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schiacciavano in forma di pinne ed eran guernite di piume d’aspetto squamoso. I coloni si avanzarono adunque prudentemente verso la punta nord, camminando sopra un terreno crivellato di piccole frane che formavano nidi di uccelli acquatici.

Verso l’estremità dell’isola apparivano grossi punti neri che nuotavano a fior d’acqua. Si sarebbero detti punte di scogli moventisi. Erano gli anfibî che si trattava di far prigionieri. Bisognava lasciarli prender terra, poichè colla loro pelvi stretta, il pelo raso e fitto, la conformazione fusiforme, codeste foche, eccellenti nuotatrici, sono difficili a prendersi in mare, mentre a terra i piedi corti e palmati non permettono loro che un movimento poco rapido.

Pencroff conosceva le abitudini di tali anfibî, e consigliò d’aspettare che fossero distesi sulla sabbia, ai raggi di quel sole che non doveva tardare a farli cadere in profondo sonno; si farebbe poi in modo di tagliar loro la ritirata e colpirli alle narici. I cacciatori si nascosero adunque dietro le roccie del littorale, ed aspettarono in silenzio. Passò un’ora prima che le foche fossero venute a trastullarsi sulla sabbia.

Pencroff ed Harbert si staccarono allora per fare il giro della punta dell’isola in guisa da pigliarle di fronte e tagliar loro la ritirata. Frattanto Cyrus Smith, Gedeone Spilett e Nab, strisciando fra le roccie, si spingevano verso il futuro teatro della lotta.

D’un tratto il marinajo si levò in piedi e mandò un grido. L’ingegnere ed i suoi due compagni si gettarono in gran fretta tra il mare e le foche. Due di questi animali percossi vigorosamente rimasero morti sulla sabbia, ma gli altri poterono cacciarsi in mare e prendere il largo.

— Ecco le foche domandate, signor Cyrus, disse il marinajo facendosi innanzi all’ingegnere.