Il secolo che muore/Capitolo IV

Capitolo IV

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Capitolo IV.

LA FANCIULLA

O lettore, con la facilità con la quale tu lhai voltata questa pagina, il tempo fece passare dieci anni dalla morte dello zio Orazio; tienti per avvisato; ed ora ripiglio la storia, dove intreccerò le cinque vite dei figli di Marcello e d’Isabella, come costumano coi piombini le fabbricatrici di cordone.

Ab Jove principium fu dettato degli antichi; ai giorni nostri non corre più. I numi stessi avuta la disdetta, sfrattansi dai cieli, ne più ne meno dei cooni per San Martino: quei loro deliziosi Olimpi e cotesti loro terribili Averni chiudonsi come le botteghe per le feste d’intiero precetto. Della magnifica eredità dei figliuoli di Saturno, messa in liquidazione, ohimè! che avanza? Qualche soggetto di [p. 124 modifica] pittura da condursi pei soffitti delle case o pei ventagli delle donne. Donne e fanciulle si fanno vento con Giove armato di fulmini, mentre principi e Parlamenti sbigottiscono di un papa armato con le scomuniche.

Non solo le umane, bensì le divine cose durano finchè le sostenga la forza; e Giove stette, non per le folgori, in cielo, ma si pei carnefici, che gli prestavano in terra, re, sacerdoti e popoli; sì, importa del continuo rammentarlo, anco i popoli, i quali troppo spesso dimostrarono a prova istinto di sacerdote e di tiranno.

Dunque diamo di frego a Giove, ma potrò fare altrettanto con lo Amore? Non è concesso; però che sebbene lui salutassero Dio insieme con Giove e non possieda guardie di pubblica sicurezza nè giandarmi, tuttavolta egli regni sempre e governi.

E questo avvenne per la ragione che Amore fa una maniera di Talleyrand divino, il quale giustificava, anzi vantava le sue giravolte politiche, dicendo avere servito lo Stato, che rimane, non i principi, che se ne vanno, così Amore compiacque alla natura eterna, non agli Dei, caduchi anch’essi e mortali. Servendosi dell’ali si voltò in un attimo alle insegne del vincitore; anco Mercurio potè fare così, e poichè questi ebbe in sorte maggior copia di ali, tu lo trovi in troppo più luoghi che Amore.

Mercurio in Chiesa, Mercurio in Camera, Mercurio [p. 125 modifica] in Corte, Mercurio fuori e dentro le stanze dei ministri, Mercurio dentro e fuori dei Parlamenti; nell’aria, nella terra, nel fuoco e nell’acqua Mercurio; Mercurio per la stagione che corre si è spinto al calore dell’olio bollente, e quivi sta. Mi tarda andare a Roma per vedere la Basilica del Vaticano consacrata a Mercurio.

Innumerevoli, fin qui, le trasformazioni di Amore, ne accennano cessare per ora. Bisogna essere giusti, Amore 1asciò piangendo Psiche, la celeste sua sposa, e Venere degenerata madre l’ebbe a pigliare per un orecchio, onde trarlo pei ginecei greci e romani; dove, fiutato il tempo, appena gli venne fatto fuggì via e si diede a bazzicare con un visibilio di tenere Marie, di più tenere Caterine e Brigido e di tenerissime Terese; nè parve meno leggiadro aleggiare intorno le chiome bionde della bella di Magdala, o su i salteri dei veli e le cocolle, che un dì sulle ghirlande di mirto e di rose di Aspasia o di Flora. Abelardo ed Eloisa informino.

