L'Uomo di fuoco/23. Ritorno alla savana

23. Ritorno alla savana

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CAPITOLO XXIII.

Ritorno alla Savana.


La savana era deserta. Solamente dei trampolieri sonnecchiavano sulle foglie acquatiche delle victoria e qualche coppia di pappagalli chiacchierava sulla cima degli alberi che circondavano quell’immenso stagno dalle acque putride e nauseabonde.

Non si vedeva nemmeno un jacarè, quegli assidui frequentatori delle acque stagnanti e delle paludi.

— Gli Eimuri non devono essere ancora giunti fino qui, — disse Alvaro. — Avremo il tempo di rifugiarci sull’isolotto che abbiamo scoperto.

— Non prima d’aver fabbricata la pentola promessa dal signor Diaz, — disse il mozzo.

— Ah! È vero, — rispose il marinaio sorridendo. — Ci tieni ad averla.

— Senza avere poi nulla da metterci dentro, — osservò Alvaro.

— I trampolieri abbondano sull’isolotto, — disse il marinaio. — Ho anzi veduto anche dei tatù che ci daranno un brodo squisito, se saremo lesti a prenderli.

— E delle testuggini? — chiese Garcia.

— Sì, qualche careto mi pare d’averla scorta. Ah! Là, guardate, ecco l’albero delle stoviglie. —

La pianta che indicava era magnifica, alta più di trenta metri, dal tronco slanciato e piuttosto esile.

La moquilea utilis tale è il nome dato a quegli utilissimi alberi dai botanici, s’incontra sovente nelle foreste brasiliane dove è assai ricercata dagl’indiani per fabbricare delle ottime stoviglie.

Essendo i terreni brasiliani piuttosto poveri di silici, materia necessaria per rendere più consistenti i vasi, gl’indiani ricorrono alla moquilea.

Senza abbattere l’albero, il quale d’altronde ha delle fibre tenacissime, impregnate d’una quantità straordinaria di silice che guasta le scuri meglio temprate, staccano semplicemente la corteccia.

La carbonizzano, poi la polverizzano servendosi d’un mortaio [p. 219 modifica]o d’un semplice sasso, quindi la mescolano in date proporzioni all’argilla, materia questa che si trova dovunque nelle foreste.

Alvaro e Garcia, informati rapidamente dal marinaio di ciò che dovevano fare per guadagnarsi la pentola, si misero subito all’opera, temendo di venire, da un istante all’altro, sorpresi dagli antropofagi.

Mentre il primo tagliava parecchi pezzi di corteccia i cui grani di silice che la impegnavano, scricchiolavano sotto la lama del coltello, il secondo scavava il suolo per raggiungere lo strato argilloso.

Avute le une e l’altra stavano per accendere il fuoco, quando il marinaio con un gesto li arrestò.

— No, — disse. — Finiremo l’operazione sull’isolotto.

Costruite invece la zattera, accendere qui del fuoco, sarebbe pericoloso.

— Io stavo per commettere una imprudenza imperdonabile, — disse Alvaro. — Sì, pensiamo prima alla zattera.

Avevano già abbattuti parecchi grossi bambù che crescevano sulla riva della savana e raccolte parecchie liane, quando un ululato che aveva un non so che di triste echeggiò a breve distanza.

Il marinaio udendolo aveva alzato il capo.

— Una belva? — chiese Alvaro che si preparava ad armare il fucile.

— Un guarà, — rispose il marinaio.

— Che cos’è.

— Una specie di lupo.

— Pericoloso?

— Non per gli uomini.

— Eppure mi sembrate inquieto.

— È vero. I guarà non escono che di notte dalle loro tane e se fugge vuol dire che qualcuno lo ha scovato.

— Guardatelo: fugge a tutte gambe. —

Un animale che aveva la statura d’un lupo siberiano, colla testa lunghissima, le gambe altissime, col pelame rossiccio ed il dorso coperto da una fitta criniera lunga tre o quattro pollici, si era slanciato fuori della foresta spiccando salti immensi.

Vedendo quei tre uomini, si fermò un momento guardandoli con viva curiosità, poi riprese la fuga balzando come se il suolo fosse tutto coperto di molle.

— Non era troppo bello, — disse Alvaro. — I nostri lupi d’Europa sono più graziosi. [p. 220 modifica]

— Affrettatevi, signor Viana, — disse Diaz. — Se quel guarà non ha più osato ricacciarsi nella foresta, è segno che sotto le piante si nasconde qualche vicino pericoloso.

— Che gli Eimuri non ci lascino mai in pace? Comincio ad averne perfino troppo di quegli antropofagi.

È ora di finirla!

— Pensate che io non sono capace di aiutarvi, anzi che vi sarei d’imbarazzo.

— Se quell’animalaccio non vi avesse ferito vorrei un po’ mostrare a quelle canaglie che io sono veramente l’Uomo di fuoco.

