Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte II/Capitolo VIII

Capitolo VIII

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CAPITOLO VIII.


I beneventani, rimasti per la morte di Arechi privi di principe, non indugiarono a spedire ambasciadori al re di Francia per indurlo a consentire che Grimoaldo, il quale avea tuttora residenza nella sua corte, subentrasse al padre nella signoria di Benevento. Ma appena il pontefice Adriano ebbe fumo di queste pratiche, si adoperò a tutt’uomo per istornarle, istigando Carlo Magno a cedergli nel ducato beneventano le città di Sora, Arce, Aquino, Arpino e Teano, in compenso dei denari datigli a prestanza nella guerra intrapresa contro Arechi. Ed anzi, a detta di molti scrittori, nutria lusinga di aggiungere ai suoi stati l’intero ducato di Benevento. E però ammonì Carlo Magno con lettere di non cadere in tanta imprudenza di rendere a Grimoaldo la libertà e lo Stato del padre; poichè costui in tal caso non si sarebbe certamente rimasto di seguire le orme di Arechi, collegandosi coi greci in danno dei francesi e della Santa Sede. Ma Carlo Magno non giudicò fondati tali timori, e, senza dar retta al pontefice, mandò libero Grimoaldo in Benevento, benchè ad attutire il malumore del papa gli facesse intendere di avere astrettto pubblicamente Grimoaldo a promettere di aggregare a prima giunta allo stato romano alcune città, a cui esso pontefice avea da lunga pezza la mira; mentre di ciò non pare che fosse stata mai parola tra il re dei franchi e Grimoaldo.

Carlo Magno che avea aderito di buon grado alle richieste dei beneventani, perchè lusingavasi che il nuovo principe gli si sarebbe mostrato ligio in tutto, per essere stato educato nella sua corte, a gratificarsi Grimoaldo, gli fece dono con regale munificenza di molti destrieri pomposamente fregiati, e di ricchi ornamenti per la sua reggia. Ma prima di accomiatarlo da Parigi lo astrinse con giuramento ad annuire che avrebbe mai sempre battuto [p. 17 modifica]moneta col nome e l’impronta del re di Francia, che avrebbè fatto diroccare le muraglie insuperabili di Salerno, di Consa e di Acerenza, e ordinato a’ suoi longobardi che si tondessero il mento in segno di vassallaggio.

Grimoaldo sentì nell’animo la durezza di siffatte condizioni, poichè il batter moneta col nome del re Carlo significava di riconoscerlo per suo signore, e comprendeva assai bene che col demolire le mura di Salerno, di Consa e di Acerenza si sarebbe privato d’ogni mezzo per preservare immuni i suoi stati dalle straniere invasioni. Ma tuttavia, per essere ancora in balìa del re Carlo, finse di piegarsi ad ogni patto, ma invece si propose, ridotto appena che si fosse nel principato, di non tenere il giuramento, poichè facea stima, e certamente in ciò non errava, che per essere stato il giuramento emesso da un uomo non libero, e ridotto in altrui podestà, avrebbe potuto violarsi, senza taccia di spergiuro: massime che l’osservarlo sarebbe tornato oltre ogni credere dannoso alla patria. E però, senza protrarre più a lungo la sua dimora in Francia, tolta licenza dal re Carlo, si avviò con molto seguito ai suoi stati.

Non è possibile ritrarre compiutamente l’eccesso della gioia che invase l’intero popolo beneventano, appena si ebbe l’annunzio che il principe era già presso a Capua, perchè sperava di veder rivivere in lui le virtù del gran genitore. Tutti, senza differenza di età o di sesso, a foggia di un torrente che abbia rotte le dighe, si versarono sulla strada che quegli dovea percorrere per entrare in Benevento, rendendo per tal modo la più luminosa testimonianza dell’affetto universale e delle speranze che ciascuno riponeva nel suo ascendere al soglio di Arechi.

Gli si fecero intorno, innanzi agli altri, i longobardi che aveano stanza in Benevento, e tutt i in bella gara congratularonsi del suo fausto ritorno in patria; pronunziando che tenendo egli dopo Arechi la signoria di Benevento si sarebbe inaugurata un’era novella di prosperità e di gloria per il principato beneventano. Indi seguì la milizia ordinata in [p. 18 modifica]bella mostra, da cui, come si legge in alcuni cronisti, fu levato sugli scudi al suono trionfale di tutti i bellici istromenti: e poi gli mossero incontro i primati di Benevento, che allora si diceano giudici; e a più di un miglio di distanza dalla città vide Grimoaldo l’intera popolazione che lo salutava suo principe, vaticinando che in breve tempo avrebbe eguagliato il padre nelle virtù civili e militari, di cui avea già dato non dubbio saggio in terra straniera.

