Il buon cuore - Anno IX, n. 32 - 6 agosto 1910/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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La Cappella espiatoria di Monza


È mirabile veramente per austerità, per ricchezza, per eccellenza artistica. È un senso di godimento intimo e profondo, che si prova nell’interno del minuscolo tempio. Vien fatto di pensare alla famosa cappella palatina — a parte i sette secoli di differenza tra le due — di Palermo, 1a gemma medievale di tutta la Sicilia.

È quadrata, con le pareti laterali incurvate e dominata da un’alta cupola. Agli angoli sono quattro colonne, di gusto classico, di botticino, con qualche lieve modanatura dorata. Pure di botticino è l’altare, semplicissimo. Le pareti sono tutte rivestite di marmi orientali antichi, quasi bianchi, percorsi da venature nere vaghe e bizzarre così da sembrare un arazzo. In basso corre uno zoccolo di marmo africano a vive macchie rosse. Anche di marmi antichi sapientemente alternati è contesto il pavimento.

Poi, levando lo sguardo, la meraviglia cresce. L’intera cupola è rivestita di mosaici superbi. Quattro angeli stilizzati, del Retrosi di Roma, a braccia sollevate, sembrano reggere la pàtera o sigillo della cupola recante il simbolico agnello. Tutti i fondi sono d’oro, e l’oro s’illumina tenuamente alla luce che passa attraverso le tre finestre della cappella. Com’è noto, nella cappella di Monza non esistono vetri. Là dove sono finestre, il vetro è sostituito da esili cartelle d’alabastro orientale che scalda, che accende la luce ma in pari tempo la attenua. Nell’alabastro il sole rivela poi mirabili disegni di macchie bizzarre, di fiori strani, di profili fantastici. I contorni delle tre finestre della cappella, poichè il muro è grossissimo, rappresentano per ricchezza e varietà di marmi una delle cose più ricche e più belle che sia dato vedere. Sovra l’altare troveranno posto quattro candelieri e un crocifisso, di bronzo dorato, squisitamente sbalzati, con gemme vere inca3tonate nei piedestalli. Il bastone del candelliere è di cristallo. La croce invece, recante un Cristo

d’argento superbamente modellato e lavorato, è di lapislazzuli. Dall’alto della volta pende una lampada di bronzo, cristalli e gemme autentiche ispirata ad austeri modelli bisantini.

Cappelletta augusta, cappelletta degna di Re.

Anche la cripta sottostante alla cappella è, come questa, interamente finita. Vi si accede da una porta di bronzo a specchietti d’alabastro trasparente aperta nel lato posteriore del monumento. È ampissima (oltre duecento metri quadrati), ed ha le pareti tutte rivestite di marmo di Nembrogiallo di Verona, contornato da fascie di broccatello rosso pure di Verona, con ovoli e listelli di bronzo nei punti d’unione. Lo zoccolo è in verde di Polcevera.

Le volte sono a mosaico azzurro stellato, a vaghe fasciature policrome. Il pavimento, a tasselli policromi di marmo, è più basso assai della via, perchè è noto che la palestra dei ginnasti monzesi era in realtà bassissima, sì che nella notte del 29 luglio la carrozza reale aveva dovuto discendere lungo un piano inclinato per accedervi. Quel livello, per augusto desiderio, venne rispettato.

Il punto preciso in cui la rivoltella omicida fu rivolta al cuore di Umberto I, trovasi al centro della superficie occupata dalla cripta. Esso è determinato da un basso cippo circolare, di pietra nera di Bruxelles, finemente lavorata e lucidissima. Superiormente reca, a lettere d’argento, la data fatale: XXIX luglio MDCCCC. La vôlta sovrastante al cippo è a mosaici rossi, come per un’infiltrazione di sangue; i quali mosaici s’illuminano un po’ allorchè vengono accese le lampadine stabilite nello spessore della vôlta, dietro il sigillo d’alabastro orientale che occupa il centro della vôlta stessa. In questo sigillo è incavata una croce che, per sapiente effetto d’ottica, si riflette nel cippo nero penetrandolo tutto. Così, sotto lo scintillìo delle lettere argentee, è una piccola croce di luce chiara, vaporosa, dentro, in fondo, proprio là ove il regicidio fu consumato. Non è credibile l’effetto suggestivo che si prova da quella riflessione sotto quei mosaici sanguigni, in quel locale così austero e raccolto.