— Sì, Caramurà, — disse il marinaio, sorridendo. — Un nome terribile, signore, che vi renderà temuto presso tutte le tribù brasiliane.

Ecco un altro animale che fugge e anche questo un notturno! Brutto indizio!

— Oh! Il bel gatto! — esclamò Alvaro.

Un altro animale si era slanciato fuori dalla foresta fuggendo velocemente.

Era un bell’animale, dal corpo esile, dal pelame giallognolo con sfumature rosse e bianche, colla testa piccola assai, più grosso d’un gatto comune essendo lungo almeno mezzo metro.

— Un vermelho, — disse il marinaio, — e anche questo mi sembra spaventato.

— Ancora cinque minuti e la zattera sarà pronta. —

In quel momento un grido di gioia mandato dal mozzo, gli fece alzare la testa.

— I furbi! — aveva esclamato il ragazzo. — E noi non l’avevamo ancora scorta.

— Che cosa, Garcia? — chiese Alvaro.

— Vi è una scialuppa affondata, nascosta fra le piante acquatiche e legata al bambù che stavo per recidere. —

Alvaro in pochi salti aveva già raggiunta la riva.

In mezzo alle immense foglie delle victoria, che la nascondevano quasi completamente, si scorgeva una bella scialuppa affondata fino ai bordi superiori e trattenuta da una solida liana.

— Tira, Garcia. Con due foglie di banano la vuoteremo, — disse Alvaro.

— O meglio con una cuia, — disse il marinaio. — Ecco là una pianta che vi servirà per fabbricarvi dei mastelli. — [p. 221 modifica]

Venti passi lontano, quasi sul margine della foresta, si stendeva una pianta immensa, con foglie larghissime e di rami coperti da una infinità di piante parassite, che reggevano a malapena delle frutta d’un verde pallido, di forma sferica e grosse più dei poponi.

— Tirate prima verso la riva la piroga, signore, — disse il marinaio. — Poi penserete a vuotarla, ma fate presto. —

Alvaro ed il mozzo, unendo le loro forze la trassero fuori dalle foglie e siccome, quantunque piena d’acqua, galleggiasse essendo scavata nel tronco d’un enorme albero, non riuscì a loro difficile di arenarla su un bassofondo.

— Prendete un paio di quelle zucche ora e tagliatele a metà, — disse Diaz.

Il mozzo si era già arrampicato sulle piante parassite che avvolgevano interamente il tronco grosso e basso delle cuiera, gettando fra le erbe una mezza dozzina di quelle zucche.

Alvaro piantò la punta del coltello in una credendo di spaccarla per metà, ma il frutto si crepò in tutte le direzioni.

Ne provò un secondo senza miglior risultato.

— Oh non così, signore, — disse il marinaio. — Non riuscirete a nulla. Prendete una liana sottile, legate la zucca e stringete forte.

È così che fanno gl’indiani. Il vostro coltello non servirebbe a nulla. —

Oh meraviglia! Quelle zucche che pure parevano durissime, appena strette dalla liana si spaccavano per metà, come fossero state segate.

Le cuia, così si chiamano le frutta della cuiera (crescentia cajeput) sono pregiatissime dagli indiani. Ben seccate servono da vasi ed in tutte le capanne brasiliane o venezuelane se ne trovano in gran numero, abbellite sovente con disegni a colori, assai originali.

Vuotatele della loro polpa biancastra e ottenuti quattro bei recipienti, Alvaro ed il mozzo vuotarono rapidamente la piroga, facendola rimontare interamente a galla. Era una bella canoa scavata col fuoco più che colle scuri di pietra, nel tronco d’un cedro, lunga dieci metri e larga uno e fornita di quattro pagaie di forma lancellata ed a manico corto.

È incredibile l’abilità degli indiani nella fabbricazione delle loro piroghe. Quantunque privi completamente di istrumenti [p. 222 modifica]adatti, sanno dare alle loro imbarcazioni delle forme stupende senza comprometterne la stabilità e non di rado le adornano di sculture che rappresentano bene o male teste di caimano, di giaguaro o di serpenti.

La canoa era già stata interamente vuotata e sbarazzata delle piante acquatiche che avevano cominciato a spuntare, segno non dubbio della sua lunga immersione, quando un secondo lupo guarà uscì dalla foresta, fuggendo a precipizio.

— Qualcuno sta per giungere, — disse Alvaro. — Sbrighiamoci. —

Prese fra le braccia Diaz e lo portò nella canoa dove già il mozzo aveva preparato un letto formato con foglie di palma.

Ve lo adagiarono delicatamente, imbarcarono le frutta raccolte, le cortecce dell’albero delle stoviglie e l’argilla e presero le pagaie spingendosi rapidamente al largo.

— In mezzo alla savana, un po’ a mezzodì, — disse Diaz ad Alvaro. — È là che ho scoperta l’isola che ci servirà di rifugio. —

Si erano allontanati di cinquanta o sessanta passi, quando alcuni selvaggi, spaventosamente dipinti e colle teste adorne di piume, irruppero dalla foresta gettando clamori assordanti.