Il giorno in cui seguì l’entrata di questo principe in Benevento fu pei cittadini il più lieto dei loro giorni, poichè già sonava in bocca di tutti la fama del suo valore, del senno e della sua prudenza; ed egli, appena varcata la soglia della città, trasse alla cattedrale dedicata a nostra Donna, ove orò lungamente, e dopo si diresse, seguito da gran moltitudine, al palagio dei principi, in cui dal Senato fu unanimamente proclamato principe di Benevento, e quindi per mano del vescovo Davide gli fu cinta al capo la corona con tutte le solennità adottate nella incoronazione del suo illustre genitore.

Grimoaldo, nei primi anni che tenne il governo di Benevento, non parve che aspirasse ad altro titolo che a quello di pio, imperocchè, seguendo l’esempio di Arechi, largheggiò di doni con molte chiese, e segnatamente col monastero di S. Vincenzo sul Volturno, stato edificato, come si è detto, da tre giovani beneventani, e che man mano crebbe in dovizie per successive donazioni, sicchè il detto monastero, ai tempi in cui tenne il ducato Grimoaldo, toccò l’apogeo del suo splendore.

Nè fu Grimoaldo meno splendido donatore con la celebre badia di Montecassino, poichè le concesse molti nuovi possedimenti, la cella di S. Agapito, i porti di Traietto e di Volturno con tutte le loro adiacenze, e la pesca di Lesina, come rilevasi dall’Ostiense. E il suo esempio fu seguito da varii facoltosi cittadini, e segnatamente da un certo Uvaco Castaldo o conte che si fosse, il quale, venendo a morte, fece ampia e libera donazione ai Cassinesi de’ molti beni di fortuna che possedeva in Trani, Ariano, Potenza e in [p. 19 modifica]altri luoghi, lasciando alla superstite consorte, a nome Tarsia, unicamente l’uso di una casa posta in Benevento, e pochissime entrate. E oltre a ciò francava un copioso numero di schiavi, apponendo a tale liberalità la condizione che avessero a lavorare in certe determinate stagioni le terre dei Cassinesi. Ed è per tali fatti che gli scrittori ecclesiastici levarono a cielo, come principal merito dei longobardi, le larghezze e i donativi profusi senza misura ai due più celebrati monasteri che in quell’epoca fiorivano nell’occidente, e che furon d’esempio a tutti gli altri ordini religiosi di illibata condotta claustrale.

Ma non andò molto che al pacato e giocondo vivere di Grimoaldo diede fine una guerra non meno molesta che impreveduta. Aveva il principe Grimoaldo impalmata una nepote di Costantino VII imperadore, a nome Irene, la quale indi a poco repudiava, senza che si fosse potuto mai trapelare la causa d’una si repentina e improvvida risoluzione da cui non poteva che derivare grave detrimento ai sudditi e allo Stato.

Costantino, cieco d’ira per una tanta ingiuria, ed istigato di continuo dalle preghiere dell’offesa nepote, la quale dì e notte non era occupata che dal pensiero della vendetta, divisò i modi più acconci per muover guerra con favorevoli auspicii al prode Grimoaldo. Ed è anche probabile che a tal guerra fosse stato pure indotto da altre considerazioni di gran momento. Era assai noto all’imperadore che i duchi di Benevento intesero sempre a conquistare tutti i greci possedimenti nell’Italia meridionale, ed era fresco il ricordo delle ingiurie patite dai suoi predecessori. E quindi al suo animo disposto a non lasciare inulto il disonesto ripudio s aggiungeva la ragione di Stato, e le insinuazioni di Adelgiso o Adelchi, figlio di Desiderio re dei longobardi, che lo esortava di continuo a combattere Grimoaldo: quell’Adelchi stesso che il Manzoni, snaturando la verità storica, ci ritrae in una sua notissima tragedia come un tipo di virtù cristiana.

