Il nonno/Il Ciclamino

Il Ciclamino

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Cattive compagnie La medicina

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Il Ciclamino.

Appena sbocciato, il ciclamino vide uno spettacolo che molti poeti, anche celebri, non hanno mai veduto. Vide una notte di luna in montagna. Il silenzio era così profondo che il ciclamino udiva le goccie d’acqua, raccolte dalle foglie dell’elce che lo proteggeva, cadere al suolo come versate da piccole mani.

La notte era limpidissima e fredda. La montagna era bianca e nera, come un immenso ermellino addormentato. Il suo profilo d’un bianco violaceo scintillava sul cielo azzurro. Non era troppo alta, quella montagna: i boschi la coprivano fino alla cima; le roccie, coperte di neve, vedute da vicino sembravano blocchi di marmo intorno ai quali un artista gigante avesse tentato d’abbozzare strane figure.

Ve n’era una, per esempio, che pareva un lupo enorme, col muso rivolto al cielo; e un filo di fumo che usciva dalla roccia e sembrava esalato dalla bocca della strana bestia, accresceva l’illusione. [p. 176 modifica]

Dal suo cantuccio umido e riparato, il ciclamino vedeva le roccie, gli alberi, la luna, e uno sfondo azzurro coi profili di altre montagne lontane. La luna calava sopra queste montagne. Tutto era silenzioso, puro e freddo. Le stelle avevano tremiti e splendori insoliti: pareva si guardassero le une con le altre comunicandosi una gioia ignota agli abitanti della terra. Il ciclamino sentiva un po’ di questa gioia; e anch’esso tremolava sullo stelo; e non sapeva cosa fosse, e non sapeva ch’era la gioia che fa scintillare il diamante e l’acqua della sorgente: la gioia di sentirsi puro.

E questa felicità durò a lungo; molto più a lungo della gioia di molti uomini felici: durò un’ora!

A un tratto il ciclamino vide una cosa strana, più meravigliosa ancora delle roccie bianche, degli alberi neri, delle stelle scintillanti. Vide un’ombra che si moveva. Il fiore aveva creduto che tutto, nel suo mondo, fosse immobile, o tremulo appena: invece l’ombra camminava. E dopo la meraviglia, il ciclamino provò un senso di terrore. L’ombra si avvicinava, sempre più grande, ergendosi sullo sfondo azzurro, fra i tronchi neri; ed era così alta che nascondeva tutta una montagna ed arrivava fino alla luna.

Era un uomo. [p. 177 modifica]

Di tanto in tanto l’uomo si fermava sotto gli alberi, si curvava e pareva cercasse qualche cosa nell’ombra. Arrivato sotto l’elce si curvò, guardò e cominciò a frugare tra le foglie marcie che coprivano il suolo. E il giovane fiore s’accorse che l’uomo aveva trovato quello che cercava; una pianticella di ciclamino.

Dopo la sua ora di vita, sicuro di aver veduto tutto ciò che di più bello e di più terribile esiste nell’universo, il ciclamino si rassegnò a morire.

L’ombra nemica sradicò la pianticella, lasciando intorno ai bulbi un po’ della terra che li nutriva. Il ciclamino allora si accorse che l’ombra nera non rappresentava la morte: anzi all’improvviso gli parve di vivere una vita più intensa, se non altrettanto felice come quella già vissuta.

Con tutta la sua famiglia di foglie, coi suoi fratellini non ancora sbocciati, il fiore si trovò in alto, vide meglio il cielo, le stelle, abbandonò l’elce natìo, si mosse da un punto all’altro della montagna. Gli pareva di aver la grande potenza di muoversi, come l’uomo che lo portava entro la sua mano concava. E provò una viva riconoscenza per colui che gli procurava tanta gioia.

Arrivarono sotto la roccia che sembrava un lupo. L’uomo penetrò in una grotta che pareva davvero il cuore d’un lupo, nera, aspra, piena di fumo; e dopo aver deposto la pianticella su una [p. 178 modifica] sporgenza della roccia, si curvò per riaccendere il fuoco. E il fiorellino, che ricominciava a disperarsi, vide allora un’altra cosa meravigliosa. Vide il tronco nero di un elce convertirsi in fuoco, e le fiamme scaturire dai rami come grandi foglie d’oro scosse da un soffio ardente.