Come colui che imprende lontane navigazioni per procacciare tesori alla famiglia, l’Amore, tenendo sempre fermo il domicilio nel cuore della donna, militò sotto le insegne della religione cristiana, e fu più volte Crociato in Asia; certo alla presa del Tempio di Gerusalemme il sangue umano arrivò a mezza gamba dei Crociati; e che rileva? Non per questo meno, anzi giusto per questo, i pii guerrieri [p. 126 modifica] obbedivano all’estro dell’Amore religioso. Amore svelse i figli dalle braccia materne e i mariti da quelle delle mogli, e gli frombolò sopra i campi di battaglia, dove reso sacro il sangue versato, e, convertito le belve in martiri, santificò la strage: acerbo mostrava allora il sopracciglio, e ipure piacque, dacchè ad alta voce esclamasse: io sono Amore di Patria e di Libertà. Amore si condusse, non badando pericoli o travagli, sopra lo plaghe estreme del mondo per esplorare i segreti del firmamento, o in mezzo ai ghiacci eterni rinvenire un passaggio al polo, ovvero scese giù nelle viscere della terra per leggerne la storia nei vari strati della materia che la compongono, come nelle pagine di un libro, e volto ai mortali con sembiante austero egli disse: abbiatemi caro, eche io sono l’Amore della Scienza. Né Amore solo si trasforma, ma si moltiplica, e posta la radice nella famiglia, quivi, portentoso vilucchio, si rintreccia con lo amore dei consorti, dei figli e dei fratelìi: amori non affatto uguali negli atti e nelle sembianze, e non di manco somiglievoli come chi nasce da una medesima schiatta.

E poichè natura volle che la metà del genere umano fosse di femmine, nel Pater noster delle quali amore tiene luogo del paneo quotidiano, due cose per me e per te, o lettore, hanno a resultare chiare, che senza Amore tu non potrai comporre nè città, nè provincia, nè famiglia, nè romanzi e nè [p. 127 modifica] nulla; e che o repugnanti o nolenti, ci tocca a parlare, di nuovo parlare, e sempre parlare di donne. Fato dei fati è la donna!

Dunque io vi parlerò di Eponina, la stupenda fanciulla; perchè così l’avesse chiamata Orazio, tu se ne hai vaghezza potrai riscontrarlo nel paragrafo XXI dei Ragionamenti di Amore del buon Plutarco, e ti conforto a farlo, imperciocchè tu leggerai una pietosissima, non menochè mirabile storia. Ora io dovendo mettere parole di Eponina, vado incerto se deva o no descriverne il sembiante: la critica con molesto ronzio mi bifonchia nell’orecchio destro: «la bellezza della eroina di un libro, già si sa, la è rima obbligata, e siccome gli scrittori s’incaponiscono a dimostrartelo, per filo e per segno, così condannano il lettore al supplizio di udirne una descrizione a ritaglio, dalla quale, raccolta insieme, tu non troverai, per quanto tu ti ci arrabatti sopra, modo di formarti, neppure alla lontana, una idea di cotesta bellezza. Che se, per un impossibile, su cotesto postille tu giungessi a disegnare un viso, tu li comporresti tutti eguali come le ciliege che tu cogliessi dal medesimo albero.»

La critica, a senso mio, se ne piglia troppo, e quello che dice non è vero niente: anco i pittori, quando ritraggono bei volti di donna, hanno a dipingere sempre e nasi, e occhi, e bocche, e l’altro [p. 128 modifica] che viene dopo, o che per questo dovrebbero buttare i pennelli fuori di finestra? Infinita è la varietà della natura; ogni creatura forma un tomo a parte: nel creato non occorrono sinonimi. Che, se lo scrittore non basta a somministrare al lettore tratti che gli valgano ad immaginarsi la bellezza descritta, è segno certe che non gli arrisero le Muse, e la Natura non glie lo volle dire; e se il poeta non mette varietà nelle descrizioni significa che trovandosi padroneggiato da un tipo (forse la faccia della donna sua) dimenticò l’obiettivo dell’arte pel soggettivo della passione, e lo incastra in tutti i suoi componimenti, come Raffaello adoperava della Fornarina nei suoi dipinti.