Questi, allorchè il padre difendeasi tuttora in Pavia, per [p. 20 modifica]tentare le prove estreme contro i franchi, erasi chiuso in Verona, da cui gli riuscì di refugiarsi in Costantinopoli, ove fu assai beneviso dall’imperadore. Indi a poco, dimentico che il principe Arechi avea messo a repentaglio il proprio Stato per soccorrere il suo genitore, non desistette mai dall’istigare l’imperadore a mandare in Italia il maggior nerbo del suo esercito per privare Grimoaldo del principato. E infatti Costantino, assecondando i suoi disegni, adunò in breve tempo un’armata assai poderosa, con la quale Adelgiso approdava in Italia, e, ingrossato l’esercito di alcune truppe greche che colà stanziavano, lo divise in due parti. E mentre altri duci invadevano le terre d’Ildebrando, duca di Spoleto, egli sul beneventano espugnò Teano, e Nocera con altre città e castella, e mandò a guasto tutto il principato. Ed anzi il Collenuccio afferma che in quella campagna cadessero in balìa dei greci tutte le terre poste tra Benevento e il fiume Pescara. Però a Grimoaldo non cadde l’animo per le soverchianti forze nemiche, ma, collegatosi col duca di Spoleto, mosse con franco animo contro i greci, e li vinse compiutamente in una battaglia campale, in cui, a detta di varii scrittori, perì lo stesso Adelgiso, riportando in tal modo condegna pena della sua leggerezza e ingratitudine. I greci, dopo una tanta rotta in cui giacque il fiore della loro armata, mal sapendo a qual partito appigliarsi, proposero a Grimoaldo un trattato di pace, e questi vi acconsentì assai volentieri, per esimersi dalle molestie d’una lunga e inutile guerra, e anche perchè non era avido di conquiste, agognando unicamente di serbare incolume il suo Stato da ogni straniera dipendenza.

Nell’anno 792 fu eletto abate di Montecassino Gisolfo beneventano della nobilissima stirpe dei duchi longobardi. E da ciò nacque che il principe Grimoaldo, voglioso di largheggiare di privilegi col detto abate, rese libere tutte le donne che eransi legate in matrimonio con i servi de’ cassinesi dai tempi del primo Gisolfo duca di Benevento sino ai suoi giorni, e di più fece dono alla Badia del celebre Monastero di S. Maria, posto nei confini di Acerenza.

[p. 21 modifica] Ma Grimoaldo era già caduto in disfavore del re Carlo per alcuni fatti che mi farò brevemente a riandare. Tra le città dell’antico ducato beneventano che, secondo i patti, facea d’uopo consegnare al pontefice Adriano, era la nobilissima città di Capua, i cui abitanti aveano da tempo fatto sacrali mento di non riconoscere, dal papa in fuora, altra signoria. Ciò incresceva altremodo a Grimoaldo che, recatosi in Capua, mise in opera ogni arte a svolgere i Capuani dal loro proposito, e incitarli a sottrarsi dalla dipendenza della sede apostolica, e non si ritenne di aprire alla libera il suo animo anche in presenza dei messi del re Carlo. Di un tale fatto Adriano mosse gravi lagnanze al monarca francese ma pare che non producessero alcuno effetto.

Grimoaldo avea per qualche tempo attenuta la promessa di tondersi la barba, e d’imprimere nelle monete d’oro il nome del re Carlo. Inoltre fece demolire le mura di Consa città che, atteso il sito, avrebbe potuto assai bene difendersi senza mura; e assentì pure che fosse diroccata Acerenza; ma nel tempo stesso ne edificava un’altra più forte, e fece infine anche atterrare alcune mura di Salerno, ma poco dopo ordinava che se ne costruissero delle altre a presidio, per le quali la città si rese assai più munita e sicura.

Però non andò molto che, avendo dato felice assetto alle cose dello Stato e riordinata la milizia, divisò di abolire qualsiasi vestigio di sudditanza straniera. E quindi omise di segnare il nome di Carlo nelle monete e nelle scritture, e non curò di demolire, secondo gli ordini ricevuti, e predette fortificazioni, sciogliendosi compiutamente in tal modo dalla dipendenza di Pipino re d’Italia che risedeva in Pavia. Carlo Magno, adontato per essersi Grimoaldo atteggiato a principe indipendente, stabilì di soggiogare i suoi stati, e attese, per mandare in atto i suoi divisamente che gli si porgesse propizia l’occasione, la quale non tardò molto a presentarsi.

