Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa di don Luigi.

Don Luigi con un ritratto in mano, e poi Brighella.

Luigi. E sarà vero che tu m’abbia a far sospirare? Maledetto ritratto! ti getterò tra le fiamme. E poi, incenerito che sarà il ritratto, mi staccherò dal cuore l’originale? Ah no, s’io non mi strappo il cuore medesimo, in cui il perfido amore ha stampato l’effigie della mia tiranna.

Brighella. Signore...

Luigi. Va al diavolo.

Brighella. Servitor umilissimo. (vuol partire)

Luigi. Che cosa vuoi?

Brighella. Voleva darghe una lettera, che m’è stada dada alla Posta. [p. 36 modifica]

Luigi. Da’ qui.

Brighella. Eccola, signor.

Luigi. Hai nulla da dirmi di donna Eufemia?

Brighella. Niente, signor.

Luigi. T’ho pur detto che tu andassi per la risposta del mio viglietto.

Brighella. Son andà; ma no gh’è niente.

Luigi. Niente?

Brighella. Niente affatto.

Luigi. Che tu sia maledetto. Niente?

Brighella. Che colpa ghe n’oia mi?

Luigi. Perchè non cercare di Traccagnino, servitore di casa? Perchè non introdurti con Argentina, cameriera di donna Eufemia? Perchè non procurare tu stesso questa risposta, che cotanto sai che mi preme?

Brighella. Ho procura; ho fatto el possibile, e se la savesse...

Luigi. Via, parla.

Brighella. No vorria che la se alterasse. La va in collera facilmente.

Luigi. Parla, parla, non vi è pericolo che mi riscaldi.

Brighella. La signora donna Eufemia non vol risponder.

Luigi. Non vuol rispondere? Oh maladetta la mia fortuna! (batte i piedi, e straccia la lettera che gli diede Brighella)

Brighella. (Schiavo, siori! l’è andada1). Caro signor padron...

Luigi. Va via.

Brighella. Vado. (vuol partire)

Luigi. Vieni qui.

Brighella. La comandi.

Luigi. Donna Eufemia non vuol rispondere?

Brighella. La perdoni. No sala in che soggezion che la tien el signor Pantalon so marido, geloso come una bestia?

Luigi. Non mi averà risposto, perchè non averà avuto tempo.

Brighella. Comandela altro da mi? [p. 37 modifica]

Luigi. Vuoi forse ritornare da donna Eufemia?

Brighella. Se la se contenta, vorria andar a comprar el bisognevole per el pranzo.

Luigi. Va dove vuoi.

Brighella. Cossa comandela ela da pranzo?

Luigi. Del veleno.

Brighella. Per amor del cielo, signor padron...

Luigi. Son disperato.

Brighella. La so passion l’è granda, ma la me permetta che diga. El mal mazor l’è questo, che no la vol ascoltar nissuno2; se l’ascoltasse, fursi fursi la ghe remedierave al so mal.

Luigi. Hai tu nulla da dirmi per rimediar al mio male?

Brighella. Se la me dasse permission de parlar, me par a mi che qualcossa diria in sto proposito...

Luigi. Parla.

Brighella. No vorria po...

Luigi. Parla.

Brighella. Cossa sarà mai? parlerò. Caro signor padron, gh’è tante donne in sta città de Napoli, e la va3 a incapricciarse in una donna maridada: in una donna, che ha el marido più fastidioso del mondo, geloso, avaro, sufistico, sospettoso. E po la signora donna Eufemia l’è la più savia, la più onesta donna del mondo: no la se lassaria guadagnar da nissun amor, quand’anca l’avesse la libertà de farlo; figurarse po adesso, che dal marido con tanta gelosia l’è custodida. No gh’è pericolo. No la farà niente...

Luigi. Non vi è pericolo? Non farò niente? Sei una bestia.

Brighella. Servitor umilissimo. (parte) [p. 38 modifica]

SCENA II.

Don Luigi e poi donna Aspasia.

Luigi. Il diavolo che ti porti: non farò niente? Se Pantalone è geloso, non mancano mezzi per deludere le sue cautele. S’egli è avaro, molto meglio per me. L’oro, pascolando la sua avarizia, vincerà i stimoli della gelosia. Sia pure onestissima donna Eufemia; nulla pretendo da lei, che possa offendere la sua modestia: bramo solo un’amichevole corrispondenza, e questa tanto meno saprà negarmela, quanto più le si rende odioso il marito. E tu dici non farò niente? Se torni a dirlo, ti spezzo il capo, come spezzata ho quella lettera. Ma! l’ho stracciata senza sapere cosa contenga; la collera mi ha acciecato. La leggerò alla meglio. (la prende da terra) I pezzi si possono unire insieme. Oh diamine! cosa vedo? L’ordine per le cento doppie che aspettava con tanta ansietà: eccolo fatto in pezzi. E mi si dovean pagar subito; e questo era il più valido fondamento per guadagnare il signor Pantalone. Un buon regalo me lo potrebbe rendere amico. Ed ora come farò? non ho denari. Se torno a scrivere, ci vuol tempo. Fortuna indegna, tu mi perseguiti, tu mi vuoi morto.

Aspasia. Che cosa avete, signor fratello?

Luigi. Sorella mia, son disperato.

Aspasia. Disperato? Perchè?.

Luigi. Per queste due bagattelle: sono innamorato, e non ho denari.

Aspasia. Per quel ch’io sento, la vostra amante è una di quelle che fanno mercanzia della loro grazia.

Luigi. No, v’ingannate. Ella è una onestissima moglie.

Aspasia. Moglie? Siete pazzo andarvi a incapricciare con una femmina maritata?

Luigi. Pazzo! A incapricciarmi di una femmina maritata son pazzo? Signora sorella, voi avete marito.

Aspasia. Bene, e per questo?

Luigi. E per questo, nessuno vi serve, nessuno vi vede volentieri?

Aspasia. Chi sente voi, pare ch’io abbia un sortimento di cicisbei. [p. 39 modifica]

Luigi. Se li avete, buon pro vi faccia. Così il marito di donna Eufemia fosse docile come il vostro.

Aspasia. Ora capisco. Voi sospirate per donna Eufemia.

Luigi. Sì, cara sorella, io deliro per lei.

Aspasia. Povero don Luigi, voi non farete niente.

Luigi. Non farò niente? Anche voi mi dite che non farò niente? Giuro al cielo! non farò niente?

Aspasia. Ma non andate in bestia.

Luigi. Possa seccar la lingua a chi dice ch’io non farò niente.

Aspasia. Se volete parlar voi solo, me n’anderò.

Luigi. Venite qui, non mi abbandonate per carità.