Eponina non ritraeva por nulla i contorni delle statue greche, che bellissime nel marmo, mi farebbe paura riscontrare nei volti di donna: sopra cotesti ovali di perfezione disperata, sopra cotesto linee rigide e’ sembra che tutto abbia a scivolare, suoni, aliti, baci, lacrime ed affetti: l’Amore, accarezzandoli, ci si reciderebbe le mani. Tale non compariva Eponina. La fronte avea larga e prominente alla radice dei capelli, poi con dolco curva rientrava fino sulle sopracciglia, donde prendeva principio un’altra curva delicata, quella del naso alquanto vòlto in su, quasi per aspirare quanto di vita alitasse nell’aria. Le chiome, composte ora in una foggia, ed ora in un’altra, e tutte leggiadre, ella teneva strette intorno [p. 129 modifica] alle tempie; se le avesse sciolte le avrebbero ventilato dietro le spalle come ale di angiolo, tanto erano copiose e dorate. Sotto le palpebre sempre mobili1 scintillavano gli occhi, non azzurri, non neri, bensì di un colore strano, grigi come ferro troncato, composti nelle pupille di cerchi concentrici, ognuno dei quali mandava il suo raggio, donde riuniti in fascio prorompeva un getto di luce elettrica da rassomigliarsi a quello che emana a volta a volta dagli specchi giranti dei fari. Il contorno del volto, alquanto depresso sulle guancie, glielo faceva comparire piuttosto lungo che no; bianca, non candida2 della bianchezza dell’alabastro, del continuo tinta, secondo le impressioni che le venivano di fuori o dei pensieri che le turbinavano dentro, di tutte le più soavi sfumature dello amaranto. La forza straordinaria dei muscoli dei suoi labbri non consentiva ad Eponina atteggiarli al sorriso; s’ella (e ciò accadeva di rado) li apriva all’allegrezza, dava in ghigni strepitosi a modo di baccante, e se alla favella, ovvero al canto, era una Musa.

Il re poeta scrisse che il firmamento racconta la gloria di Dio, ed ha scritto bene; così del pari il Genio, o vuoi l’altissimo Intelletto, manifesta la [p. 130 modifica] sua presenza sopra la fronte della creatura umana. Porse non uscì mai dalle mani del creatore arnese come Eponina, adattato a sentire ed a rendere le più sottili vibrazioni del dolore e del piacere; vera arpa eolia esposta agli aliti della natura. Ella copiosa nel dire leggiadramente arguto, ella inesausta nelle fantasie, ma soprattutto portentosa nel suono e nel canto. La sua voce si sviluppava come una larga onda ch’empiesse ogni cosa d’intorno d’inusitata contentezza; quando poi si rompeva in miriadi di note, al pari dell’acqua della cascata, la quale balzando di roccia in roccia si sbrizza in innumerevoli stille giocondate dai colori dell’iride, allora uno spolverio di luce, un acuto diletico, un tintinno inebriante investiva i sensi degli ascoltanti, i quali sentivano consumarsi o pure non avrebbero a verun patto consentito che cessasse cotesto voluttuoso tormento, nel modo stesso che Clizia infortunata quanto più si disfà più s’innamora del Sole.

Queste già orano doti più che bastanti per assicuraro alla nostra fanciulla la vita piena di affanni, € tuttavia ella ne possedeva altre parecchie e non meno gravi: troppo superiore a quanti la circondavano, non lo poteva celare a se stessa nè ad altrui; a che giova mostrarci in atti ed in parole modesti, quando il fatto manifesta ad ogni momento la tua preponderanza? Ragionando, mercè la grazia del dire e la potente dialettica, riduceva al silenzio [p. 131 modifica] quanti si fossero fatti ad argomentare con lei; vero è bene che il torto stava sempre da parte di loro, ma se fosse stato alla rovescia, sarebbe tornato lo stesso; e la madre, innamorata della sua prole, sempre lì ad attizzare, invece di spegnere la vampa. Punisconsi le madri per disamore ai figli, ed è giusto; ma importa sapere che più si trovano madri le quali perdono i propri figli per soverchio affetto. Né qui forse giaceva il guaio maggiore, che Eponina, con quel suo veemente ingegno, non poteva essersi rimasta dal tuffarsi intera nelle eccessive dottrine, che da molto tempo hanno spiccato il bollore intorno alla emancipazione della donna. Qui non cado il destro di ragionare su questo argomento, ma si avverta che sempre il soverchio ruppe il coperchio; o cho infermo infastidito di giacersi sopra un fianco non guarì mai per subito voltarsi sull’altro. Badino le donne che oggi, come in antico potrebbe accadere che l’albero della scienza non fosse l’albero della vita: non si stieno a confondere, esse avranno sempre bene meritato dell’umanità e di Dio educando figliuoli come gli antichi Gracchi, o come i moderni Cairoli. Raccontano le vecchie storie come Uguccione della Faggiuola, standosi a Lucca, udita la ribellione di Pisa, partì in fretta e in furia per ricondurla in sua potestà; votata appena Lucca, questa gli si rivolta a sua posta, sicchè perse Lucca e non riacquistò Pisa: ora voi [p. 132 modifica] donne, che avete intelletto di amore, potrebbe darsi che guadagnando poco (che nulla io non lo voglio dire) nella gloria, scapitaste moltissimo nell’affeziono.