L’uomo si sdraiò accanto al fuoco e dal suo cantuccio il fiorellino lo vide addormentarsi e lo udì parlare in sogno. E la voce dell’uomo gli parve un’altra rivelazione. Poi un fischio tremolò fuor della grotta, un cane abbaiò, l’uomo sollevò il capo.

Un altro uomo entrò nella grotta: questo era giovane, alto e vestito di panno rosso e di pelli nere; il suo viso scuro, ma dagli occhi azzurrognoli e dalla barba rossiccia, aveva qualche cosa di dolce e selvaggio nello stesso tempo.

— Compagno, — disse, appena entrato — credo che stanotte prenderemo la volpe.

Il vecchio sollevò il viso, interrogando.

— Ho veduto le tracce! — riprese il giovane.

I due uomini non dissero altro, ma anche il vecchio balzò in piedi. Ed entrambi stettero lungamente in ascolto. Ma l’ora passava, e al di fuori il silenzio della notte era sempre intenso e profondo: per un momento sull’apertura della grotta apparve la luna, come un viso pallido dagli occhi grigi curiosi, poi sparve e fuori regnarono le bianche tenebre della notte nevosa.

— Non viene più! — disse il vecchio. — Ed io devo scendere! Come sta la piccola padrona?

— Male: forse morrà stanotte. [p. 179 modifica]

— E tu non me lo dicevi! Devo scendere! Devo portarle il fiore!

— Che fiore?

— Un fiore di panporcino. Nel delirio, ieri, ella non domandava altro. Si immagina di ricamare una pianeta e vuol copiare il fiore. Bisogna contentarla. Vado.

Il giovane disse:

— Ah, una pianeta! — e sorrise con un sorriso malizioso. Ma poi sollevò il capo, mormorando: — Sentite?...

Un cane abbaiava: un altro rispondeva in lontananza. I due pastori balzarono fuor della grotta: s’udirono fischi, urla, gridi più rauchi e feroci dell’abbaiar dei cani. La fiamma cessò di tremolare, come ascoltando: il ciclamino si ripiegava ansioso tra i suoi fratellini addormentati.

I due uomini rientrarono, trascinando a viva forza un giovinetto dal viso livido e i folti capelli neri crespi, legato con lacci di cuoio, fra i quali egli si dibatteva disperatamente. I tre uomini tacevano, ma il loro respiro ansante, quasi sibilante, rivelava tutta la loro rabbia. La scena era bella e terribile: ricordava il mondo delle caverne, l’uomo in lotta col suo simile.

Il prigioniero fu portato in fondo alla grotta, legato meglio, con corde di pelo e con una soga la cui estremità venne fermata al suolo con una pietra. Egli non si dibattè oltre; appoggiò il capo scarmigliato al suolo roccioso della grotta e chiuse gli occhi: e parve morto. [p. 180 modifica]

Il vecchio allora disse, guardandolo e fremendo di collera:

— Una, due, tre volte te la sei scampata. Ora però il mio gregge non lo decimerai più! Ora vado ad avvertire la giustizia1.

E dopo essersi rapidamente infilata alle braccia una borsa di cuoio che gli formò sulle spalle una specie di gobba, uscì concitato.

Appena egli fu uscito, il prigioniero aprì gli occhi e sollevò il capo ascoltando. I passi del vecchio non si udivano più. Il giovane dalla barba rossiccia sedeva per terra, accanto al fuoco, e pareva triste.

Il prigioniero lo guardò e disse una parola:

— Ricordatevi!

L’altro stette immobile e muto. Il ladro ripetè:

— Ricordatevi! Una volta, nella notte di San Giovanni, due ragazzi di diversi paesi pascolavano il gregge sotto la luna. Si volevano bene come fratelli. Il maggiore disse: «Vogliamo diventar compari di San Giovanni?» E giurarono di esser fratelli, per la vita e per la morte, e specialmente nell’ora del pericolo. Poi diventarono grandi e ciascuno andò per la sua via. E una volta il maggiore andò a rubare e fu preso e dato in custodia al giovine che per caso s’era trovato nell’ovile. E bastò che il prigioniero dicesse: «Ricordatevi!» perchè l’altro, senza badare al danno [p. 181 modifica] che gliene sarebbe venuto, lo slegasse e lo liberasse. Ricordatevi!

Il pastore rispose, sfuggendo lo sguardo del prigioniero:

— Era altra cosa, compare! Voi non eravate servo come lo sono io. Prima del compare è il padrone!

— Prima del padrone è il fratello: e il compare di San Giovanni è un fratello.