L’impressione complessiva che la cappella espiatoria produce dal gran viale d’accesso è gradevolissima. È tutta costruita, come s’è detto, di pietra grigetta di Oggiono, e si profila nettamente nell’azzurro del cielo, disturbato soltanto da qualche fumaiolo industriale. Alta ben trentadue metri, la torre-colonna è terminata da un cuscino di bronzo a dorature, traversato dalla stola e dal collare dell’Annunziata. Sul cuscino posa una grande corona reale dorata con gemme incastonate.

Alla base della colonna, ove essa si allarga per ospitare il Sacello, raccoglie l’attenzione, sovra la porta di ingresso, il superbo gruppo in bronzo modellato da Lodovico Pogliaghi. È una Pietà ispirata a quella di Michelangelo: un’opera poderosa di sentimento e di modellazione. La figura del Cristo morto è lunga 4 metri.

Poi all’inizio della terrazza, larga quanto la [p. 253 modifica] sottostante cripta, che circonda la cappella, corre una superba balaustrata di bronzo recante su gli scudi centrali il motto Fert. Un’ampia gradinata adduce, dalla via Matteo da Campione, alla cappella. Fra i due propilei laterali (destinati a casa del custode e a locali di servizio) è tesa, davanti la gradinata, una cancellata che rappresenta tre mesi di lavoro febbrile di quel mago del ferro che è il prof. Mazzucotelli. È magnifica, a scudi, ad alette intrecciate, di gusto classico, tutta nera con sobrie dorature negli scudi e nelle borchie.

Col decimo anniversario del regicidio, si è inaugurata una delle più ricche e artistiche opere della terza Italia.

L’idea di essa è del Sacconi, l’autore del monumento al Gran Re a Roma. La malattia lo colse però quando egli non avea condotto a termine che un disegno d’insieme della cappella: disegno che oggi acquista uno speciale interesse perchè è possibile confrontarlo col monumento studiato poi in ogni suo particolare e diretto nell’esecuzione da un allievo del Sacconi: l’architetto Guido Cirilli, il quale vi introdusse parecchie variazioni, specialmente nella parte superiore. Marchigiano come il suo maestro, il Cirilli ha speso degli anni intorno alla cappella di Monza, perchè tutto in essa rispondesse a quell’ideale di bellezza che egli persegue, che tutto fosse degno del Re Buono a cui la cappella è dedicata e del Re giovane e dell’Augusta sua Madre che gli conferirono l’incarico della costruzione senza limite di spesa.

Così la nuova Italia ha un’incomparabile opera d’arte di più.

UNA DATA

(Dal Parco di Monza).


Qual di luce sorriso in mille incanti
Da le verdi tue ampiezze si sprigiona!
Qual sussurrio di fronde!
Quai pispigli d’augelli e trilli e canti!
In mille note suona
Di lieta voce l’armonioso accento.
Perchè, o natura, al vago tuo concento
Pietoso un suon risponde?


Ahimè! nel riso o nell’arcana pace
Che sì tranquille fa le verdi ombrìe
Dei solitari viali,
Solo il perenne sovvenir non tace
De le memorie pie!
Sul palagio regal di vita spoglio
Qual lugubre vision d’alto cordoglio
Stende mestizia l’ali.


Fu cupo un sogno di pazzia ribelle
Che l’alme tutte avvinse in sacro orrore.
Fu atroce una congiura
Che sotto al guardo di ridenti stelle
Versò l’onta e ’l dolore
Allor che vinto ogni più sacro dritto
Sinistramente balenò il delitto
Che fe’ tremar natura.


L’angelo de la Patria ov’era allora?
Forse il pietoso spirito saliva
A scongiurar che vuota
Di tanta colpa rimanesse l’ora
Che di pietà fu priva.
Forse qual prezzo d’un’eterna fede
Italia bella quella vita diede
Al fato suo devota.


Ma se tra quelle mura ornai silenti
E lo squallor che in mesto ammanto scende
Su le deserte stanze
Ripete l’eco sola i suoi lamenti,
Sul fatal loco ascende
A perdonar, quel simulacro santo
Che le lacrime eterna, ed il rimpianto
Le preci e le speranze!

La Corrispondenza di Luigi Rossari


Felicissimo fu il pensiero della Direzione del Pio Istituto pei Figli della Provvidenza, quale erede del conte Stefano Stampa, figliastro di Alessandro Manzoni, d’affidare alla valente signorina Irene Comotti la pubblicazione di un interessante carteggio di quel grande educatore che fu Luigi Rossari.

Si tratta di lettere affatto inedite e sottratte per caso alla distruzione in cui avrebbero dovuto essere coinvolte con altre.

Il libro trasporta il lettore in ambiente manzoniano, vogliamo dire l’ambiente famigliare dell’autore dei Promessi Sposi.