E per disgrazia capitarono sotto gli occhi di Eponina i libri della donna, che, se la fama narra il vero, quantunque sposa altrui, tolse, invereconda, il nome dell’amante; nè paga del commesso errore, voltò le forze dello ingegno a giustificarlo, anzi a voltare la colpa in merito. Lelia, Valentina e Indiana (qualunque possa giudicarsi il merito letterario di cotesto opere) vincono in infamia di assai i libri più osceni, imperciocchè questi infiammino i sensi, mentre quelli corrompono l’anima.

E nonostante questo, e forse appunto per questo, aggirata Eponina nel turbine delle impressioni e dogli esercizi continui, giunta al diciannovesimo anno non aveva por anco sentito verun trasporto d’amore; per ora amava sè; ma venne il tempo, che non può mancare, nel quale dell’arpa e del piano forte non vide che legni, sciapiti le parvero i suoni, fastidi, nonchè altro, la propria voce; come tratta fuori di sè guardava sovente il cielo, quasi aspettando la ispirazione dall’alto, ovvero tendeva l’orecchio per raccogliere un suono indistinto e lontano; le si gonfiava il seno con frequenti sospiri, ed anco in altro modo più sensibile le si gonfiava; negli occhi un balenio, negli orecchi un sibilo. Allora vogliosa di solitudine volgeva il passo verso il camposanto [p. 133 modifica] della città, nel quale entrata, si poneva a sedere su qualche avello in atto di dolore; ma intanto che i passeggeri nel mirarla la compassionavano, ella, mutata voglia, si sentiva presa come da smania di correre dietro a due farfalle, che parevano inseguirsi a vicenda e scansarsi, aliandosi attorno senza agguantarsi mai.

Ed anco adesso, con la nuova propensione ad amare, non l’era occorsa sembianza sopra la quale riposare lo sguardo vago, e ciò non solo perchè procedesse in sè raccolta, come si addice a donzella costumata, ma eziandio perchè quanti giovani aveva sogguardato, tanti l’erano comparsi disamabili ed esosi; pure in simile disposizione di animo, si capisce che non può tardare l’amante, e così fu. Certo giorno Eponina, in compagnia della madre, sboccando da una strada, vide la porta di un palazzo chiusa e ornata di gramaglie, con un cartello all’uscio, il quale, secondo il costume, indicava il nome e la qualità del defunto; mentre ella, tirata dalla curiosità, si accosta por leggere, ecco spalancarsi la porta e comparire il feretro; ma perchè la soglia non fosse larga abbastanza, fu mestieri che i reggitori dei lembi del tappeto si facessero innanzi, uscendo uno dopo l’altro primi.