Aspasia. Cosa pretendete da donna Eufemia?

Luigi. Niente altro che la sua amicizia.

Aspasia. Niente altro?

Luigi. Niente altro.

Aspasia. Ma vorrete andar in casa.

Luigi. Qualche volta.

Aspasia. Servirla alle conversazioni.

Luigi. Sì, come si accostuma.

Aspasia. Insomma essere il di lei servente.

Luigi. Questo, e non altro.

Aspasia. Voi non farete niente.

Luigi. Il diavolo che vi porti.

Aspasia. Io lo dico, perchè so....

Luigi. Se mi dite più di quelle maledette parole non farete niente, giuro a Bacco, mi scorderò che mi siate sorella.

Aspasia. (Povero mio fratello, è innamorato come una bestia). (da sè) Ma conoscete il di lei marito?

Luigi. Lo conosco: è geloso; e per questo? Sarebbe il primo geloso, che soffrisse veder la moglie servita?

Aspasia. Egli non è portato per le conversazioni.

Luigi. È ben portato per l’interesse.

Aspasia. Dunque lo vorreste vincere con i contanti.

Luigi. Non dico con i contanti, ma con i regali. Se mi metto a regalare un avaro, direte voi ch’io non farò niente? [p. 40 modifica]

Aspasia. Per questa via può essere che vi riesca. Animo dunque, principiate a metter mano alla borsa.

Luigi. Il diavolo è, ch’io presentemente non ho denari.

Aspasia. Non avete denari? Ora mi darete licenza ch’io dica: non farete niente.

Luigi. Donna Aspasia, non mi mettete alla disperazione.

Aspasia. No, caro fratello; sapete ch’io vi amo teneramente. Per l’amor ch’io vi porto, non so staccarmi da voi. Per non lasciarvi solo, obbligo mio marito a star qui, ed abbandonare la propria casa.

Luigi. Felice voi, che avete un marito che tutto fa a modo vostro.

Aspasia. Oh sì! di questo poi me ne posso vantare. No ha altro difetto, se non che è smemoriato.

Luigi. Ah, se ora gli faceste fare una cosa per me!

Aspasia. Che cosa?

Luigi. Tutti due mi potreste aiutare.

Aspasia. Via, dite il come.

Luigi. Voi dicendo due parole per me a donna Eufemia, che è vostra amica. Vostro marito prestandomi cento scudi.

Aspasia. I cento scudi fate conto d’averli. Mio marito, solo ch’io gliene4 dica, ve li darà. Ma che io poi parli per voi a donna Eufemia...

Luigi. Che difficoltà ci trovate?

Aspasia. È un certo uffizio che non mi finisce.

Luigi. Per un fratello?

Aspasia. Rispetto a voi va bene, ma non rispetto a donna Eufemia: che concetto formarebbe di me?

Luigi. Eh, fra voi altre donne questi servizi ve li cambiate.

Aspasia. Donna Eufemia è una donna assai sostenuta.

Luigi. E per questo?

Aspasia. Ho paura che non faremo...

Luigi. Niente.

Aspasia. Questa parola non la voleva dire. [p. 41 modifica]

Luigi. Ed io non la voglio sentire.

Aspasia. Dunque?

Luigi. Dunque parlate5.

Aspasia. E se poi...

Luigi. Parlatele in buona maniera. Spiegatele il mio carattere ed il mio desiderio. Io sono un uomo onesto, e da lei non voglio niente di male.

Aspasia. Benissimo, cercherò l’occasione...

Luigi. Ecco vostro marito. Ora sarebbe il tempo delli cento scudi.

SCENA III.

Don Onofrio e detti.

Onofrio. Donna Aspasia, non venite questa mattina a bevere la cioccolata?

Aspasia. Non l’ho bevuta? Non vi ricordate che l’abbiamo bevuta insieme?

Onofrio. Oh veh! non me ne ricordavo. Io l’ho bevuta anche adesso: dunque l’ho bevuta due volte.

Luigi. Non c’è male, signor cognato, la cioccolata fa bene allo stomaco.

Onofrio. Il medico me l’ha ordinata.

Aspasia. Anzi il medico ve l’ha proibita.

Onofrio. Quando?

Aspasia. Non ve ne ricordate? Saranno due settimane.

Onofrio. Io non me ne ricordo.

Luigi. Eh, non abbadate al medico. Se vi dà piacere, bevetela.

Onofrio. Mio cognato mi piace. È un uomo fatto come me. Quando sto male, faccio a modo del medico; quando sto bene, faccio a modo mio.

Aspasia. Dite, don Onofrio, vi hanno portato quei mille scudi del grano, che avete venduto ieri?

Onofrio. Non me ne ricordo. [p. 42 modifica]

Aspasia. Se li averanno portati, ci saranno.

Onofrio. Sicuramente. Ma non mi ricordo se li abbiano portati. Aspettate... è venuto ier di sera... No, non è venuto il sensale. Era... chi diavolo era quello che è venuto ier di sera?

Aspasia. Io ho veduto il signor Pantalone.

Onofrio. Ah sì, il signor Pantalone. Mi pare che egli mi abbia portati li mille scudi.

Luigi. (Il fortunato posseditore di donna Eufemia). (da sè) È vostro amico il signor Pantalone?

Onofrio. Oh sì, è mio amico. Il mio grano quasi tutto lo vendo a lui. Mi paga subito, ed io glielo do a buon prezzo.

Aspasia. Signor consorte carissimo, vorrei pregarvi d’una finezza.

Onofrio. Comandate, cara consorte: voi sapete che non vi nego mai cosa alcuna. Ella è così, signor cognato, mia moglie non può dire ch’io l’abbia mai scontentata in niente. Saranno... che so io?... tre anni che siamo insieme, e sempre...

Aspasia. Tre anni? Oh, sono ben sei.

Onofrio. Basta; a me par l’altro giorno.

Aspasia. Vorrei che mi prestaste cento scudi. Me li darete?

Onofrio. Ve li darò... ma...

Aspasia. Che cosa?

Onofrio. Non mi ricordo bene se io li abbia.

Aspasia. Datemi le chiavi dello scrigno, che guarderò io.

Onofrio. Oh no, cara, le chiavi non le do mai. Siccome ho poca memoria, le tengo sempre attaccate alla cintola de’ calzoni.

Aspasia. Andate dunque a vedere; e se ci sono, portatemi li cento scudi.

Onofrio. Cento scudi! Vado subito; e poi beveremo la cioccolata. (parte)

SCENA IV.

Donna Aspasia, don Luigi, e poi don Onofrio.

Luigi. Ah, se mi dà questi cento scudi, mi dà la vita. Non passeranno però otto giorni, ch’io glieli renderò.