— I Caheti! — esclamò Diaz, facendosi smorto. — Guardiamoci da loro! Sono ben peggiori degli Eimuri costoro!

— Forza, Garcia! — gridò Alvaro.

I selvaggi vedendo la canoa allontanarsi, avevano cominciato a soffiar dentro le gravatane, colla speranza di abbattere i remiganti i quali, per buona fortuna, avevano avuto il tempo di mettersi fuori di portata da quelle frecce probabilmente avvelenate col succo mortale del curaro.

Vedendo che la canoa guadagnava rapidamente via, alcuni selvaggi si gettarono coraggiosamente in acqua; non avevano però percorsi dieci metri, quando urla di terrore s’alzarono.

Due enormi jacarè che sonnecchiavano forse sotto le larghe foglie delle victoria, irritati di essere stati disturbati, si erano improvvisamente scagliati sui nuotatori, portandosene via uno.

Gli altri, spaventati, erano tornati precipitosamente alla riva dove i loro compagni gridavano a piena gola senza però osare di assalire i due caimani.

— Eccoli arrestati di colpo, — disse Diaz. — Dove vi sono gli jacarè l’indiano non si tuffa e se non trovano dei canotti non ci prenderanno. [p. 223 modifica]

— E se costruissero delle zattere? — disse Alvaro, senza cessare di dar dentro a tutta forza, nelle pagaie.

— Non so se sappiano fabbricarle, quantunque i Caheti siano degli abilissimi canottieri.

— Mi avete detto che sono formidabili quei selvaggi.

— I più valorosi di quanti abitano le foreste brasiliane, signore. —

Diaz, che conosceva da molti anni le tribù brasiliane, diceva il vero. Se gli Eimuri erano temibili, i Caheti godevano fama di essere i più coraggiosi ed i più temibili.

Formavano allora una tribù potentissima, che aveva villaggi sia nell’interno che sulle rive del mare e che disponeva di moltissime canoe capaci di contenere perfino quindici persone.

I portoghesi dovevano più tardi provare l’audacia di quei selvaggi i quali si erano alleati coi francesi che tentavano di prendere possesso d’una parte del Brasile e soprattutto d’impadronirsi della magnifica baia di Rio Janeiro.

Ed infatti fu un vero miracolo se Pereira che si può considerare come il fondatore delle colonie portoghesi, riuscì a sfuggire agli assalti di quei valorosi selvaggi che lo avevano già circondato, ammazzandogli un gran numero di soldati.

Arrancando con lena affannosa, la canoa giunse ben presto presso le prime isolette che erano coperte d’una vegetazione foltissima che impediva ai selvaggi di poter seguire cogli sguardi la direzione presa dai fuggiaschi.

— Tenetevi sempre dietro queste terre, — disse il marinaio. — Mi preme che i Caheti non vedano dove noi ci arresteremo.

— È lontano ancora l’isolotto che avete scoperto? — chiese Alvaro.

— Ci giungeremo fra qualche ora.

— È dunque immensa questa savana?

— Vastissima signore. Non sono riuscito a scoprire la sponda opposta.

— Animo dunque, Garcia, — disse Alvaro. — Dopo ci riposeremo. —

Le isolette si succedevano alle isolette, ingombre di paletuvieri rossi e di altre piante acquatiche, non erano però altro che banchi di fango, appena emersi, sui quali un uomo non avrebbe potuto posare i piedi senza correre il pericolo di sprofondare. [p. 224 modifica]

Erano banchi traditori, formati da sabbie mobili senza fondo, pronte ad inghiottire l’imprudente che avesse osato calpestarle.

Nubi di uccelli acquatici s’alzavano dai paletuvieri all’accostarsi della scialuppa e fuggivano via schiamazzando. Erano tanagri dalle penne azzurre ed il ventre aranciato; delle gallinelle turchine; dei mariapreta, graziosi uccellini tutti neri e la testa bianca e anche dei bellissimi ciganas i fagiani delle paludi e dei corsi d’acqua.

Per più di un’ora i due portoghesi continuarono a maneggiare le pagaie, non ostante il caldo intenso che regnava sull’immensa savana, passando in mezzo ad una moltitudine di banchi e di piante acquatiche, finchè si trovarono dinanzi ad un’isola coperta di alberi bellissimi e svariati che non potevano crescere che su un suolo consistente.

— Siamo giunti, — disse il marinaio.

— Cominciavo a rallentare, — rispose Alvaro che aveva le vesti inzuppate di sudore.

— Ed anch’io non ne potevo più, signore, — disse il mozzo.

Spinsero la canoa verso la riva e dopo d’averla legata al tronco d’un albero, sbarcarono portando con loro il ferito.




[p. 225 modifica]In quel punto due jacarè si erano scagliati sui nuotatori.... (Cap. XXIII).