Chi venne innanzi, di un tratto sosta a breve distanza da Eponina, onde ella potè, senza immodestia, guardarlo e riguardarlo a tntt’agio: giovane [p. 134 modifica] egli ora, e biondo, e bello della bellezza che garba tanto alle donne: volto e persona, di cui pare che posseggano il monopolio gli Apelli della Novità del Sonzogno; faccia unita, levigata dove non apparisce ruga prossima e nè manco remota; potente della freschezza dei venti anni: un cotal po’ di lanugine, sparsa a spilluzzico sopra il suo labbro superiore, ti rendeva incerto a giudicare se la natura fosse stata più parca a guarnirgli di peli la bocca, o il padre di quattrini le tasche. Ambrosia egli certo non ispirava, come gli Dei di una volta, bensì un tal quale profumo di nobilea, che fino a tutto il giorno di oggì inclusivo piace alle donne, e non meno agli uomini, qualunque cosa ne dicano in contrario. La uguaglianza por ora si abbaia da chi, o non può soverchiare, o non ha anco soverchiato: tanto vero questo, che più eccessivi detrattori del popolo abbiamo veduto quelli che pur ieri popolo erano e pel popolo parteggiavano.

Il giovane teneva la faccia vestita a mestizia, come la persona di abiti neri di tutto punto come costuma mostrarsi ai funerali. Le vesti, per attillatezza mirabili, gli parevano nate addosso; lo stesso dicasi dei guanti candidi e degli stivaletti inverniciati. Tutto questo non era molto, anzi poco, massime per donna di così alta levatura, come Eponina, e tuttavia bastò, e ce ne fa d’avanzo. E si ha un bel mettere in canzone i poeti, quando parlano di archi, [p. 135 modifica]di strali di subito ferite sotto la sinistra mamma; fatto sta che al primo contemplare la creatura destinata a piacerti, tu ti senti rimescolare il sangue dal capo alle piante, e porti la mano al cuore, come se ti sentissi trafitto, come fece per lo appunto Eponina.

Chi il giovane si fosso a lei non riuscì sapore, non si attentando domandarne, timorosa che anche la inchiesta obliqua non isvelasse alla gente la sua interna passione; oltre a ciò pativa la mala febbre che nasce dallo sgomento di avere ad amare sola. Tuttavia bisogna mettere in sodo che se la fanciulla innamorata può essere un libro chiuso per tutti, ella non può celare i pensieri suoi più riposti alla madre amorosa, la quale li vede affacciarsi e scorrere via di sulla fronte alla figliuola, come nuvole traverso il disco della luna, quando soffia il vento; ond’olla di frequente le diceva;

— Eponina, Eponina, tu hai un amante, e me lo nascondi.

— Non è vero, — rispondeva l’altra risoluta — io non ho veruno che mi ami e te lo posso giurare.

Però non poteva andare un pezzo che i due giovani si sarebbero incontrati una seconda volta, senza che se ne pigliasse pensiero la Provvidenza o il caso, dacchè, sebbene Isabella fosse parca frequentatrice di teatri e di veglie, pure conducesse talvolta le figlie a ricrearsi fuori di casa; di vero, [p. 136 modifica] certo di le venne ricapitato mi invito di donna Teresa marchesa Remoli, affinchè si compiacesse favorirla di sua presenza, con la famiglia, al ritrovo in casa sua per la prossima sera di domenica.

Ora è da sapersi che donna Teresa era vedova; la morte del marito, se non le aveva fatto bene, ne anco le aveva fatto male, ed ella stessa lo diceva, però che il marito, morendo, la istituisse usufruttuaria della sua eredità, la quale rendita, unita ai frutti della dote, le dava agio di vivere con molta splendidezza. Del restante buona femmina, piccola e tozza; dell’età oltre i quaranta un pezzo, però munita del suo bravo congedo, con la giunta del ben servito dallo Amore (ella diceva averlo dato a lui, ma non era vero, e non glie lo credevano). Dopo cotesta epoca ella si dedicò intera allo esercizio delle belle arti e della letteratura: sonava, non precisamente a fuoco, ma giù di lì: il suo debole poi erano gli epigrammi, dei quali componeva ogni dì almeno sei, arguti più di una pittima di semi di lino: pittrice implacabile e spietata, sempre in manopole e in grembiule, sempre co’ pennelli in mano: a se davanti teneva su i cavalietti ammannite quattro tele o cinque, e secondo gliene chiappava l’estro, ora col pennello stoccheggiava questa ed ora quella; eccetto il pranzo, ella faceva i suoi pasti nello studio per non perdere tempo, e sovente le accadde, nell’impeto della composizione, colorire il quadro col [p. 137 modifica] biscotto iutiiito nella cioccolata, e mettersi in bocca il pennello intriso nella tinta a olio. Adesso ella stava tentando una maniera nuova per lei, e difficilissima, una tempesta marina. In coscienza, se ella a cui la mostrava avesse domandato ex abrupto: «indovinate quello ch’è» bisognava risponderle: «per ora, se non sopraggiunge alle viste qualche cosa di nuovo, sembra una forma di cacio parmigiano messa a lessare dentro un lago di acqua di broccoli.»