Aspasia. Come pensate di volerli impiegare? [p. 43 modifica]

Luigi. Ci penserò. Una guantiera d’argento per il signore Pantalone, con sopra della cioccolata, un ventaglio di Francia per donna Eufemia, non saranno princìpi tanto cattivi.

Aspasia. Sperate voi che donna Eufemia voglia ricevere il ventaglio di Francia?

Luigi. Lo riceverà, se voi glielo presenterete con grazia.

Aspasia. Io gliel’ho da esibire? Mi meraviglio.

Luigi. Ecco qui: in tutto vi ha da essere la sua difficoltà; sia maledetto quando parlo con voi.

Aspasia. Zitto, acchetatevi. Ecco qui mio marito.

Luigi. Il ventaglio glielo darete?

Aspasia. Glielo darò.

Onofrio. Oh, i mille scudi vi sono. Il signor Pantalone me li ha portati iersera.

Aspasia. Ho piacere davvero.

Onofrio. Eccovi qui li cinquanta scudi.

Luigi. Cinquanta?

Onofrio. Sì, non mi avete detto cinquanta?

Aspasia. Ho detto cento.

Luigi. Cento ha detto, e non cinquanta. (adirato)

Onofrio. O cento, o cinquanta, voi non ci entrate, signor cognato.

Luigi. C’entro per mia sorella.

Aspasia. Badate a me. Vi ho pregato di cento.

Onofrio. Oh, sentite un poco questo signore che si scalda.

Luigi. Se siete uno stolido senza memoria.

Onofrio. Orsù, ve l’ho detto cento volte. In questa casa non ci voglio stare.

Aspasia. (Fratello, voi non avete prudenza).

Luigi. Via, signor cognato, compatitemi. Il mio naturale è così di parlar forte; per altro ho per voi tutta la stima, tutto il rispetto.

Onofrio. Già lo sapete, chi mi piglia colle buone, mi cava anche la camicia.

Aspasia. E così, mi date questi denari? Sì, o no?

Onofrio. Non ve li ho dati? [p. 44 modifica]

Aspasia. Non m’avete dato nulla.

Onofrio. Come?

Luigi. (Che pazienza!) (da sè) Li avete messi in tasca.

Onofrio. Ah sì. Ora me ne ricordo. Eccoli.

Luigi. Ma quelli sono cinquanta, e non cento.

Onofrio. Se volete venir con me, ve li darò tutti cento.

Aspasia. Sì, andiamo.

Luigi. Verrò anch’io, se mi volete.

Onofrio. Siete padrone.

Luigi. Caro signor cognato, siete il più buon uomo del mondo.

Onofrio. Io voglio bene a tutti. Andiamo a contentar donna

Aspasia.

Luigi. E poi beveremo la cioccolata.

Onofrio. E poi beveremo la cioccolata. (ridendo parte)

Aspasia. Oh che bernardone! (parte)

Luigi. Così li vorreste voi altre donne. (parte)

SCENA V.

Camera di Pantalone con tavolino, bilanciette da oro, e varie monete.

Pantalone e Traccagnino.

Pantalone. Traccagnin.

Traccagnino. Signor.

Pantalone. Va a véder cossa che fa mia muggier.

Traccagnino. M’imagino che la starà ben.

Pantalone. Va a veder se la laora, se la lezze, se la scrive, se la sta alla fenestra.

Traccagnino. E se la fusse al licet?

Pantalone. Voggio saver cossa che la fa.

Traccagnino. Gnor sì. (Per el salari ch’el me dà, ho anca da far el spion). (vuol partire)

Pantalone. Senti, sora tutto varda ben se la parla segretamente con Argentina. Ascolta tutto, e vienmelo a contar a mi. [p. 45 modifica]

Traccagnino. Ma se quelle do donne le se n’accorze, le me sflazella.

Pantalone. De cossa gh’astu paura?

Traccagnino. Delle so ongie e della so lengua: colle ongie le sgraffia, e colla lengua le pela. (parte)

SCENA VI.

Pantalone solo.

La donna xe per mi un gran intrigo. Xe vero che la ne dà qualche diletto, ma el ne costa assae caro6. Una donna costa un tesoro. Se gh’avesse tutti i bezzi che me costa mia muggier, ghe n’averave un sacco. E perchè songio andà a maridarme? Per quel poco de dota; m’ha lusingà dodesemile scudi de dota. E no vedeva che li toleva a livello al diese per cento? Quando morirà donna Eufemia, bisognerà restituir la dota, e l’averò mantegnua per tanti anni. Con ela stago pochissimo; ghe voggio ben: ma delle donne no me n’importa troppo; e no vorave spender mi l’osso del collo per mantegnirla, e che ela po se tolesse coi altri devertimento, e che altri i godesse el frutto delle mie fadighe. E sì che in sta città de Napoli a vadagnar quattro carlini bisogna suar. Pesemo un poco sti zecchini. Vedemo se ho fatto bon negozio a comprarli. Oh, quante volte sti zecchini i me sarà passai per le man! I taggiadori li vol scarsi, e mi ghe vadagno; chi venze, li scambia con dei boni, e mi ghe vadagno; onde in cao a qualche anno, fra i taggiadori e i pontadori, tra chi vence e chi perde, se raddoppia i zecchini. Oh, l’oro xe molto bello! e pur ghe xe de quei che lo strapazza, che lo mette fina su le scarpe, che indora fina el logo comun. Mi no, veh! caro el mio oro! che siestu benedetto! [p. 46 modifica]

SCENA VII.

Traccagnino e detto.

Traccagnino. Sior padron, son qua.

Pantalone. Cossa gh’è? Cossa vustu? Perchè vienstu senza dir gnente? (nasconde l'oro)

Traccagnino. Oh, gh’è delle novità, signor.

Pantalone. Cossa fa mia muggier?

Traccagnino. Cossa che la fazza mi nol so.

Pantalone. No ti l’ha vista?

Traccagnino. Signor no.

Pantalone. Perchè no l’astu vista?

Traccagnino. Perchè l’era serrada in camera.

Pantalone. Sola?

Traccagnino. Oh, signor no, sola.

Pantalone. Colla serva?

Traccagnino. Colla serva e con el servo.

Pantalone. Come? Un omo in camera de mia muggier?

Traccagnino. Alla voze el m’ha parso un omo sigura.

Pantalone. Ah desgraziada! presto: l’astu cognossù alla ose?

Traccagnino. Sior no, perchè i parlava pian.

Pantalone. Furbazzi! el mio onor; el mio pan: mi spendo, e i altri gode. (va ponendo i denari in borsa) Allocco, no ti ha inteso gnente, gnente?