A Carlo Magno molto incresceva, che, divenuto dominatore di quasi tutto l’occidente, il solo Grimoaldo non si fosse piegato ai suoi voleri. E però, volendo effettuare [p. 22 modifica]i suoi disegni contro il principato di Benevento, affidò la più eletta parte del suo esercito al figlio Pipino e a Virginio duca di Spoleto, commettendo ad amendue di stringere d’ogni parte Grimoaldo, e chiudergli ogni via di scampo; e ad essi poco dopo si aggiunse l’altro figlio di Carlo Magno, Ludovico re dell’Aquitania.

Pipino era giovine d’anni, di spiriti irrequieti, e assai proclive alle armi, e oltre a ciò portava odio profondo a Grimoaldo, sì per aver fatto contro di esso le prime armi, e sì perchè, avido di gloria, ambiva di oscurarne la fama col renderlo tributario della Francia.

Ma Grimoaldo, non punto sfiduciato di dovere da solo combattere contro le numerose schiere de’ Franchi, apparecchiò la maggiore armata che potette, non trasandando alcuna cosa che avesse potuto maggiormente assicurare la difesa dei suoi stati.

La campagna si aprì con favorevoli auspicii pei francesi, e Pipino, fatto audace per una prima rotta data ai longobardi, mandò sossopra buona parte del principato, e quindi si mosse a furia contro Benevento, ove il principe Grimoaldo erasi ridotto con numeroso presidio.

In quel memorabile assedio i franchi esaurirono tutti i possibili sforzi per espugnare la città capoluogo del principato, lusingandosi di metter fine subitamente alla guerra. Ma la città fu eroicamente difesa non solo dai soldati cittadini, ma pur anche dal principe Grimoaldo, il quale, nel fiore degli anni, e prode della persona, prendea parte a tutte le imprese, e, in ogni scaramuccia, era sempre il primo a investire i nemici, geloso che altri gli andasse innanzi nella gloria di ributtare i nemici dalle mura. E però non pago di provvedere da egregio capitano alla difesa della città, veniva spesso alle mani in campo aperto coi francesi e sempre con suo vantaggio, mantenendo in tal guisa alto; l’onore delle armi beneventane.

Tutto ciò scemava l’ardimento ai francesi, e a Pipino cominciava a venir meno la speranza della vittoria. E quando poi difettarono le vettovaglie, a Pipino cadde l’animo [p. 23 modifica]del tutto; ma tuttavia l’assedio si prolungò per qualche altro mese, finché, posta giù ogni speranza, fece ritorno Pipino con parte delle sue schiere in Roma, per assistere alle feste che si sarebbero celebrate per l’incoronazione del padre. Nel giorno 25 decembre dell’anno 799 fu Carlo Magno in S. Pietro assunto dal pontefice Leone III alla dignità d’imperadore romano, e il suo figlio Pipino dichiarato re d’Italia. E in tal modo consumavasi il più grande evento che si sia avverato per mille e più anni nella storia Europea, quello che felicissimo apparve senza dubbio a quei dì, ma che produsse poi l’infelicità di molti popoli, e principalmente degli italiani. (Cesare Balbo)

Dopo la sua incoronazione, Carlo Magno volse tutti i suoi pensieri alla conquista del principato di Benevento, e Pipino, tornato al campo, riprese con nuove truppe la guerra contro Grimoaldo, invadendo a prima giunta l’Abruzzo. Indi strinse d assedio la città di Chieti che, difesa da un bravo comandante, a nome Roselmo, trattenne lunga pezza sotto le sue mura l’intera armata nemica; finché fu presa d’assalto e distrutta, e il comandante Roselmo fu tratto prigioniero in Francia. Ma per la rigidezza della stagione non fu dato in quell’anno ai francesi di poter varcare i confini dell’Abruzzo, e addentrarsi nel principato.

Indi Pipino mise l’assedio alla città di Ortona, che dopo breve resistenza si diede a discrezione, e poscia si avanzò celeramente nel cuore della Puglia, e con tutto l’esercito cinse d’assedio la città di Lucera, che nel corso di più mesi fu segno a molti e fierissimi assalti, e che infine, strema di viveri e di difensori, gli si arrese.