Ma lasciamo la parola all’egregio prof. Carlo Antonio Mor, il quale così giudica l’importante pubblicazione:

E’ una ricca collezione di lettere inedite, diligentemente ordinata ed annotata dalla signora Irene Comotti, valorosa maestra nelle classi elementari superiori di Milano. La maggior parte appartengono alla corrispondenza famigliare tenuta da Luigi Rossari, amico intimo del Manzoni, col conte Stefano Stampa, dal 183o al 1870. Degne di pregio particolare sono quelle dirette alla contessa Teresa Borri Stampa rimaritata Manzoni, quelle allo stesso Alessandro Manzoni, al conte Borri, al conte Paolo Belgiojoso. In queste lettere è rispecchiato tutto il suo ingegno facile, limpido, prudente, tutto il suo ingegno manzoniano; in esse vibra tutta l’anima semplice, delicata, incorruttibile, severamente buona, giovialmente e festosamente umoristica, vivacemente e argutamente giovanile, giovanile anche nei tardi anni, anco nella sua [p. 254 modifica] lunga e dura prova dell’infermità; in esse sono faville proprie di un artista letterato, di un patriotta, di un amico verace, devoto, fidato, di un Maestro brioso, valente, bonario.

La raccolta che porta il titolo: Lettere famigliari di Luigi Rossari (Milano 1910), fatta con sagace discernimento dalla signora Comotti e preceduta da una diligente biografia del Rossari, è davvero un’opera buona, non solo in quanto — «in quest’ora nostra di fenomenale attività, di stupefacente progresso, ma pur di sfrenate ambizioni e cupidigie» — è atto di nobiltà rendere doveroso omaggio all’«uomo integerrimo e modesto che tutto diede alla Patria senza nulla chieder mai», e visse meritandosi la stima, l’affetto, la venerazione dei migliori dei suoi tempi: Giusti, Capponi, Azelio, Cherubini, Torti, Hayez, Porta, Verga, Visconti Venosta, Carcano, Grossi e, sopratutti, Manzoni, e morì dignitosamente povero; ma ancora per aver contribuito, lumeggiando un astro minore, a completare la conoscenza di quel ciclo fortunoso e fortunato dell’orizzonte politico che precede ed accompagna la fase ultima del nostro Risorgimento.

Quivi, dunque, il patriotta che voglia scoprire l’intimo atteggiamento dell’animo in quel periodo convulso d’ansie, di audacie, di speranze, di scoramenti; quivi lo studioso del patrio idioma; il cittadino che voglia ritemprarsi alle virtù dei nostri maggiori — tutti, tutti hanno la lor ragione di leggere e di consultare questo elegante volume. Ma, sopratutto, l’educatore deve leggere e ponderare queste pagine, l’educator moderno che voglia attingere agli elevati e nobili sentimenti dei nostri vecchi Maestri. — «Troppo spesso corriamo dietro a dottrine e metodi stranieri anche nell’educazione, trascurando, o non avendo fiducia bastante in ciò che l’ingegno e il buon senso italiano ci saprebbero suggerire così bene!». — Quanto ammaestramento da questi nostri grandi ignorati predecessori, che, patriotti nel fondo dell’animo, inspiravano, istruivano ed educavano guardando ai giovani che stavano ad udirli e vedendo in essi, con la profetica anima, i poeti, gli scrittori, i ribelli, i soldati futuri delle rivendicazioni nazionali! La lode doverosa alla valente e benemerita collega; l’augurio di diffusione al buon libro edito, con squisito pensiero, a benefizio del Pio Istituto «I Figli della Provvidenza».

LA CADUTA DI UN ANGELO


Nel salottino riservato che il Baronetto di Blackbird non apre se non agli intimi ospiti del suo castello, che nereggia pauroso là nelle verdi pianure di Leicester, figura un quadro molto singolare.

Un’immensa distesa di terreno ondulato, brullo, deserto, fa da sfondo ad una scena muta in cui agisce un solo essere vivente, una giovane donna. Questa accoccolata in indicibile disordine e confusione, rende tutto l’atteggiamento scomposto, atterrito, dolorante per segreto spasimo, di persona bruscamente precipitata dall’alto; l’occhio errabondo sembra interroghi le poche erbe riarse, le pietre biancheggianti, l’aria torbida di vapori, il cielo ridente d’una lucentezza abbagliante su in alto per strano contrasto di crudele irrisione, perchè le dicano dove si trova, come sia lì, che misteriosa trasformazione avvenne in lei, mutata in un essere così materiale e pesante e volgare, quale sente di trovarsi ora. Il volto, dalle linee sempre artistiche, aristocratiche, ha tuttavia una espressione terrena, in contrasto con esse, ed è tutto atteggiato ad un sorriso disperato che fa senso. Un particolare che dà la chiave dell’accaduto anche ai meno penetranti: un’ala spezzata e tutta pesta, si raccoglie, intrisa e gocciolante di sangue, lungo la persona; l’altra ala è affatto schiantata dalla scapola destra, lasciando visibile una enorme cicatrice livida e palpitante per spasmodico dolore. Evidentemente ci troviamo innanzi ad un Angelo caduto....