Traccagnino. Non ho sentido altro che una parola sola.

Pantalone. Coss’èia sta parola?

Traccagnino. Ho sentido la padrona a dir: vogliatemi bene.

Pantalone. Vogliatemi bene? La mazzerò... Ma la Giustizia? La ripudierò: ah, ste lite le costa troppo! La bastonerò, la farò star in letto. Presto, la voggio trovar sul fatto. Ma no vorave entrar in qualche brutto impegno. No so chi diavolo possa esser colù. Traccagnin, presto, torna alla camera de mia muggier, procura de sentir; varda, sentime ben, varda una quarta in circa de sotto alla serraura, ti troverà un buso, e per de là ti vederà pulito. [p. 47 modifica]

Traccagnino. Come savè che ghe sia sto buso? Mi no l’ho visto.

Pantalone. El ghe xe; l’ho fatto mi. Va subito, che te aspetto.

Traccagnino. Vado. (Vardè, se l’è maledetto: el va a far un buso in te la porta, per spiar i fatti de so muier; e sì, el pol far quel che el vol, che se la muier ghe n’ha voia, no serve nè busi, nè cadenazzi). (da sè, parte)

SCENA VIII.

Pantalone, poi Traccagnino che torna.

Pantalone. Intanto finirò de pesar sti zecchini. Maledetta! in camera con un omo? Questo el xe rotto, bisogna darlo via presto, avanti ch’el se rompa affatto. Un omo in camera? Chi diavolo porlo esser? No crederave mai, che la me la fasse su i occhi. Sti do i pol passar per de peso, no i voggio metter in ti scarsi. Traccagnin no torna mai. Son impaziente de saver... Oh, questo cala pulito: questo bisognerà salvarlo per don Onofrio. Quello xe un omo da ben; el tol tutto quello che se ghe dà.

Traccagnino. Son qua. Ho vistu tutto. (correndo)

Pantalone. Férmete: non tanta furia. (copre l’oro)

Traccagnino. Indivinè mo chi l’è?

Pantalone. Chi xelo? (mette via i denari nella borsa)

Traccagnino. Indovinèlo. (s’accosta, guarda la borsa)

Pantalone. Tìrete in là.

Traccagnino. Mo l’è giusto...

Pantalone. Aspetta; (lega la borsa, e la ripone) adesso parla: chi elo colà che xe in camera con mia muggier? Presto, voggio saverlo.

Traccagnino. L’è so pader.

Pantalone. So padre?

Traccagnino. Sior sì, el sior dottor Balanzoni.

Pantalone. In casa mia no lo voggio. El vien a sollevar so fia. In casa soa, quando ghe giera Eufemia, se tegniva [p. 48 modifica] conversazion, e adesso el sarà capace quel vecchio matto de portarghe qualche saludo.

Traccagnino. Oh diavolo! volì che el pader fazza el mezzan alla fiola?

Pantalone. El poderave farlo anca innocentemente. Qualchedun ghe dise: sior Dottor, salude vostra fia; e lu: sior sì, la sarà servida. Ela se mette in ardenza, e po... so mi quel che digo. No voggio el Dottor, no voggio nissun. No voggio che mia muggier pratica con nissun. Adesso in sto ponto voggio scazzarlo de casa mia in una maniera che no l’averà più ardir de vegnirghe.

Traccagnino. Per amor del cielo, sior padron, no la fazza sussurri.

Pantalone. Eh, che quel vecchio no me fa paura.

SCENA IX.

Agapito e detti.

Agapito. Si può venire?

Pantalone. Oh sior Agapito, ve reverisso.

Agapito. Vi ho da parlare.

Pantalone. Compatirne, gh’ho un affar de premura.

Agapito. Si tratta di guadagnare cento ducati in tre o quattro giorni.

Pantalone. Oe, Traccagnin, va al solito buso, va a véder cossa che i fa, e sàppieme dir. (piano a Traccagnino)

Traccagnino. Sior sì, vado. (Eh, co se tratta de quattrini, el se scorda la zelusia). (da sè, parte)

SCENA X.

Pantalone e Agapito.

Pantalone. Son qua: son da vu. Cossa comandeu?

Agapito. Vi è un amico mio, che ha bisogno di mille scudi, può essere per tre o per quattro giorni, e ancora per più, [p. 49 modifica] ma il mese no lo ha da passare; e a chi gli dà i mille scudi, ne donerà cento di regalo.

Pantalone. Cento scudi de regalo per un mese? Ve preme, sior Agapito? Se ve preme, vederò de servirve.

Agapito. Mi preme per l’amico, e mi preme per voi, il mio caro signor Pantalone. Perchè cento scudi in un mese...

Pantalone. E chi xelo quello che vol i mille scudi?

Agapito. Egli è il contino Giacinto, figlio di quel ricco signore.

Pantalone. El xe fio de fameggia.

Agapito. È vero, ma...

Pantalone. No faremo gnente. (Traccagnino no torna; quel vecchio sa el cielo quanti desegni el metterà in testa a mia muggier). (da sè) Sior Agapito, con so licenza.

Agapito. Ma sentite. E vero che il Contino è figlio di famiglia; ma vi è un mercante, che farà la sigurtà per lui.

Pantalone. Un mercante seguro?

Agapito. Sicurissimo. Avete tutte le vostre cautele; sarete, come si suol dire, in una botte di ferro.

Pantalone. Basta, se ve preme, quando che sia seguro, lo farò.

Agapito. Andiamo nel vostro studio a far due righe di minuta per far il contratto.

Pantalone. Sì, andemo. Aveu carta? Perchè mi ho paura de no averghene.

Agapito. Ci sarà la carta, ci sarà ogni cosa. Spero che non avrete difficoltà a dare a me un due per cento del vostro guadagno.

Pantalone. Oh, mi po ve parlo schietto. I cento scudi li voggio netti: de quelli no sperè un soldo. Andemo. Sè mio bon amigo, no ve voggio far aspettar.

Agapito. Andiamo pure.

Pantalone. Favorì. Vago avanti per insegnarve la strada, (parte)

Agapito. Avarone! indiscreto! Eppure conviene cascarci per forza nelle mani di questi usurai. (parte) [p. 50 modifica]

SCENA XI.

Camera di donna Eufemia.

Donna Eufemia, Dottore ed Argentina.

Dottore. Cara la mia figliuola, vi ho sempre voluto bene, e sempre ve ne vorrò.

Eufemia. Non ho altro in questo mondo che mi consoli, che voi.

Argentina. Caro signor Dottore, io non credo niente che abbiate voluto bene alla padrona.

Dottore. No? per qual cosa? È la mia figliuola, ed è il mio cuore, la mia contentezza.