O dunque di che mai erasi invaghito il defunto (ben inteso mentre era in vita)? In primis la gioventù, che come il sole rallegra ogni cosa creata, rallegrò pure ai suoi tempi la marchesa Teresa, in oltre ella portò in casa assai dote, festosa fu e amorevole e lieta; o che pretendete di più da una moglie? E poi questo di più la marchesa lo possedeva, però che artista veramente fosse in certa arte nella quale tanto era singolare quanto se ne vantava meno, e consisteva nel creare confezioni e di ogni maniera pasticci; anzi taluni dei più intimi di casa andavano susurrando che nell’animo del marchese, buona memoria, questa qualità aveva sostituito tenacissimamente ogni altro vincolo matrimoniale, collo andare del tempo (si sa) o rilassato o sciolto; su di che non proferisco giudizio, pure affermando che se i pasticci della marchesa Teresa avessero potuto stamparsi e custodirsi nella Biblioteca Nazionale, [p. 138 modifica] chi sa quale o quanta concorrenza di fama avrieno mosso col tempo ai discorsi dell’immortale conte di Cavour.

In casa della marchesa Teresa fu che Eponina vide per la seconda volta il giovane amato da lei, e le parve, come succede, due cotanti più bello. — Vi rammentate di Omero quando narra di Priamo, che affacciato alle mura di Troia guarda le schiere argive, e si strugge nel desiderio di saperne il numero e il nome, finchè giunta Elena lo ragguaglia per filo e per segno dei capitani, della patria, dei costumi e di quant’altro aveva vaghezza conoscere il vecchio Priamo intorno all’osto nemica? Voi ve ne rammentate di certo perchè Omero avete letto, e le cose lette nell’Iliade non si dimenticano. Ora, quello che Priamo faceva a Troia tutto le fanciulle fanno nelle veglie, quando occorrono loro dinanzi giovani appariscenti e sconosciuti. Eponina ne chiese astutamente alla compagna che le sedeva allato, e poichè anco a questa era ignoto, con arte maggiore la indusse a moverne ricerca fra le persone circostanti, e allora seppe chiamarsi Ludovico Anafesti, ed avere titolo di conte; di padre orfano, figlio unico di madre rispettabile e rispettata; di sè non avere dato argomento che altri parlasse in bene nè in male, giovane troppo; apparteneva ai giovani di bella vita, inteso tutto a corse, a balli e a feste: di sostanze non pareva stesse bene in gambe, chè [p. 139 modifica] il padre ci aveva fatto mio sdrucio da non potersi rammendare, ed egli tirava a rifinire il resto; lo appuntavano viziato al gioco; di amori non se ne sapeva; se ne aveva non erano di quelli che si potessero decentemente manifestare, del rimanente cavalcatore illustre, schermitore e tiratore a segno dei buoni; non accadeva duello ch’egli, o come paciere o come secondo, non c’incastrasse, e voila tout!