Il Baronetto di Blackbird lo sa, che la tela gelosamente custodita nel suo salottino e sottratta all’occhio di qualunque indiscreto, esprime questo concetto; lo sanno gli intimi che l’hanno veduta; lo sa l’artista che ebbe incarico di dipingere quel quadro. Ma il Baronetto se anche di più: che quel concetto originale, fissato così al vivo nella materia, non è una semplice idealità carezzata nella febbre di una visione, d’un sogno, da un’anima d’artista; bensì l’eco d’un dramma realmente accaduto. E ancora, quel dramma non finiva lì, come tuttavia si ostinava a credere il proprietario del quadro; un’ultima fase si andava svolgendo tutt’ora, ma chiusa nel più impenetrabile mistero; la tela era una rappresentazione incompleta di tutta una sciagura degna di lacrime di sangue.

Il fatto risale a pochi anni fa, e precisamente ai mesi estivi del 1903. In quell’anno il castello di Blackbird, dopo una serie di feste, di partite di caccia, di divertimenti, di soggiorni indimenticabili di ospiti illustri, che vedevansi tutti gli anni al ricorrere della Stagione1, d’improvviso era piombato nel lutto e nel silenzio per la morte del baronetto sir George. L’erede non era in patria al tempo della morte di suo padre, perchè proseguiva un suo viaggio in India. La vedova, nel più assoluto isolamento, non rifiniva di piangere l’immensa sciagura che le era toccata ancor così giovane, e vivea ritirata, quasi in un ambiente monacale, noncurante della salute votata a lento struggimento, tanto che ogni giorno più deperiva a vista d’occhi, e gli spiriti si affievolivano in una tristezza infinita, e tutto faceva presagire le più serie conseguenze se non si provvedeva ad arrestare quegli eccessi inconsulti d’una dimostrazione di dolore sconfinante dei limiti del ragionevole.

Parenti e amici suggerirono più d’un mezzo; e, tra altro, la compagnia di persona che fosse più accetta alla dolente, perchè vedesse di distrarla, di alleggerirle l’ambascia, mitigare il dolore che non accettava conforti. Tra molte persone che sarebbero state indicatissime per così delicata missione, la baronessa finalmente acconsentì di nominare la sua preferita: miss Daisy Keatinge, lontana parente, che un’educazione rigidissima, e un po’ anche l’inferiorità di condizione sociale, avevano tenuto in disparte nei giorni della prosperità.

La prescelta contava allora ventun anni, e vivea coi [p. 255 modifica] genitori in una grossa proprietà lontana dal castello di Blackbird parecchie miglia, conducendo una vita molto singolare, affatto in contrasto coll’età e anche colle doti esteriori, sopratutto con una avvenenza e una freschezza di gioventù straordinarie.

Quando i signori Keatinge ricevettero l’inaspettata domanda da parte della parente baronessa di poter avere con sè la loro figlia, più come figlia stessa, che come compagna, non seppero contenersi dal sussultare di segreta compiacenza. Non erano loro che avessero provocato quell’avvicinamento — e la dignitosa fierezza del carattere era in salvo — ma la parente più altolocata; dopo tutto valeva la pena di essere gentili con essa, anche perchè nel tenebroso non lontano avvenire pareva delinearsi una vaga probabilità che forse un bel giorno la loro figlia avrebbe potuto cingere la corona baronale.

Ma di questa ambiziosa speranza non fiatarono con alcuno, nemmeno colla figlia Daisy quando, all’annuncio che la baronessa di Blackbird la chiedeva, e loro avrebbero veduto con immenso piacere che le usasse una suprema gentilezza in tanto bisogno, si mostrò molto contraria e ripugnante.

