone Spilett, Nab ed il marinajo erano riuniti sul golfo, in un punto in cui il canale lasciava una specie di passo guadabile a bassa marea. La marea era nel punto più basso del riflusso, ed i viaggiatori poterono attraversare il canale non bagnandosi che fino alle ginocchia.

Cyrus Smith metteva adunque piede per la prima volta sull’isolotto, ed i compagni per la seconda, poichè era là che il pallone li aveva gettati fin da principio. Quando sbarcarono, alcune centinaja di pinguini li guardarono con occhio confidente. I coloni armati di bastoni avrebbero potuto facilmente ucciderli, ma non pensarono a questa carneficina, doppiamente inutile, poichè importava di non spaventare gli anfibî che erano coricati sulla sabbia poche gomene più lungi. Essi rispettarono pure certi apteroditi innocentissimi, le cui ali ridotte a monconi si [p. 31 modifica]schiacciavano in forma di pinne ed eran guernite di piume d’aspetto squamoso. I coloni si avanzarono adunque prudentemente verso la punta nord, camminando sopra un terreno crivellato di piccole frane che formavano nidi di uccelli acquatici.

Verso l’estremità dell’isola apparivano grossi punti neri che nuotavano a fior d’acqua. Si sarebbero detti punte di scogli moventisi. Erano gli anfibî che si trattava di far prigionieri. Bisognava lasciarli prender terra, poichè colla loro pelvi stretta, il pelo raso e fitto, la conformazione fusiforme, codeste foche, eccellenti nuotatrici, sono difficili a prendersi in mare, mentre a terra i piedi corti e palmati non permettono loro che un movimento poco rapido.

Pencroff conosceva le abitudini di tali anfibî, e consigliò d’aspettare che fossero distesi sulla sabbia, ai raggi di quel sole che non doveva tardare a farli cadere in profondo sonno; si farebbe poi in modo di tagliar loro la ritirata e colpirli alle narici. I cacciatori si nascosero adunque dietro le roccie del littorale, ed aspettarono in silenzio. Passò un’ora prima che le foche fossero venute a trastullarsi sulla sabbia.

Pencroff ed Harbert si staccarono allora per fare il giro della punta dell’isola in guisa da pigliarle di fronte e tagliar loro la ritirata. Frattanto Cyrus Smith, Gedeone Spilett e Nab, strisciando fra le roccie, si spingevano verso il futuro teatro della lotta.

D’un tratto il marinajo si levò in piedi e mandò un grido. L’ingegnere ed i suoi due compagni si gettarono in gran fretta tra il mare e le foche. Due di questi animali percossi vigorosamente rimasero morti sulla sabbia, ma gli altri poterono cacciarsi in mare e prendere il largo.

— Ecco le foche domandate, signor Cyrus, disse il marinajo facendosi innanzi all’ingegnere. [p. 32 modifica]

— Bene, rispose Cyrus Smith, ne faremo dei mantici da fucina.

— Mantici da fucina! esclamò Pencroff; ebbene, ecco foche che hanno avuto fortuna.

Era infatti un mantice, necessario per il trattamento del minerale, che l’ingegnere contava di fabbricare colla pelle di questi anfibî. Essi erano di mezzana statura, poichè la loro lunghezza non passava i sei piedi; nella testa rassomigliavano a cani.

Siccome era inutile caricarsi d’un peso così grande come quello dei due animali, Nab e Pencroff risolvettero di scuojarli addirittura, intanto che Cyrus Smith ed il reporter finivano di esplorare l’isoletta.

Il marinajo ed il negro se la cavarono abilmente dalla loro operazione, e tre ore dopo Cyrus Smith aveva a propria disposizione due pelli di foca che faceva conto di adoperare tal quali senza prima conciarle.

I coloni dovettero aspettare che il mare avesse ribassato, ed attraversando il canale rientrarono nei Camini.

Non fu picciol lavoro quello di stendere le pelli sopra quadri di legno e di cucirle per mezzo di fibre in guisa da potervi accogliere l’aria senza lasciarne sfuggir troppa.

Bisognò far molti tentativi inutili. Cyrus Smith non aveva a sua disposizione se non le due lame d’acciajo provenienti dal collare di Top; pure fu così abile, ed i compagni lo ajutarono con tanta intelligenza, che tre giorni dopo la piccola colonia contava fra le proprie ricchezze un mantice destinato a spingere l’aria in mezzo al minerale al momento di trattarlo col calore — condizione indispensabile per la riuscita dell’operazione.

