Ornello

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La lettera Sotto il pino

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ORNELLO

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Come una spina di pesce, dritta fra la coda e la cima di Montepetri, sale il corso Vittorio Emanuele, con le vie adiacenti intitolate ai gloriosi nomi del nostro Risorgimento: più che strada può dirsi una scalea, a larghi gradini lastricati di ciottoli; in alto, piazza Garibaldi appare sospesa sul cielo cilestrino, con una corona di alberelli sfrondati in ogni stagione dell’anno, per opera dei monelli che vi stazionano in permanenza. In ogni sfondo di vicolo sorride lo stesso cielo un po’ pallido, ma dolce e tenero: le case hanno quasi tutte portoni medievali, con chiodi e stemmi e rimasugli di architravi austere: e quasi davanti a ciascuna di queste nobili abitazioni sta legato un ciuco, o una mula che sembra quella della fuga in Egitto; e anche un cavallo. La strada è così stretta che queste pacifiche bestie possono sbattersi le code con vicendevole amicizia: i rivoletti dei loro bisogni corrono giù per una parvenza di cunetta, mescolandosi, in fondo, con lo scolo oleoso di un frantoio per olive; e l’aria buona di montagna mette pace in ogni cosa.

Tutto, qui, è, o sembra, pace: gli animali e gli uomini si vogliono bene e vivono della stessa [p. 180 modifica]vita: una vecchia fila su una scaletta esterna, con una gallina bianca appollaiata sulla spalla, mentre ai suoi piedi un orfano porcellino da latte, nudo e roseo come devono essere quelli degli ovili celesti, succhia il latte da una capra barbuta nei cui grandi occhi di vetro si riflette l’azzurro della vetta.

In cima, con la facciata sulla piazza e il fianco incastrato in un blocco ciclopico di precipizio che sembra per sè stesso una torre inespugnabile, sorge il castello, o meglio la rocca, o meglio ancora il groviglio di antri, androni, sotterranei, stalle e caverne dove vivono due fratelli testoni ciociari che pretendono di essere i discendenti dei signori del luogo. E potrebbero pretendere di essere anche i più puri discendenti degli Ernici, tanto le loro persone sono ruvide e forti, e le teste nere coperte di riccioli con le punte rossicce come bruciacchiate dalla vampa gelida dell’aquilone.

Forza, vigoria, anche buon umore quanto ne volevano; ma quattrini pochi: e quindi escogitavano tutti i mezzi per farne, tanto più che avevano moglie, figli, sorelle e vecchie da mantenere; tutti appollaiati nelle nicchie della rocca come cornacchie felici.

Le famiglie erano però separate, e lo spazio tanto che le donne non avevano modo di incontrarsi e litigare; eppure una sorda gelosia li rodeva, anche i fanciulli, perchè se il fratello maggiore, dal bel nome di Florindo, era più svelto e fortunato negli affari, il più giovane, Angioletto, aveva figli più sani e più belli: e questi [p. 181 modifica]avevano la meglio, quando nelle sere di estate scendevano in lizza, armati di canne e di sassolini, nella piazzetta pietrosa che era come uno spalto sopra la grande valle solitaria, massacrando di botte i cugini gobbi e rachitici, che a loro volta si vendicavano sugli alberelli intorno al parapetto, strappandone le fronde già tanto afflitte sul cielo rosso e dolce della sera.


Le donne non intervenivano, occupate a preparare il pasto per i loro uomini, negli antri dalle cui porticine uscivan il fumo e l’odore dei fagiuoli cotti col lardo. Il primo a tornare era sempre Angioletto, col suo cavallo nero e tozzo che pareva un mulo, attaccato a un biroccino azzurro e rosso sul quale egli portava certi sacchi ricolmi non si sa di che cosa. Era la merce dalla quale traeva scarsi guadagni; ad ogni modo da vivere ce n’era sempre, e i ragazzi vittoriosi correvano a lui con grida belluine, come se egli tornasse da grandi imprese, lo aiutavano a slegare il cavallo e rimettere il biroccino nella stalla cavernosa; e infine sedevano con lui intorno alla pentola ancora in bollore come leprotti ai quali il padre ha procurato il cibo. Gli altri, invece, arrampicati sul cielo cremisi, sembravano piuttosto scimmie; e quando il padre arrivava, con calma, sul suo bellissimo cavallo bigio, dalla testa fina e gli occhi che riflettevano il crepuscolo luminoso, non si disturbavano a scendere dal parapetto, tanto loro avevano già mangiato, poiché in casa loro nulla mai mancava; ed egli smontava agile ma nello stesso tempo dritto e duro, come se i suoi pantaloni di pelle e il [p. 182 modifica]corpetto a maglia fossero di acciaio, rimetteva il cavallo, lo accarezzava tutto, assicurandosi che non era sudato, gli riempiva la mangiatoia, e lasciava la porta spalancata perchè la bestia potesse mangiare alla luce ultima del giorno. Allora il mite Ornello si scuoteva tutto, e la sua criniera e la coda, con le punte dorate come i riccioli del padrone, parevano i capelli che una donna si scioglie prima di andare a letto; volgeva la testa verso i bambini, quasi per assicurarsi che c’erano tutti, e infine nitriva. Era il suo saluto alla famiglia, alla giornata che finiva tranquilla, alla notte che cominciava serena.