L’altro non rispose: ma con gli occhi fissi nella fiamma parve immergersi in un sogno.

— Siamo tutti soggetti all’errore, — disse il ladro. — E chi fa questo e chi fa quello! Siamo nati con la nostra sorte. E il vostro padrone non ha le sue magagne? È l’uomo più superbo della terra. È lui che fa morire sua figlia, la vostra piccola padrona. E lei non è colpevole, del resto? Non dicono tutti che muore perchè è innamorata d’un prete? No? Ah, voi dite di no? Voi dite che il giovane s’è fatto prete per disperazione, perchè non gli hanno dato in moglie la ragazza? Sia pure così: ma lei doveva cessare di volergli bene. Invece se ne muore...

— Ah, ecco perchè... La pianeta... il fiore di panporcino! — disse a un tratto il pastore. E s’alzò, e slegò il prigioniero che senza neppure dir grazie balzò su e scappò.

Rimasto solo, il pastore prese la pianticella di ciclamino, corse fuori, balzò di roccia in roccia, scese per un sentiero, cominciò a gridare, chiamando a nome il vecchio. Questi rispose in lonta[p. 182 modifica] nanza. E le voci dei due uomini, sempre più vicine, s’incrociavano nel silenzio della notte.

— Avete dimenticato il fiore!

— Hai lasciato solo quel demonio! Dammi! Va, ritorna...

— Ho pensato che la piccola padrona...

— Va, ritorna subito là.

La pianticella passò nella mano concava del vecchio, e vi si trovò bene come in un vaso tiepido e capace. Il vecchio camminava rapido e sicuro giù per i sentieri rischiarati dal chiarore della neve come da un crepuscolo grigiastro.

Finalmente arrivò ai piedi della montagna: e il ciclamino vide un luogo più triste e più buio della grotta: era un luogo abitato dagli uomini, un villaggio.

Il vecchio battè ad una porta; venne ad aprire una donna vestita di giallo e di nero, pallidissima in viso.

— Come sta la piccola padrona? Le ho portato il fiore che voleva copiare per un ricamo.

La donna diede un grido sibilante e cominciò a strapparsi i capelli.

— La piccola padrona è morta!

L’uomo non pronunziò parola; ma entrò nella vasta cucina e depose la pianticella sulla cassapanca ove la piccola padrona soleva sedersi per cucire e ricamare. Nelle stanze attigue risuonavano gridi di donne simili ai gridi delle antiche prefiche. [p. 183 modifica]

Il vecchio se ne andò. E lunghe ore passarono. Il fuoco si spense nel focolare: un uomo vestito di velluto venne a sedersi sulla cassa-panca, e stette a lungo immobile, senza piangere, senza parlare.

Poi arrivò il servo dalla barba rossiccia, e cominciò a raccontare sotto voce la storia del ladro e del ciclamino.

— Mentre io portavo il fiore al vecchio il ladro ha trovato modo di slegarsi e fuggire. Invano l’ho cercato: ho corso tutta la notte. Ora il vecchio dice che la colpa è mia, e che lei, padrone, mi manderà via.

L’uomo vestito di velluto non capiva bene la storia del ciclamino.

— Un ricamo? Una pianeta? Per chi?

Il servo da pallido diventò rosso. Abbassò ancor più la voce:

— Dicono... La pianeta per la prima messa di prete Paulu...

Un fugace rossore colori il viso scialbo del padrone. Egli guardò la pianticella, poi disse al servo, con voce aspra:

— Ritorna all’ovile.

L’altro uscì, mormorando:

— Il Signore le conceda ogni bene...

Ma l’uomo vestito di velluto parve non udire l’augurio. Appena fu solo afferrò la pianticella, e strinse i denti con rabbia. E il ciclamino vide arrivata la sua ultima ora. Ma l’uomo vestito di velluto aprì la mano, guardò le foglie piegate, il [p. 184 modifica] fiorellino languente, e pianse. E così, prima di morire, il ciclamino, che aveva veduto tante scene belle e terribili, provò un vivo stupore, un brivido, una commozione simile a quella che aveva provato mentre sbocciava. Gli pareva di riveder le stelle, di trovarsi ancora sulla montagna, di sentirsi, entro le mani di quell’uomo, ancora lieto e puro come entro la terra madre.

E tutto questo perchè raccoglieva tra i suoi petali la lagrima di un uomo superbo.


Note

  1. Le autorità.