Argentina. Se le aveste voluto bene, non l’avreste maritata con questo vecchio arrabbiato del signor Pantalone.

Eufemia. Temeraria! così parli di mio marito? Se ti sento più a dire una simile impertinenza, ti caccio subito dalla mia casa.

Argentina. (Oh vi anderò, perchè è impossibile ch’io taccia). (da sè)

Dottore. Dunque, per quel ch’io sento, questo vostro marito è un uomo cattivo.

Eufemia. No, signor padre, non crediate a colei. Ella non sa quello che si dica. Mio marito è un uomo d’onore.

Argentina. È usuraio, e tanto basta. (sottovoce al Dottore)

Eufemia. Che cosa dici?

Argentina. Niente, signora, diceva che è un uomo di garbo.

Dottore. Mi dispiacerebbe assaissimo, che voi doveste patire. Una figliuola unica ch’io avevo a questo mondo, alla quale ho dato dodicimila scudi di dote, e che avrà da esser erede di tutto ciò che possiedo, mi sarebbe un dolor troppo grande se la vedessi a star male. Ho creduto di mettervi in una buona casa. Un uomo solo, ricco, senza vizi, pontuale e onorato. Tutti mi hanno detto che era la vostra fortuna, ed ho creduto di far bene; e mi mangiarci le dita, se credessi d’aver fatto male.

Eufemia. No, signor padre, non vi rammaricate. Voi non avete errato, ed io non mi dolgo di mio marito.

Dottore. Siate benedetta; voi mi consolate. [p. 51 modifica]

Eufemia. (Povero padre! non lo voglio inquietare). (da sè)

Argentina. (Domandatele se suo marito è niente geloso). (piano al Dottore)

Dottore. Ditemi, figliuola mia, è geloso il vostro marito?

Eufemia. Siccome egli mi ama, non sarebbe gran cosa che fosse anche geloso.

Dottore. È vero: amore è padre della gelosia. Ma vi tormenta? vi strapazza? Cara la mia figliuola, ditemi la verità.

Eufemia. Caro signor padre, che cosa volete ch’io vi dica? Non nego che qualche volta mio marito non dia in qualche impazienza. Tutti hanno le loro stravaganze, ed io le averò più di tutti. Mio marito, vi dico, non è cattivo; ma quando fosse anche pessimo, voi me l’avete dato, io l’ho preso, sarebbe pazzia il dolersene, e poca riputazione il pentirsi.

Dottore. Brava; queste sono massime di donna savia e prudente. In questo mondo bisogna soffrir qualche cosa. Quando non manca il bisognevole in casa, per il resto si tira avanti.

Argentina. (Domandatele se ha nemmeno da comprarsi una carta di spille). (piano al Dottore)

Dottore. Ditemi un poco: m’immagino che vostro marito vi passerà un tanto per le piccole spese. (a donna Eufemia)

Eufemia. Quel che occorre, lo compra.

Dottore. Vi dà denari?

Eufemia. Io non gliene chiedo.

Dottore. Una donna senza denari non sta bene. Tutti i giorni fa di bisogno qualche cosa. Si ha sempre d’andare dai mariti? si vien loro in fastidio. Venite qui, prendete questi quattro zecchini.

Eufemia. Non v’incomodate, signor padre.

Argentina. Eh prendeteli, signora padrona, che ne avete bisogno.

Eufemia. Tu non puoi tacere.

Argentina. Se mi cucite la bocca.

Dottore. Via, fatemi questo piacere. Prendeteli, e servitevi nelle vostre occorrenze.

Eufemia. Quando così volete, li prenderò. Vi ringrazio, signor padre. [p. 52 modifica]

Dottore. (Poverina! è una colomba. Mi è stato detto che suo marito è un avaro). (da sè)

Argentina. Signor Dottore, non ci è niente per me?

Dottore. Prendi questo ducato: servi con amore la tua padrona.

Argentina. Che siate benedetto! Voi almeno non siete avaro, come il padrone.

Eufemia. E bada a seguitare, la disgraziata.

Argentina. Io vorrei tacere, ma ho un non so che di dentro, che mi caccia fuori le parole per forza.

Eufemia. Quel non so che, lo mortificherò io.

Dottore. Figliuola mia, non so cosa dire. Se vostro marito vi vuol bene, ringraziate il cielo, se vi tratta bene, consolatevi; e se mai fosse un uomo cattivo, se vi trattasse male, abbiate pazienza, raccomandatevi al cielo, e considerate che ci saranno tante e tante che staranno peggio di voi.

Eufemia. Io vi assicuro che non mi lamento della mia sorte.

Dottore. Quando è così, sono contento. Figliuola mia, state allegra, e se avete bisogno di qualche cosa, domandate liberamente; mandatemi a chiamare, che in tutto quello che posso, vi contenterò.

Argentina. Avrebbe bisogno d’una cosa la mia padrona.

Dottore. Di cosa?

Argentina. Avrebbe bisogno che le faceste crepar il marito.

Eufemia. Signor padre, io ho bisogno che mi ritrovate un’altra serva. Costei non la posso più sopportare.

Dottore. Taci, fraschetta, ed abbi giudizio. Non si prende tanta confidenza.

Eufemia. Ditele che moderi quella lingua, altrimenti la caccerò via sicuramente.

Dottore. Senti, modera quella lingua.

Argentina. Caro signor Dottore, non posso.

Dottore. Ma perchè non puoi?

Argentina. Perchè la mia lingua parla da sè, senza che io me ne accorga.

Dottore. Eh, so ben io qual gastigo ci vorrebbe per te. [p. 53 modifica]

Argentina. Che cosa, signore?

Dottore. Un marito che ti bastonasse.

Argentina. Oh, se il marito mi bastonasse, la vorressimo veder bella.

Dottore. Alla larga con questa sorta di bestie. Figliuola mia, vi saluto, ci rivedremo, conservatevi, e vogliatemi bene.

Eufemia. Caro signor padre, ve lo dico con il cuor sulle labbra, non ho altra consolazione al mondo che voi.

Dottore. Ed ancor io ho tutto il mio bene, ho tutto il mondo con voi. Prego il cielo che stiate bene, che non abbiate digrazie, che non abbiate travagli. Se sapessi che stassivo7 male, se vi vedessi a patir, cara figliuola mia, mi creparebbe il cuore, piangerei dalla disperazione. (parte)

SCENA XII.

Donna Eufemia, Argentina, poi Pantalone.

Eufemia. (Povero padre, s’egli sapesse la vita che mi tocca soffrire!) (da sè)

Pantalone. (Apre, ed entra zitto zitto.)