Fu il 20 aprile di buon’ora che incominciò il “periodo metallurgico,” come lo chiamò il reporter nelle sue note. L’ingegnere era determinato, come [p. 33 modifica]è noto, ad operare sul medesimo strato di carbon fossile e di minerale. Ora, stando alle sue osservazioni, quei giacimenti erano situati ai piedi dei contrafforti del monte Franklin, vale a dire ad una distanza di sei miglia. Non bisognava dunque pensare a ritornar ogni giorno ai Camini, e fu convenuto che la piccola colonia si attendasse sotto una capanna di rami, in guisa che l’importante operazione fosse continuata giorno e notte. Fatto questo disegno, si partì all’alba. Nab e Pencroff trascinavano sopra un graticcio il mantice ed una certa quantità di provviste vegetali ed animali, che del resto si dovevano rinnovare per via.

La strada seguíta fu quella dei boschi del Jacamar, che furono attraversati obliquamente dal sud-est al nord-ovest e nella loro parte più fitta. Bisognò aprirsi una via che doveva formare più tardi l’arteria diretta fra l’altipiano di Lunga Vista ed il monte Franklin. Gli alberi appartenenti alla specie già conosciuta erano magnifici. Harbert ne vide di nuovi, fra cui due dragoni che Pencroff disse essere “porri pretenziosi” poichè non ostante la loro statura, appartenevano alla medesima famiglia dei liliacei, a cui appartengono la cipolla, i cipollini e gli asparagi. Codesti dragoni potevano fornire radici legnose che, cotte, sono eccellenti e, fatte fermentare, danno uno squisito liquore. Se ne fece buona provvista.

Il viaggio attraverso il bosco fu lungo. Durò tutta la giornata, ma ciò permise di osservare la fauna e la flora. Top, più specialmente incaricato della fauna, correva attraverso alle erbe ed ai cespugli, facendo levare indistintamente ogni maniera di selvaggina. Harbert e Gedeone Spilett uccisero kanguri a colpi di freccie, ed un animale che rassomigliava molto ad un riccio e ad un formichiere: il primo perchè si appallottava facendosi irto di punte, il secondo perchè aveva artigli atti a scavare, un muso lungo [p. 34 modifica]che terminava come becco d’uccello, ed una lingua estensibile guernita di spinuzze che gli servivano a trattenere gli insetti.

— E quando sarà nella padella, domandò Pencroff, a che cosa rassomiglierà?

— Ad un eccellente pezzo di manzo, rispose Harbert.

— Non gli domanderemo di più, disse il marinajo.

Durante questa escursione, furon visti alcuni cinghiali selvatici, i quali non cercarono di assalire il piccolo drappello; nè pareva che si dovessero incontrare belve terribili, quando in una fitta macchia il reporter credette di vedere a qualche passo di distanza, fra i primi rami d’un albero, un animale che egli prese per un orso e di cui si accinse tranquillamente a far lo schizzo. Per buona sorte l’animale in questione non apparteneva per nulla a questa terribile famiglia dei plantigradi; altro non era che un kula, più conosciuto sotto il nome di tardigrado, che aveva la statura d’un grosso cane, il pelo irto e di color sporco, le zampe armate di forti artigli, il che gli permetteva di arrampicarsi sugli alberi e di nutrirsi di foglie. Accertata l’identità dell’animale, che non venne turbato nelle sue occupazioni, Gedeone Spilett cancellò orso dalla leggenda del suo disegno, vi sostituì kula e si prosegui il viaggio.

Alle cinque pomeridiane, Cyrus Smith ordinava la fermata. Si era giunti fuori della foresta, al principio di quei poderosi contrafforti che puntellavano il monte Franklin verso l’est. A qualche centinajo di passi scorreva il rivo Rosso, onde l’acqua potabile non era lontana. Fu subito allestito l’attendamento. In meno di un’ora sul lembo della foresta, fra gli alberi, una capanna di rami intrecciati di liane ed intonacati di argilla offrì un ricovero sufficiente. Le ricerche geologiche furono differite al domani. Si preparò la cena, un buon fuoco fiammeggiò innanzi alla capanna, fu posto in opera lo spiedo, [p. 35 modifica]ed alle otto, mentre uno dei coloni vegliava per mantenere acceso il fuoco nel caso che qualche animale pericoloso avesse vagato nei dintorni, gli altri, dormivano tranquilli sonni.

Il domani, 21 aprile, Cyrus Smith, accompagnato da Harbert, andò a cercare quei terreni di formazione antica, sui quali aveva già trovato il campione di minerale. Incontrò lo strato a fior di terra, pressochè alle sorgenti stesse del rivo, a piedi della base laterale di uno dei contrafforti del nord-est. Quel minerale ricchissimo di ferro, chiuso nella sua ganga fusibile, conveniva perfettamente al modo di riduzione che l’ingegnere contava di adoperare, vale a dire il metodo catalano, ma semplificato come si usa fare in Corsica.

