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petto a maglia fossero di acciaio, rimetteva il cavallo, lo accarezzava tutto, assicurandosi che non era sudato, gli riempiva la mangiatoia, e lasciava la porta spalancata perchè la bestia potesse mangiare alla luce ultima del giorno. Allora il mite Ornello si scuoteva tutto, e la sua criniera e la coda, con le punte dorate come i riccioli del padrone, parevano i capelli che una donna si scioglie prima di andare a letto; volgeva la testa verso i bambini, quasi per assicurarsi che c’erano tutti, e infine nitriva. Era il suo saluto alla famiglia, alla giornata che finiva tranquilla, alla notte che cominciava serena.

E il sor Florindo portava dei buoni soldi a casa: faceva il sensale, di prodotti agricoli e di vino, e non mancava mai di render conto di tutto alla moglie. Eppure la moglie non era contenta: piantata sulle sue cioce come un ponte fra due chiatte di cemento, brontolava contro il marito che tornava tardi, e ne dava la colpa al cavallo. È delicato come una signorina, il tuo Ornello; e tu gli vuoi bene e lo vizi quasi fosse il tuo primogenito. Sì, va anche a dargli da bere il marsala: ubbriacone lo è pari tuo. E per questo tornate tardi; mentre tuo fratello, col suo bravo cavallo, è già a casa da un’ora.

Egli la lasciava dire, forse perchè in fondo riconosceva ch’ella diceva la verità.


Ed ecco un giorno Florindo e Ornello si fermano all’osteria dei Tre Curati, giù ai piedi del monte, felici entrambi del buon viaggio già quasi compiuto. Gli affari sono andati bene; la salute è ottima, la giornata di ottobre già freschina e

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