Intanto l’avversione dimostrata dalla fanciulla sconcertava non poco i bei piani concepiti. Non si sapeva spiegare per quale capriccio o velleità non accogliesse anzi con entusiasmo la proposta che cento altre sarebbero state orgogliose di ricevere. Ma Daisy, colla sua condotta non si ribellava apertamente; solo teneva duro più che poteva a negare il suo consenso nella speranza che le pratiche cadessero da sè. Però anche lei alla sua volta non capiva come proprio a lei chiedessero quel servigio, malgrado che tutto il suo tenore di vita, le sue idee religiose avrebbero dovuto indicarla la meno adatta alla pietosa missione che era chiamata ad esercitare fuori delle sue consuetudini e della sua casa.

Certo, la casa della baronessa di Blackbird non era affatto nelle sue simpatie; benchè aristocratica corretta, secondo le leggi di decenza e civiltà in onore presso le persone di alta educazione sociale, tuttavia essa era luogo di dissipazione, di chiasso fastoso, e di raffinata mondanità, e di pericolo, per quanto la morte vi fosse entrata a dare i suoi moniti a molte teste mondane.

Già l’abbiam detto che Daisy conduceva nella casa paterna una vita molto singolare; essa, come altre donne inglesi propense da natura alla pietà ed al misticismo, aveva accolto con trasporto la risurrezione ardita della vita monastica altresì nella Chiesa anglicana; non solo, ma anche l’abbracciò e l’osservò per quanto lo poteva fra le mura domestiche, decisa ad entrare in un monastero femminile quando fosse stata libera di sè.

Ed era curioso vedere questa giovane, sprezzante del mondo e sorda a tutte le seduzioni incantevoli che sono irresistibili tentazioni per altri, dedicarsi con ardore passionato alla strana disciplina monastica come è praticata nei paesi cattolici, e come lo era anche in Inghilterra prima della Riforma.

Molto significativa questa nostalgia angosciosa del romanismo! Dopo tre secoli di torpore e di morte apparente, il cuore riprendeva i suoi diritti e ricordava l’antica Madre e la sua Casa, e le forme belle di vita in grembo a lei; e rispondendo ai naturali inviti del sangue, a tanta distanza, in uno slancio impetuoso faceva ritorno a quel monachismo perseguitato e ucciso dalla prepotenza del più forte, e stato già il focolare della vita religiosa e delle glorie artistiche della mia Inghilterra!...

(Continua).



GIULIO TAVECCHIA


A 75 anni, nella sua graziosa villa Amalia, all’ombra del Santuario di Rho, vedovo da sole cinque settimane della diletta compagna della sua vita operosa e intemerata, ha reso la sua anima a Dio, rimpianto da tutti nel paese nativo e anche a Milano, dov’era pure assai conosciuto e apprezzato come uomo probo, attivo e benefico.

Giulio Tavecchia era giunto dall’Alfa all’Omega per le sue azioni, per il suo giusto intuito, per il suo buon senso. Così egli seppe approfittare dell’età buona per far tesoro delle sue energie, e riuscì presto ad occupare uno dei primi posti nei commerci e nelle industrie.

Mirando sempre a nobili obbiettivi, affettuoso colla famiglia che rispecchiava la sua tenerezza e la sua rettitudine, nelle vittorie cittadine non dimenticò mai il paese nativo, e Rho lo ebbe fondatore della Società del Gaz e patrono degli asili d’infanzia.

Benefattore illuminato, credente praticante, fu esempio preclaro, benchè modesto e schivo d’ogni onorificenza, delle più belle virtù civili, religiose e famigliari.

Era pio e fu ripetutamente provato dal dolore. Si compiaceva in due figli che avrebbero continuato le sue tradizioni; ma Dio li volle a Sè, e l’uomo giusto si rassegnò ai voleri supremi, profondendo il suo affetto alle figlie e ai nipoti.

Previdente in tutto, Egli tesoreggiò anche per l’al di là e si dispose all’estremo passo colla tranquillità del giusto che non ha nulla da temere.

I funerali si celebrarono giovedì coll’austerità da lui voluta e predisposta in tutti i particolari, e colla caratteristica delle note religiose e di beneficenza.

La popolazione di Rho convenne in gran numero alla mesta cerimonia colle rappresentanze delle società e degli asili.

Da Milano, con treno speciale, convennero pure molti cittadini e rappresentanze d’istituzioni benefiche.

Per volere di Lui, non si pronunciarono discorsi; ma il suo panegirico fu detto e ripetuto con lacrime e preghiere dai molti che seguirono il feretro elogiando il caro trapassato.

A. M. C.





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Note

  1. Ossia la parte culminante del tempo di speciali sollazzi pubblici casalinghi e individuali; cioè, da dopo Pasqua a dopo Pentecoste; il qual periodo di divertimenti, sarebbe il Carnevale inglese.