Argentina. Oimè! mi avete fatto paura.

Eufemia. Voi sempre venite così, zitto zitto. Avete veduto mio padre?

Pantalone. L’ho visto.

Eufemia. È andato via in questo momento.

Pantalone. El so.

Argentina. Eh già: non si può sputare, ch’ei non lo sappia.

Pantalone. Tasi là, ti.

Argentina. (Gli si vede proprio la rabbia negli occhi). (da sè)

Eufemia. Che cosa avete, signor Pantalone?

Pantalone. Gnente, siora.

Eufemia. Mi parete alterato.

Pantalone. No gh’ho gnente, ve digo. (con asprezza) [p. 54 modifica]

Argentina. (Gli va colle buone! un maglio sulla coppa). (da sè)

Pantalone. Cossa xe vegnù a far qua vostro padre?

Eufemia. È venuto un poco a vedermi.

Pantalone. A véderve solamente?

Eufemia. Sì: era tanto che non ci veniva.

Pantalone. Manco ch’el vegnirà, el farà meggio.

Eufemia. Che fastidio vi dà mio padre?

Pantalone. No lo voggio.

Eufemia. Pazienza. Se non ce lo volete, non ci verrà.

Pantalone. Certo che nol vegnirà.

Argentina. (Mi fa proprio rimescolar le budelle). (da sè)

Eufemia. Almeno fatemi un piacere.

Pantalone. Sì, gioia mia! un piaser ve lo8 farò volentiera.

Argentina. (Gioia mia! Chi non lo conoscesse!) (da sè)

Eufemia. Ditemi la cagione perchè non volete in casa vostra mio padre.

Pantalone. Quando no volè altro, ve la dirò.

Argentina. (Sentiamo). (da sè)

Eufemia. Via, ditemela: che sappia almeno il perchè.

Pantalone. Perchè no lo voggio.

Argentina. (Che ti venga la rabbia!) (da sè)

Eufemia. Questa non è ragione.

Pantalone. Siora sì: questa xe la maggior rason de tutte. In casa mia son paron mi; e quando no voggio uno, la mia volontà xe la mia rason.

Eufemia. Ma questa è una picca senza proposito.

Pantalone. Basta cussì; son stufo. (arrabbiato)

Eufemia. Via, non andate in collera.

Argentina. (Mi vien voglia di rompergli una seggiola sulla testa). (da sè)

Pantalone. Che bei saludi v’alo portà el sior padre?

Eufemia. Saluti di chi?

Pantalone. Saludi dei amici vecchi della conversazion de casa. [p. 55 modifica]

Eufemia. Io non mi ricordo più di nessuno. Dopo che sono in questa casa, vedete la bella vita ch’io faccio.

Argentina. Signor sì, stiamo qui che facciamo la muffa.

Pantalone. Ma! cossa vorla far? In casa mia se vive all’antiga: no se fa conversazion; no se zioga; no se va a spasso coi cicisbei.

Eufemia. Io di queste cose non me ne sono curata mai, e non me ne curo.

Argentina. Povera donna! si può ben dire sagrificata davvero.

Pantalone. Mi te darò un schiaffo, che la terra te ne darà un altro. (ad Argentina)

Argentina. Affé di bacco, signor padrone, se mi darete degli schiaffi, non li prenderò.

Pantalone. Ho inteso: fenio el mese, ti anderà a bon viazo.

Argentina. Anderò anche adesso, se volete.

Pantalone. Desgraziada! Ti ha avù el salario anticipà. Dame indrio undese zorni, che ghe manca a finir el mese, e po va quando che ti vol.

Argentina. Si può sentir di peggio?

Pantalone. E po gh’è un altro no so che da discorrer, prima con donna Eufemia e po con ti. Diseme un poco, patrona, cossa v’ha dà vostro padre?

Eufemia. Mio padre niente.

Pantalone. Come gnente? Ho visto che el v’ha dà qualcossa, e vu l’avè messo in scarsella. Voggio saver cossa che el ve ha dà.

Argentina. Oh, quest’è bella! Viene a spiare tutti i fatti nostri.

Pantalone. E anca ti, frasconcella, ti ha tolto e messo via. Voggio veder; voggio saver.

Argentina. Marameo.

Pantalone. Presto: diseme tutto, se no volè che ve metta le man in scarsella.

Eufemia. Via, via, non andate in collera. Ecco qui: mi ha dato questi quattro zecchini.

Pantalone. Lassè veder.

Eufemia. Eccoli.

Pantalone. V’alo dà questi soli? Nol ve n’ha dà altri? [p. 56 modifica]

Eufemia. No certo: se non credete, ecco la tasca.

Pantalone. E a ti cossa t’alo dà? (ad Argentina)

Argentina. Con me, signore, compatitemi, voi non ci entrate.

Pantalone. Lo voggio saver.

Eufemia. Via, ve lo dirò io: le ha dato un ducato.

Pantalone. Lassa véder.

Argentina. Oh, questo non me lo pigliate.

Pantalone. Baroncella! se tol i ducati, ah? Avézzate a far la mezzana.

Argentina. Oh cospetto di bacco! Me l’ha dato suo padre.

Pantalone. Vostro padre donca v’ha dà sti quattro zecchini. (ad Eufemia)

Eufemia. Non l’avete veduto da voi medesimo?

Pantalone. E per cossa ve li alo dai?

Argentina. Via, v’averà fatto un affronto il signor Dottore a dare quattro zecchini a vostra moglie?

Pantalone. Mi no digo che el sia un affronto. Ma perchè ve li alo dai?

Eufemia. Acciò mi compri dei nastri, delle spille, della polvere di cipro e simile corbellerie.

Pantalone. Cosse che con tre lire se provvede per un anno. Mi ve li impiegherò ben. Vederè che figura che ve farò far con sti quattro zecchini.

Eufemia. Li volete tener voi?

Pantalone. Sì ben, i tegnirò mi. Vu no savè custodir i bezzi.

Argentina. (Non glieli dà più). (dasè)

Eufemia. Se non mi lasciate quei denari, cosa volete che dica mio padre?

Pantalone. Vostro padre v’ho dito che no lo voggio.

Eufemia. Poverino! se mi dona qualche cosa, lo volete impedire?

Pantalone. Se el vien in casa mia per comandar, no lo voggio. Se el vien po per farne qualche finezza, per darne qualche segno d’affetto, lo sopporterò. Ma in casa mia son paron mi, e nissun a mia muggier ha da portar ambasciate. Ve serva de regola, e se semo intesi. (va per partire) [p. 57 modifica]

Argentina. Eh via, date i suoi denari alla povera mia padrona.