Non ci era da scialare, ma via, per questi ragguagli Ludovico non aveva scapitato nel cuore di Eponina, sicchè quando incominciarono i billi, ella imprimendo sotto le palpebre abbassate un moto ondulatorio alle pupille, non lo perdeva un momento di vista: con palpito di cuore da non potersi dire avvertiva se dal giovane taluna o donna o donzella si preferisse; ma no, con suprema contentezza si accorse com’egli, verso tutto cortese, non dimostrasse parzialità di sorta; dalla movenza, dei labbri s’ingegnò indovinare lo parole proferite, attese acutamente alle mani ed alle dita di lui per vedere se mano o vita della compagna danzatrice premesse oltre la convenienza ed i costumi del ballo, ma di niente potè accorgersi. Di due cose l’una, o egli non amava, o la sua amata non si trovava lì; intorno alla seconda parte Eponina andava chiara, ma chi l’assicurava della prima? Non gli conoscevano amante, dunque poteva non avere amato, anzi era [p. 140 modifica] certo cch’ei non avesse amato mai, e lei destinavano i cieli a percuotere la roccia, donde sarebbero scaturite le linfe dolcissime dello amore. Ci era da ammattirne di giubbilo! Ma intanto? Intanto il giovane non la guardava neppure, o sia che non l’avesse scorta o, scorta, non l’avesse impressionato; non importa, ella di sè fidente non se ne curava, dicendo nel suo segreto

«Aspetto il mio astro!»

Nè l’astro si fece aspettare. Poichè ebbero compite varie guise di ballo, e furonsi confortati di cibi e di bevande, e levati fino al cielo, e un poco più su, i classici pasticci della marchesa Teresa, ecco questa signora dabbene di mi tratto scappar fuori a dire.

— Orsù, a Tersicore sagrificammo abbastanza; adesso tocca alle altre sorelle, che potrebbero averselo a male: per dare il buono esempio comincierò a canticchiare qualche cosuccia io, che se principiaste voi a me non basterebbe più l’animo per farmi sentire.

La marchesa si era data attorno per raccogliere al suo ritorno dame, damigelle e cavalieri che godessero fama di valorosi nelle arti del canto e del suono, non meno che artisti di professione e taluni dei più celebri cantanti si trovassero allora nei teatri di città. Ella, come promise, aperse il canto con una barcarola di facile esecuzione; suo cavallo di battaglia; la voce le usciva un po’ tremula, talvolta per paura della odiata stecca l’abbassò così che [p. 141 modifica] appena si sentiva; nondimeno nel sottosopra ce la sfangò assai bene, e n’ebbe plausi, dove sarebbe stato difficile spartire i meritati dai dovuti alla padrona di casa.

Avendo la marchesa proposto ad Eponina di tenerle dietro, questa se ne schermi, desiderosa, come disse, che le altre mostrassero la loro virtù prima che fosse stanco l’uditorio, e parve modestia, ma invece fa astuzia per ecclissarle tutte: arti di guerra femminile. La signora Teresa ci rimase presa, e la ringraziò della squisita delicatezza; Eponina allora sembra si facesse animo a chiederle qualche favore, a cui la marchesa assentì col capo, aggiungendo: «Lascia fare a me.»

Cantarono arie, duetti, terzetti ed anco un quartetto come persone lo quali dell’arte intendevano assai addentro, e tutti i giorni stavano in esercizio, ma le voci erano scarse, tirate fuori a trilli e a gorgheggi, come colui che non sentendosi a sufficienza vigore si sforza e si eccita. Quando venne la volta di Eponina, si trovarono, per cura della marchesa, parecchi disposti a farle da coro, mentre ella avrebbe cantato la Casta Diva della Norma. Richiesta se volesse accompagnarsi da se, rispose: «Volentieri, ma coll’arpa; altri col pianoforte.»

Eponina aveva ragione da vendere; dotata di squisito senso dell’arte, aveva avvertito come non si dia bellezza di donna, la quale regga alla [p. 142 modifica] doppia azione del canto e del suono del pianoforte, che fuori di misura disamabile si presenta nel tocco dei tasti quel continuo distendere e stringere le braccia, e l’alzare e l’abbassare le dita atteggiate ad artigli di girifalco: se la donna starà diritta col tronco e ferma, rassomiglierà la statua di granito di Mennone, la quale dicono rendesse suono in grazia di certo foro praticatole per di dentro: ovvero agiterà il capo, e allora la testa dondolante ti parrà una banana sbatacchiata dalla tempesta, o un ariete romano abbrivato per isfasciare mura. Donne e donzelle, date retta a me, quantunque profano: quando vi piacerà letiziarci co’ vostri canti, non vi accompagnerete mai da per voi col pianoforte: più assai della fuga

Che l'onestate ad ogni atto dismaga


come insegnò l’Alighieri, noceranno alla bellezza vostra i gesti illepidi che menerete sopra cotesto istrumento.