Pipino gioì molto della conquista d’una città sì importante per la sua postura e, dovendo sospendere le ostilità, per essere sopravvenuto l’inverno, vi lasciò un vigoroso presidio, e a comandante lo stesso Guinigiso, duca di Spoleto. (Eginardo) Ma anche Grimoaldo non disconobbe quanto rilevava il riprender Lucera, prima che cessasse la tregua, o perciò, non appena seppe che il grosso dell’esercito nemico erasi dilungato, accorse col fiore delle sue truppe per [p. 24 modifica]espugnarla, combattendola con tanto accorgimento e sapienza di guerra che in poco tempo l’ebbe in suo potere con tutto il numeroso presidio francese, e facendo prigioniero lo stesso Guinigiso duca di Spoleto. (Erchemperto, Eginardo). E per tal modo col solo riacquisto di Lucera l’accorto Grimoaldo rendette vane tutte le imprese del re Pipino; benché non fosse riuscito di stornare il prigioniero Guinigiso dalla giurata fedeltà al re d’Italia, e indurlo a tentare di liberarsi dal giogo francese e di ridonare ai suoi stati la primiera indipendenza.

Non si legge negli storici che la guerra tra Pipino e Grimoaldo fosse continuata nel resto di quell’anno, sicché inchino a credere che, dopo la presa di Lucera, si prolungasse di molto la tregua, durante la quale al prigioniero Guinigiso duca di Spoleto fu resa la libertà dal principe Grimoaldo. (Eginardo, Annalista Salernitano).

Non trascorse per altro assai tempo che Pipino con un esercito molto più numeroso apri la terza campagna contro Grimoaldo, e, dopo alcuni fatti d’armi di lieve importanza, pose nuovamente l’assedio a Lucera, e per vincerne la resistenza mise in opera tutte le arti di guerra note in quei tempi. Grimoaldo difese strenuamente la città, non trasandando alcun mezzo per impedirne la resa; ma tuttavia Lucera, dopo mirabili sforzi, fu presa d’assalto, e Pipino, imitando a sua volta la generosità usata da Grimoaldo al duca di Spoleto, mandò libero l'intero presidio. Grimoaldo, dolente per l’insuccesso dell’impresa, sebbene non perduto d’animo, tornò in Benevento, risoluto di non tollerare la signoria straniera.

La guerra tra Pipino e Grimoaldo continuò a più riprese con diversa vicenda, e in tutto quel tempo il principato di Benevento fu contristato da continue calamità.

Egli è ritenuto dai più accurati storici che, nelle intramesse tra una campagna e l’altra, Pipino di tempo in tempo spediva un legato a Grimoaldo cori questa intimazione: Volo quidem et ita potenter disponere cogor, ut sicuti Arichis, genitor illius, subiectus fuit quondam Desiderio Regi [p. 25 modifica]Italiae, ita sii mihiet Grimoaldus. E si ha che a tali proposte Grimoaldo soleva rispondere:

«Liber et ingenuus sum natus utroque parente:
«Semper ero liber, credo, tuente Deo».

Ed è opinione degli storici che a una tale risposta preso dalla collera Pipino, mettesse da parte qualsivoglia pensiero di pace e di accordo, e niente trascurasse per debellare compiutamente il principe Grimoaldo.

Pipino si tenea sicuro che a lungo andare avrebbe riportato la palma sul suo emulo, confidando nel numero e nella nota bravura delle sue truppe. Ma Grimoaldo dall’altro canto non rimetteva punto della sua costanza, poichè molta fiducia riponeva nelle sue ben munite città, e nell’antico amore per la indipendenza che nutrirono sempre in ogni epoca le popolazioni dell’antico Sannio. E affinchè maggiormente spiccasse il suo valore, e per dare animo alle sue truppe, ostentava di tenere a vile gli eserciti francesi, la qual cosa non è a dire se contribuisse efficacemente a rinfocolare gli sdegni di Pipino, e a confermarlo sempre più nei suoi propositi di vendetta.

Ma ciò nonostante non venne fatto a Pipino di soggiogare il principato di Benevento, e non debbo trasandare che anche la fortuna parve assecondasse le speranze di Grimoaldo; imperocchè più di una stata infierì la peste sì fattamente nelle truppe francesi da essere astretto Pipino a levare 1 assedio e far ritorno, simile a un vinto, ai suoi stati.

Grimoaldo uscì di vita a Salerno nel 2 febbraio 806 con indicibile cordoglio del suo popolo, e la sua perdita prematura riuscì assai dannosa al principato. Tutti gli scrittori furono concordi nel tessere le lodi di questo modello di principe e di cittadino, degno emulo delle preclari virtù del suo padre Arechi. Egli fu di raro senno ed accorgimento, assai strenuo guerriero, e il solo per avventura dei principi beneventani a cui neanche gli storici stranieri si mostrano avari di lode, per avere combattuto più volte con fausto [p. 26 modifica]successo gli eserciti francesi. Era bello di persona, geniale e arguto nel conversare, di maniere insinuanti e cortesi, e d’animo mite co’ suoi vassalli. Fu copioso donatore agli Istituti religiosi, ma più che in altro, e in ciò consiste la massima delle sue lodi, profuse le sue dovizie nel sovvenire ai poveri e nel redimere gli schiavi.