Pantalone. E se ti butterà via quel ducato, lo scriverò a to mare. L’oro e l’arzento costa sudori. El Dottor el vadagna i bezzi con poca fadiga, a forza de chiaccole e de scritture. Ma mi so cossa che costa i bezzi: mi che li vadagno onoratamente. (parte)

SCENA XIII.

Donna Eufemia e Argentina.

Eufemia. (Ma! è toccata a me). (da se)

Argentina. (Maledetto!... non si può soffrire. Ed ella sta lì come una marmotta). (da sè)

Eufemia. Cosa dici, Argentina, da te stessa?

Argentina. Niente; s’io parlo, sono una bestia.

Eufemia. Parla, parla, che hai ragione di farlo.

Argentina. Siete troppo buona.

Eufemia. Che vuoi ch’io faccia? Da una delle due non c’è scampo: o tacere, o andarmene da mio marito.

Argentina. Quest’ultima è la più bella di tutte.

Eufemia. Vorrei pur vedere se ci fosse modo...

Argentina. È stato picchiato.

Eufemia. Guarda chi è.

Argentina. Subito. Oh, io a quest’ora, se fossi stata in vece vostra, una delle tre: o qui non ci sarei più, o la bestia saria cangiata, o lo averei pelato come un cappone. (parte)

SCENA XIV.

Donna Eufemia, poi Argentina.

Eufemia. Bella differenza che c’è da una donna civile a una donna ordinaria. Argentina potrebbe condursi in una maniera che a me non conviene. Io poi son di cuore assai tenero. Il signor Pantalone mi ha preso sulle prime con amore e con tenerezza, me ne ricordo sempre, e sempre spero ch’ei ritorni com’era. Se la rompiamo del tutto, non si accomoda più. Soffrendo e [p. 58 modifica] dissimulando, posso sperare d’intenerirlo. Alfine è mio marito, e sia o per un affetto che i primi giorni gli ho concepito; o sia perchè il matrimonio medesimo infonda nelle mogli onorate un rispetto, una soggezione al marito; o sia una mia natural timidezza, di cui però non mi pento: so che io non sono capace d’una violente risoluzione, e mi ridurrò a morire sotto le mani di mio marito, prima che recare un’ombra di disonore al suo nome, alla sua famiglia, alla nostra riputazione.

Argentina. Signora, una visita.

Eufemia. Una visita! chi è?

Argentina. La signora donna Aspasia.

Eufemia. Che stravaganza! In casa mia non credo ci sia più stata.

Argentina. E così, che facciamo?

Eufemia. Non vorrei che il signor Pantalone...

Argentina. Il signor Pantalone è uscito di casa. E poi è una donna, non è già un uomo.

Eufemia. Dille che è padrona.

Argentina. (Mi pare impossibile che si dia al mondo una donna che abbia tanta soggezione di suo marito). (da sè, parte)

SCENA XV.

Donna Eufemia, poi donna Aspasia.

Eufemia. Eppure, se viene mio marito, è capace d’adirarsi anche per questa visita. Sono in una costituzione d’aver paura di tutto.

Aspasia. Serva di donna Eufemia.

Eufemia. Serva umilissima, donna Aspasia.

Aspasia. Sono venuta a vedervi, desiderosa di star mezz’ora con voi.

Eufemia. Sono finezze ch’io non merito. Favorite d’accomodarvi. (siedono)

Aspasia. Cara amica, che vita è mai la vostra? Possono ben venire feste, carnevali, funzioni, donna Eufemia non si vede mai.

Eufemia. Sapete il mio naturale: anche da fanciulla mi piaceva vivere ritirata. [p. 59 modifica]

Aspasia. Da fanciulla va bene, ma da maritata poi qualche volta conviene farsi vedere. In verità, credetemi, ne sento parlare da tutti con del dispiacere.

Eufemia. Ringrazio infinitamente quei che di me si ricordano; ma non vorrei che si prendessero tanta pena.

Aspasia. Sapete che cosa dicono? Dicono che non andate in nessun luogo, perchè vostro marito è geloso.

Eufemia. S’ingannano. Mio marito non è geloso.

Aspasia. Oh, ne dicono una più bella.

Eufemia. Davvero, che cosa dicono?

Aspasia. Che è avaro, che non vi fa il vostro bisogno... che so io? Cose che fanno venir la rabbia.

Eufemia. Mi pare che le dicerie di codeste persone che praticate, eccedano un poco troppo; e voi, compatitemi, non fate la miglior cosa del mondo a venirmele a riportare.

Aspasia. Cara donna Eufemia, sapete se vi voglio bene e se vi sono amica di cuore. Non intendo riportarvi queste ciarle nè per mortificar voi, nè per iscreditar chi le dice: ma sono venuta a posta per avvertirvi, perchè mi preme il vostro decoro, la vostra estimazione, e voglio assolutamente che facciate questa volta a mio modo.

Eufemia. Che cosa vorreste ch’io facessi?

Aspasia. Voi mi avete a promettere di fare quello che vi dirò.

Eufemia. Ditemi prima, che cosa intendete ch’io debba fare.

Aspasia. Avete paura che vi proponga una cosa che non vi convenga? Avete un bel concetto di me! Obbligata, donna Eufemia, obbligata.

Eufemia. Ma voi sapete ch’io sono maritata; che ho un marito, galantuomo certo, ma un poco difficile. Non è geloso, ma ha sempre paura ch’io m’impegni in cose che non convengono allo stato nostro e al modo suo di pensare. Ecco la ragione per cui non posso impegnarmi, senza prima intendere cosa vogliate da me.

Aspasia. Via, ve lo dirò. Voglio che questa sera veniate meco alla conversazione. Questa non è una cosa che abbiate a dirmi di no. [p. 60 modifica]

Eufemia. Oh certissimo. È una cosa da niente. Non potrei dire di no. Ma... sappiate, amica, che questa sera ho un impegno di restare in casa.

Aspasia. Bene, e noi verremo alla conversazione da voi.

Eufemia. Bisognerebbe che lo sapesse il signor Pantalone.

Aspasia. Che? avete da dipendere dal marito per tenere un poco di conversazione? Siete ben particolare davvero! Nella nostra compagnia siamo otto donne, ognuna delle quali si vergognerebbe dir queste cose al marito. Basta ch’egli lo sappia, quando paga la cera, il caffè, o le carte; e qualche volta lo sa, quando gli tocca pagare la perdita della consorte.

Eufemia. Ciascheduna famiglia ha le sue regole particolari.

Aspasia. Oh, la vostra regola non mi piace.

Eufemia. Il mondo non sarebbe sì bello, se tutti fossero di un umore.

Aspasia. Dunque in casa vostra non ci volete.