E il sor Florindo portava dei buoni soldi a casa: faceva il sensale, di prodotti agricoli e di vino, e non mancava mai di render conto di tutto alla moglie. Eppure la moglie non era contenta: piantata sulle sue cioce come un ponte fra due chiatte di cemento, brontolava contro il marito che tornava tardi, e ne dava la colpa al cavallo. È delicato come una signorina, il tuo Ornello; e tu gli vuoi bene e lo vizi quasi fosse il tuo primogenito. Sì, va anche a dargli da bere il marsala: ubbriacone lo è pari tuo. E per questo tornate tardi; mentre tuo fratello, col suo bravo cavallo, è già a casa da un’ora.

Egli la lasciava dire, forse perchè in fondo riconosceva ch’ella diceva la verità.


Ed ecco un giorno Florindo e Ornello si fermano all’osteria dei Tre Curati, giù ai piedi del monte, felici entrambi del buon viaggio già quasi compiuto. Gli affari sono andati bene; la salute è ottima, la giornata di ottobre già freschina e [p. 183 modifica]ventilata. Il padrone pensa che può permettersi di bere un mezzo litro, di quello buono, tanto più che per lui mezzo litro è come un bicchierino di rosolio per una signora.

L’oste era un suo amicone; e, poichè l’osteria campestre era già quasi deserta, venne a sedersi al tavolo, in fondo al cortile, accanto al quale stava legato il cavallo. E del cavallo si cominciò a parlare, mentre, oltre al mezzo litro di quello buono, l’oste ridanciano ne offriva un altro mezzo litro ancora più buono. L’aria ne era tutta profumata, anche perchè nella cantina bollivano le botti del mosto, e sulle pendici dei colli le vigne ancora non vendemmiate odoravano al fresco del tramonto. Dice l’oste:

— Mi sembra dimagrito, il tuo Ornello: e ha l’occhio spento.

— Ha una passione. È geloso.

— Eh, sì, lo so: i cavalli buoni soffrono come i cristiani: si affezionano, hanno amici e nemici, sono gelosi e invidiosi: proprio come noi.

— Mia moglie, non so perchè, non lo può vedere: non lo maltratta, perchè altrimenti lei ne piglierebbe da me un sacco e una sporta, ma ne parla male, e gli contrappone quel ronzino del cavallo di mio fratello. E la bestia capisce; si accora, è gelosa dell’altro, dimagrisce. Sì, a volte le bestie sono più brave di noi.

Ornello allungava la testa, melanconico: pareva ascoltasse.

— E dàgli da bere, — consigliò l’oste, — vedrai che riprende coraggio.

L’altro, già allegrotto, si alzò, versò in una ciotola un fondo di bottiglia e lo porse al [p. 184 modifica]cavallo: e il cavallo bevette e si scosse tutto con un brivido giovanile.

— Hai visto, compare? Adesso offro io: però, dopo, non bisogna sforzarlo.

E, come due ragazzi, l’oste e l’amico si divertirono a ubbriacare il cavallo.


Il cavallo adesso è felice: sente di nuovo la gioia di vivere, e il suo nitrito vibra come una risata di donna. Anche il padrone è contento e naviga in un’atmosfera rosea: vorrebbe allentare la briglia al suo palpitante compagno, ma ricorda l’avvertenza dell’oste, di tenerlo a freno. E vanno su, di buon accordo, per la strada grande che tutta bianca, fra campi verdi e coste, dove ancora le ginestre fiorite danno alle rocce un colore di sole, e il bagliore di un lago sotto l’orizzonte perlato, pare salga al paradiso. D’un tratto però Ornello s’impennò: parve sollevarsi per veder meglio in alto: in alto, in vetta alla strada, quasi vicino al paese, trottava svelto il suo rivale, tirando il biroccino col suo carico misterioso. Nel grande silenzio si sentiva il sonaglio che lasciava come una scia d’argento.

Un attimo; e il sor Florindo fu più padrone nè di sè nè del cavallo: gli parve che un turbine lo portasse via; le sue grida fecero fermare il fratello, cosa che diede agio a Ornello di sorpassare il biroccino, entrare nel glorioso Corso del paese e fermarsi trionfante sulla piazza come un monumento di lucido bronzo. Sì, ma tre giorni dopo era morto, di polmonite fulminante.