Il cadavere di Grimoaldo fu riposto nel sepolcro che racchiudeva le ceneri del padre e del germano; ma i beneventani gli eressero in seguito un mirabile tumulo nella Chiesa di S. Sofia. Poscia — premorto al principe Grimoaldo l’unico suo figlio a nome Godefrido -i popoli dei varii stati che componeano allora il principato di Benevento, si divisero, come or si direbbe, in partiti, per la elezione del suo successore; ma, a bene intendere la causa delle dissenzioni che si avverarono in tale occasione, credo indispensabile di accennare un fatto che produsse dopo qualche tempo la funesta divisione del principato di Benevento.

La città di Salerno, per essere stata la dimora prediletta dei principi Arechi e Grimoaldo— i quali, dopo di averla ampliata, la decorarono di bellissimi edifizii— era divenuta più che altra città abbondevole di agi di ogni maniera, e fruiva largamente delle dovizie dello Stato, per cui prese a gareggiare con la città capo, vincendola in lusso e in frequenza di feste, e contendendole in ogni cosa il primato. Ed il suo esempio era seguito dalla vicina Consa, che partecipava degli stessi vantaggi, emula anch’essa di Benevento. Però i beneventani non solo, ma altresì i Capuani ostavano a tutto potere alle pretese delle due città rivali, e nulla trasandarono per isviarne il commercio e prevalere ad esse nelle cose di governo, affine di scemare gradatamente l’importanza della regione di Salerno e di Consa.

Per queste gare i Salernitani e gli abitanti di Consa proposero a successore di Grimoaldo il figlio di Adelchi, nella lusinga che costui, uniformandosi agli esempi del padre e del germano, avrebbe del pari largheggiato di privilegi con le città di Salerno e di Consa. Ma i beneventani e i Capuani, a stornare tali pratiche, composero [p. 27 modifica]un’assai numerosa fazione, la quale prese con grande ardire a caldeggiare la elezione del figlio d’Ermenrico, cittadino beneventano addetto all’ufficio di tesoriere del defunto principe; per aver dato nell’ultimo assedio di Benevento le più segnalate prove di valore, mostrandosi in ogni occasione il più gagliardo ed audace tra i cavalieri di quel tempo, e perchè erasi sempre dichiarato avverso agli emuli Salernitani e Consani. In quell’acre contesa prevalse la fazione dei beneventani, e fu eletto principe il loro candidato, il quale assunse il nome di Grimoaldo IV.

L’anonimo Salernitano ed altri cronisti narrano che appena Grimoaldo IV prese a reggere Benevento si ruppe nuovamente la guerra contro la Francia, per cui un esercito francese devastò diverse contrade, e che, tenutosi in Benevento consiglio di guerra, si propose di mettere a partito se fosse stato più condicevole di render tributario della Francia il principato di Benevento, o per lo contrario di continuare la guerra. Il Gastaldo Maione fu il primo a sostenere l’opportunità del tributo, il quale, come egli asseriva, per la prosperità dello Stato non sarebbe parso grave ai cittadini; ma prevalse invece il magnanimo consiglio di Ransore conte di Consa, il quale stimò doversi anteporre con animo sicuro alla ignominia del tributo qualunque maggior danno che potesse soprastare ai cittadini, e lo stesso disfacimento del principato.

Si venne quindi a giornata campale, e, stando gli eserciti l’uno a fronte dell’altro, un francese — venuto in grande ardire per qualche favorevole successo riportato in piccole scaramucce — ebbe vaghezza di combattere corpo a corpo con Ransore, che si giudicava da tutti essere il più valoroso guerriero dell’armata di Grimoaldo, e lo mandò per un suo donzello a sfidare; ma fu assai male avventurato in quell’impresa, poichè al primo scontro vi lasciò miseramente la vita. Un tal fatto inanimò i longobardi, ed indi a poco, venutosi da ambo le parti alle mani, i francesi furono posti in rotta, e gran numero di essi perirono sul campo. Ma il contento d’una tale vittoria fu amareggiata dalla morte del prode Ransore, che [p. 28 modifica]ebbe solenne e pomposo funerale. Dopo di ciò i soldati si diedero a rintracciare per ogni dove il Gastaldo Maione, che non era stato veduto da alcuno nella battaglia, e infine lo rinvennero rimpiattato per la paura sotto la macchina d’un molino, donde venne condotto nel campo sul dorso d’un asinello, e d’ordine di Grimoaldo, a eternarne il vituperio, fu percosso con verghe sugli omeri per mano di schiavi.