Circa all’arpa poi muta specie, massime se la sonatrice, oltre la persona spigliata, possieda gioconde braccia e petto ricolmo. Ora è da dirsi come tutte siffatte qualità occorressero in copia nella nostra Eponina, di cui così lieve era lo incesso, che a mirarla camminare si sarebbe detto: «ora vola.» Le sue braccia apparivano coperte di guanti; ma come si fa a sonare l’arpa co’ guanti? E’ fu [p. 143 modifica] mestieri levarseli. Veruno penetrò mai nella sua stanza verginale, molto meno io; e pure metterei pegno che più di una volta ella studiò allo specchio l’atteggiamento, che convenisse meglio alla sua persona, e quale più leggiadro partito di pieghe si affacesse alla sua veste. O bella! Non costumò farlo Caio Gracco, per piacere al popolo? E con quale giustizia lo si vorrebbe negare alle donzelle, per gratificarsi l’animo dello amante desiderato? Non ci è vecchio che, salendo le scale di una casa per rendere visita all’amica anziana, non si raddrizzi sul cucuzzolo i cinque capelli bianchi, a modo dei birilli nel mezzo del biliardo.

Eponina dunque, essendosi atteggiata divinamente, preludiò sull’arpa ed incantò chi vide: quando poi l’onda sonora della voce prese a sgorgarle potentissima dal petto, ammiraziono ed astio, plauso e censura, tutto rimase sommerso come in un mare di luce; senza battere palpebra, osando appena trarre il respiro, ascoltavano tutti; a molti avvenne che, senza se ne accorgessero, lo lacrime traboccassero dagli occhi; taluno con ambedue le mani si compresse il seno, quasi non valesse a sopportare l’eccesso del piacere; a tutti tremava l’anima. Allorchè tacque, veruno ebbe balia di applaudire: parevano impietriti per virtù d’incantesimi: tanto regnava profondo il silenzio, che si udiva perfino il crepito delle candele che ardevano, ed Eponina [p. 144 modifica] vinta anch’essa dallo entusiasmo rimaneva immobile, con le labbra mezzo aperte, fìtto fitto frementi un brivido di voluttà: aggiungi che portando ella una ghirlanda di ellera in capo, questa scomponendosi, le era scesa dinanzi dalla fronte, da parere proprio una corona di alloro, a modo che pittori e poeti sogliono attribuirla alle Muse.

Quando gli animi soggiogati poterono ripigliare il dominio di sé, proruppe uno scoppio di grida e di applausi cotanto strepitoso, che i cristalli delle finestre ne tremarono e parecchi lumi si spensero.

Ora mentre Eponina si tira indietro con grazia infinita la corona dell’ellera, scorsale quasi sino sulle ciglia, si mira davanti attonito Ludovico: esultò la donna, e con supremo sforzo di volontà raccolto quanto più potè di virtù magnetica negli occhi propri, la saettò dentro gli occhi di lui. Il giovane non sostenne lo improvviso sfolgorio, chiuse le palpebre, e susurrando suoni indistinti balenò per cadere, e cadeva, se altri non lo avesse sostenuto. Eponina, nell’orgoglio del cuore, stette per esclamare ad alta voce: «Ho vinto!» Si suggellò le labbra, ma per tacere che facesse, questo grido non rimescolò meno poderoso tutta la sua anima.

E questo fu il modo col quale Ludovico ed Eponina s’innamorarono.



Note

  1. Fu questo un attributo di Venere, e n’ebbe nome, che Esiodo ricorda ελικσβλέφαρος.
  2. A chi preme conoscere qual diversità sia fra bianchezza e candidezza, lo può vedere nel Firen. Di., Della bellezza delle donne.