Eufemia. Io non dico di non volervi, dico che lo ha da saper mio marito. Potrei anch’io prendermi la libertà di far senza dirlo, e son certa che non osarebbe rimproverarmi; pure gli ho sempre usato questo rispetto e glielo userò sempre mai. Credetemi, donna Aspasia, a lungo andare non è poi cosa tanto cattiva questa discreta soggezion della moglie. Alla fine dell’anno si trova l’economia in bilancio e la riputazione al sicuro.

Aspasia. Oh, oh, che massime antiche! Queste le avete studiate sui libri, non le avete certo imparate da veruna donna del nostro secolo.

Eufemia. Queste sono massime che ho imparate da me medesima, e sarebbero le vostre ancora, se un altro mondo non vi occupasse.

Aspasia. Per me son contenta così. Ho un marito, grazie al cielo, che non sa dirmi di no di niente. Vado dove voglio, e non glielo dico. Lo faccio venir con me se sono sola, lo licenzio se sono accompagnata. Invito a casa chi voglio; vado a pranzo fuori, quando mi pare. Se spendo, egli non dice nulla; se perdo, egli paga: questo mi par che si chiami vivere. [p. 61 modifica]

Eufemia. Sì; questo si chiama vivere alla vostra maniera.

Aspasia. E la mia maniera è la più comune.

Eufemia. Cara donna Aspasia, è dunque vero che di me si mormora?

Aspasia. Sì; e me ne dispiace infinitamente.

Eufemia. Si dice ch’io non pratico, perchè ho il marito geloso; che non comparisco, perchè ho il marito avaro.

Aspasia. Cose che mi fanno arrossire per parte vostra.

Eufemia. E di quelle che vivono come voi vivete, che cosa credete voi che si dica?

Aspasia. Io non saprei che cosa si potesse dire.

Eufemia. Ve lo dirò io quello che si dice. La tale non fa stima di suo marito, suo marito non fa stima di lei, perchè tutti e due hanno degli attacchi di cuore; quell’altra si serve di suo marito, come farebbe d’uno staffiere; l’altra rovina la casa; colei è una civetta, una vanarella...

Aspasia. Di me si dice questo?

Eufemia. Non dico che si dica di voi; ma di chi vive all’usanza vostra.

Aspasia. Orsù, mutiamo discorso.

Eufemia. Sì, mutiamolo, che mi farete piacere.

Aspasia. Mio fratello vuol venirvi a fare una visita.

Eufemia. Sono molto tenuta alla bontà che ha per me il signor don Luigi.

Aspasia. Spero che voi lo riceverete.

Eufemia. Se fossi in grado di non poterlo ricevere, è tanto gentile che mi compatirebbe senz’altro.

Aspasia. Lo conoscete voi mio fratello?

Eufemia. Ho avuto l’onor di vederlo più volte in casa di mio padre.

Aspasia. In verità, per tutta la vostra casa non so che cosa non facesse.

Eufemia. È pieno di bontà il signor don Luigi.

Aspasia. Quante volte mi ha parlato di voi!

Eufemia. (Donna Aspasia è una sorellina pietosa). (da sè) [p. 62 modifica]

Aspasia. Qualche volta, così per ischerzo, diceva egli: è un peccato che il signor Pantalone lasci così sepolta una donna di spirito, come donna Eufemia.

Eufemia. Don Luigi è compitissimo. Lascierà che tutti vivano a modo loro.

Aspasia. Guardate un regalo che mi ha fatto mio fratello.

Eufemia. Bel ventaglio! veramente di buon gusto.

Aspasia. Vi piace, donna Eufemia?

Eufemia. Certamente, non si può negare che non sia bello.

Aspasia. Se lo volete, siete padrona.

Eufemia. No, no, vi ringrazio.

Aspasia. Davvero, mi fate la maggior finezza di questo mondo.

Eufemia. In verità, vi sono obbligata; sta bene nelle vostre mani.

Aspasia. Se non lo prendete, mi fate torto.

Eufemia. Eh via, fate più conto d’un regalo di vostro fratello.

Aspasia. Don Luigi non mi darà dei rimproveri, se saprà che a voi l’ho donato; anzi si consolerà, intendendo che una sua finezza sia passata nelle vostre mani. Prendetelo.

Eufemia. Ma se vi dico di no.

Aspasia. Mi fate venire la rabbia. (s’alza)

Eufemia. Mi dispiacerà vedervi arrabbiata, ma io non ne ho colpa.

Aspasia. Donna Eufemia, vi levo l’incomodo.

Eufemia. Voi mi levate le grazie.

Aspasia. Il ventaglio non lo volete.

Eufemia. No certamente, vi prego di compatirmi.

Aspasia. Alla conversazione non volete venire! qui non si viene senza il passaporto di vostro marito! mio fratello non si sa se lo riceverete!

Eufemia. Guardate che stravaganze si sentono in questa casa! Chi ha giudizio, non ci dovrebbe venire.

Aspasia. Ma io vi voglio bene, e ci verrò. Mi cacciarete via, se ci verrò?

Eufemia. Non son capace di un’azione cattiva.

Aspasia. Addio, donna Eufemia.

Eufemia. Serva, donna Aspasia. [p. 63 modifica]

Aspasia. (Che diavolo mi sono ridotta a fare per mio fratello! Ma non faremo niente. In questa casa si vive troppo all’antica). (da sè, parte)

Eufemia. Può sentirsi di peggio? Sotto pretesto di buona amicizia, viene una donna a sviarmi, vorrebbe introdurmi il fratello in casa, vorrebbe farmi prendere dei regali? Oh mondo, mondo, tu sei pur tristo! Cominciano a piacermi le stravaganze di mio marito, poichè queste affliggono, è vero, la persona in segreto, ma in pubblico non la fanno ridicola a questo segno. Codesto si chiama vivere? Codesto si chiama impazzire. Vera vita dell’uomo è quella che è regolata dallo spirito dell’onore.

Fine dell’Atto Primo.



Note

  1. Così le edizioni Guibert-Orgeas, Zatta ecc.; Pitteri e Pasquali: l’è andà.
  2. Così le edizioni del Settecento.
  3. Così le edd. Pitteri, Pasquali ecc.; nelle edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc. leggesi: Caro signor padron, l’è za un grande intrigo a incapricciarse in te le donne, ma pezo po, che la va a incapricciarse in una ecc.
  4. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: glielo.
  5. Guibert, Zatta ecc.: parlatele
  6. Mancano queste parole nelle edd. Guibert, Zatta ecc.
  7. Guibert, Zatta ecc.: steste.
  8. Pitteri e Pasq. stampano: un piaser. Ve lo ecc.