A questi fatti, narrati diligentemente dallo storico Salernitano, non si porge fede da molti scrittori, e segnatamente dal Muratori, il quale scrive intorno a siffatta guerra che, tacendo Erchemperto una tale vittoria, probabilmente potrebbe non avere altro fondamento che le dicerie del volgo. Ma, ad onta d’una sì autorevole opinione, io ritengo che l’anonimo Salernitano, avverso sempre al principe Grimoaldo IV, non sarebbe stato propenso ad esaltarne le gesta. E oltre a ciò è pure a riflettere che se all’ingiuria del tempo avanzarono gli annali di Carlo Magno e di Ludovico il Pio, mancano affatto quelli di Pipino, e del primo nato di Carlo; e che non è mica verosimile che i longobardi si sarebbero di buon grado sottoposto a un ingente tributo, senza tentar primamente la sorte delle armi. Laonde per queste ragioni fa d’uopo convenire che se, per la inopia delle notizie storiche di quei tempi, non è dato di acquistare una compiuta notizia dei narrati avvenimenti, abbondano però le ragioni per ritenere almeno assai probabile i fatti esposti dall’anonimo salernitano.

La guerra adunque coi francesi si sarebbe protratta sino all’anno 812 in cui Grimoaldo si vide astretto a piegare il collo alla necessità delle cose, e sottostare al pagamento di un annuo tributo alla Francia; imperocché tanto Eginardo che gli altri annalisti francesi, trattando dei fatti che si successero in quell’anno, scrivono: «Pax (dunque prima vi fu guerra) cum duce Beneventanorum Grimoaldo et tributi nomine XXV millia solidorum auri a beneventani soluta». E dopo il convenuto accordo coi francesi, bramoso Grimoaldo di ridare ai suoi popoli

«La da tant’anni lacrimata pace»

[p. 29 modifica]seppe amicarsi anche i Napoletani che gli si erano dichiarati infesti nei primi anni del suo governo.

Pure tutto questo non riuscì efficace a scemare il novero dei nemici che Grimoaldo erasi acquistato anche in Benevento con alcuni esempi di malinteso rigore, pei quali scapitò non poco la sua popolarità. A capo de, suoi nemici era un tal Dauferio, uomo di grandi attinenze, e che esercitava i primi ufficii civili, il quale tese delle insidie contro la vita del principe in un certo luogo presso il castello di Vietri in quel di Salerno; ma Grimoaldo, avendone avuto sentore, potè trapassare oltre senza offesa della persona, e ordinare la subita cattura dei congiurati, sicché Dauferio ebbe tempo appena di rifugiarsi in Nocera, e non andò molto che, veggendosi anche colà mal sicuro, si ricoverò in Napoli. Di ciò prese grande sdegno Grimoaldo che con poderosa armata tentò l’assedio di Napoli, per trarre memoranda vendetta dell’ospitalità largamente concessa al ribelle. I napolitani, non dando segno di temerlo, con molta audacia gli si fecero incontro, e appiccatasi tra essi una grande battaglia, venne fatto a Grimoaldo di riportare una compiuta vittoria; per modo che ben pochi dei combattenti napoletani ebbero la ventura di sottrarsi alla morte. Dauferio e il duca di Napoli datisi a dirotta fuga, e inseguiti dal nemico sino a Porta Capuana penetrarono a mala pena nella città, ove neanche si videro sicuri per essere stati investiti dalle donne degli uccisi, le quali coi visi stravolti e le armi in pugno gridavano: restituiteci, o crudeli, i nostri cari, che la vostra malvagità ci strappava dalle braccia. La città di Napoli si vide incorsa allora in assai arduo pericolo, e il duca non sapea vedere in quel frangente alcuna via di scampo. Ma Grimoaldo, niente avido di conquiste, non fu punto restio a concedergli la pace, con questo che gli si pagassero le spese di guerra, e a Dauferio, caduto in suo potere, con un esempio di clemenza, rarissimo per quei tempi, fece grazia della vita.