In fatti il metodo catalano, propriamente detto, richiede la costruzione di forni e di crogiuoli, entro i quali il minerale ed il carbone, collocati a strati alternativi, si trasformano e si riducono. Ma Cyrus Smith pretendeva far economia di questa operazione, carbone una massa cubica, nel centro della quale dirigere il soffio del mantice. Tale era certo il pro e voleva formar semplicemente col minerale e col processo adoperato da Tubal-Cain, e dai primi metallurgisti del mondo abitato. Ora ciò che era riuscito al nipote di Adamo, ciò che dava ancora buoni risultati nelle regioni ricche di minerali e di combustile, doveva pure riuscire nelle condizioni in cui si trovavano i coloni dell’isola Lincoln.

Al par del minerale, il carbon fossile fu raccolto senza fatica e poco lungi, alla superficie del suolo. Si spezzò innanzi tutto il minerale, lo si sbarazzò colla mano dalle impurità che ne bruttavano la superficie, poi carbone e minerale furono disposti in mucchi ed a strati successivi come suol fare il carbonajo della legna che vuol carbonizzare. A questo modo, sotto l’influenza dell’aria spinta dal mantice, [p. 36 modifica]il carbone doveva trasformarsi in acido carbonico, poi in ossido di carbone incaricato di ridurre l’ossido di ferro, vale a dire di togliergli l’ossigeno.

L’ingegnere procedette a questo modo. Il mantice di pelle di foca munito alla sua estremità d’un tubo di terra refrattaria precedentemente fabbricato nei forni del vasellame, fu collocato presso al mucchio di minerale. Mosso da un meccanismo, i cui organi erano telaj, corde di fibre e contrappesi, esso lanciò nella massa una colonna d’aria che, crescendone la temperatura, contribuì poi alla trasformazione chimica che doveva produrre il ferro puro. L’operazione fu difficile. Ci volle tutta la pazienza, tutta l’ingegnosità dei coloni per condurla a buon fine, ma finalmente riuscì, ed il risultato definitivo fu un pezzo di ferro ridotto allo stato di spugna, che bisognò battere a caldo, vale a dire fucinare, per cacciarne la ganga liquefatta. Era evidente che mancava il martello a questi fabbri improvvisati; ma in fine dei conti essi si trovavano nelle identiche condizioni del primo metallurgista, e fecero ciò che quello dovette fare.

Il primo pezzo di ferro assicurato ad un bastone servì di martello per fucinarə il secondo sopra un’incudine di granito; così si riuscì ad ottenere un metallo grossolano, ma servibile. Finalmente, dopo molti sforzi e fatiche, il 25 aprile, non poche sbarre di ferro erano fucinate e si trasformavano in utensili, pinzette, tenaglie, picconi, zappe, ecc., che Pencroff e Nab dichiararono veri capolavori.

Ma non era già allo stato di ferro puro che il metallo poteva rendere gran servigi, ma sopratutto alio stato di acciajo. Ora l’acciajo è una combinazione di ferro e di carbone che si ricava sia dalla ghisa, togliendole l’eccesso di carbone, sia dal ferro aggiungendogli il carbone che gli manca. Il primo, ottenuto colla carburazione della ghisa, dà l’acciajo naturale; [p. 37 modifica]il secondo, prodotto dalla carburazione del ferro, dà l’acciajo di cementazione.

Era adunque quest’ultimo che Cyrus Smith doveva cercar di fabbricare a preferenza, posto che possedeva il ferro allo stato puro. Vi riuscì scaldando il metallo con carbone in polvere entro un crogiuolo fatto di ferro refrattario. Poi quest’acciajo, che è malleabile a caldo ed a freddo, venne lavorato col martello.

Nab e Pencroff, abilmente diretti, fecero ferri di accetta che, scaldati al calor rosso e tuffati bruscamente nell’acqua fredda, acquistarono tempra eccellente. Altri strumenti, fatti s’intende grossolanamente, furon pure fabbricati. Lame di pialle, accette, striscie di acciajo che dovevano essere trasformate in seghe, forbici da carpentiere, ferri di zappa, di pala, di picconi, di martelli, ecc.

Finalmente, il 5 maggio, il primo periodo metallurgico era finito, ed i fabbri ritornavano nei Camini, finchè nuovi lavori venissero a far loro prendere una nuova qualificazione.