Ma se il principe Grimoaldo potè non soccombere in due congiure sottilmente ordite contro la sua persona, non corse assai tempo che fu vittima di una terza, a cui diede [p. 30 modifica]causa il suo poco accorgimento politico e la leggerezza del carattere.

Egli avea in molto pregio Sicone, nobile longobardo, nativo di Spoleto, ma vissuto da assai tenera età in Benevento, come ne fanno testimonianza non solo alcuni cronisti, ma lo stesso Giovanni Diacono: e gli pose tanto affetto da conferirgli, benchè straniero, col titolo di Gastaldo, la contea di Acerenza, alla quale aspiravano parecchi tra i più distinti cittadini di Benevento; lacchè contribuì a suscitargli contro non pochi nemici. Sicone, stando ai governo di Acerenza, ebbe a dire col suo confinante Radelghiso conte di Consa, e le loro dissenzioni andarono tant’oltre, che Sicone con molta mano di armati diede il guasto ad alcune terre del conte. Costui allora, credendo offesa in un tal fatto la dignità del principe, dipinse coi più neri colori a Grimoaldo la condotta del suo beneficato. E quegli mandò un messo a Sicone a intimargli che si fosse presentato in corte per dare le sue discolpe. Sicone, che temeva il giusto risentimento di Grimoaldo, seguì assai volentieii il consiglio de’ suoi fidati, che gli dissuasero l’andata a Benevento, e quindi attese a fortificarsi in Acerenza. Grimoaldo vi accorse per prenderla d’assalto, ma siccome l’assedio andava in lungo per esser posta la città in sito inespugnabile, così egli, d’indole irrequieta ed istabile, tornò in Benevento, affidando interamente quell’impresa all’irato e bollente Radelghiso conte di Consa. Ma costui, tentando in tutti i modi il nemico per tirarlo a far seco giornata fuori le mura di Acerenza, soprappreso dai figli di Sicone, fa in un bel giorno disfatto compiutamente; onde a fatica potè mettersi in salvo colla fuga.

Il principe Grimoaldo, quando gliene fu recata la novella, benchè in pubblico s’infingesse di provare cordoglio per la rotta toccata a Radelghiso, non seppe tuttavia celare ai grandi della sua corte che gli godeva l’animo di vedere umiliato in quell’occasione l’orgoglio del conte di Consa. Costui, come ebbe udito ciò, fece proponimento di vendicarsi del principe, e rappaciatosi tosto con Sicone, [p. 31 modifica]solleticandone la cupidigia, trovò subito modo di metterlo nuovamente in grazia di Grimoaldo. L’anonimo salernitano asserisce che Grimoaldo fu tratto a morte dai figli di Dauferio coll’aiuto di un tale Agelmondo, uomo rotto ad ogni maniera di malvagità; ma Erchemperto per lo contrario narra che Radelghiso conte di Consa e Sicone Gastaldo di Acerenza, penetrati con inganno nella camera del principe infermo, lo finirono con varii colpi di spada; e io ritengo assai più probabile l’opinione dell’anonimo, la quale fu eziandio abbracciata dalla massima parte degli scrittori posteriori e dai cronisti locali.

Non è però a tacere che gli uccisori di Grimoaldo, non solo non colsero alcun frutto dal nefando assassinio, ma tutti chi prima, chi dopo, ne espiarono la pena; sicché in questo fatto parve avverarsi a capello la sentenza del poeta che

«. . . . . . ben provvide il cielo
«ch’uom per delitti mai lieto non sia.

E in effetti Agelmondo, subito dopo l’uccisione del principe, cadde in un fiero delirio, e col recere gran copia di sangue in tre giorni uscì di vita. E Dauferio, vinto dal rimorso di avere istigato i proprii figli ad uccidere il suo principe benefattore, per fare ammenda del suo fallo, trasse in abito da penitente, secondo l’usanza dei tempi, a visitare il santo sepolcro con un grave sasso sugli omeri, e quel sasso poi, come leggesi nelle nostre cronache, si serbò lunga pezza nella chiesa di S. Maria in Benevento.

E questa fu la miserabile fine di Grimoaldo IV, principe di Benevento, le cui non comuni virtù eguagliano per lo meno i difetti dell’avarizia e della leggerezza, di cui fu molto severamente ripreso da storici non imparziali, e con lui si chiude il periodo più glorioso del principato beneventano.