I suicidi di Parigi/Episodio terzo/XVI

Episodio terzo - XVI. Le dighe si rompono

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XVI.

Le dighe si rompono.

Nelle situazioni estreme, o si diviene idioti o si acquista una lucidità ed una prontezza straordinarie delle facoltà.

Il duca di Balbek, avendo il senso morale obliterato, non divenne ebete. Perocchè d’ordinario questo stato di spirito è il risultato dell’eretismo della coscienza — quando non v’è lesione organica materiale che lo determina.

Il duca riconobbe dunque immediatamente la mano che aveva potuto sottrarre il suo portafogli violetto dal suo stipetto. Ei ve lo aveva visto due giorni innanzi. Le carte erano dunque state prese in sua casa, negli ultimi due dì.

I domestici non erano in causa. Essi avrebbero, tutto al più, aperto il mobile, ma non avrebbero potuto far agire la molla del nascondiglio. [p. 337 modifica]

L’artista che aveva inventato quella piccola macchina era a seicento leghe da Parigi — perchè quel mobile gli era stato inviato dalla regina Bianca. Il duca non aveva comunicato questo segreto che a sua moglie — e se n’era immediatamente pentito. La violazione del segreto proveniva dunque da lei. La cameriera forse glielo aveva carpito; forse i complici di Vitaliana glielo avevano strappato.

Il duca non sospettò un solo istante sua moglie. Ma per i dettagli così esatti ch’ella gli aveva ricordato delle azioni di lui, egli non poteva più dubitare che sua moglie fosse l’organo di un concerto segreto, che la metteva in movimento.

S’informò delle persone venute al palazzo i due ultimi giorni.

Il suo cameriere gli narrò che il conte di Alleux era venuto a parlare alla signora, alle otto del mattino; che l’avevano fatto aspettare — e che aveva infatti aspettato in camera del duca, fumando e leggendo.

— L’è ben questa! — gridò il duca.

Vitaliana rientrò dopo il suo colpo di testa.

Passò per parossismi opposti, di onta, di amore, di gelosia, di pentimento, di risoluzione: un uragano solcato di pianto, di slanci, di progetti, di dispetti! Poi aveva scritto a suo cugino tutto ciò che era occorso fra suo marito e lei, l’interrogatorio a cui il duca aveva sommesso i domestici, ed il motto che gli era sfuggito.

Vitaliana attribuiva questa attitudine ultima del duca alla gelosia. Ella aveva di già interamente obliato le carte ed il resto!

La sua vita nuova datava dalla confessione del suo amore, che aveva fatta a suo cugino — ed in quello si riassumeva.

Adriano fu più chiaroveggente.

— Tanto meglio! — sclamò desso. Sarà più presto finita. Se potessi soltanto sparmiarmi di ucciderlo!

Si apparecchiava a dare qualche ordine, attendendo da un momento all’altro la visita del duca o un messaggio dalla parte di lui, quando il conte Sergio di Linsac entrò.

Il signor di Linsac era un pochino zio di Adriano.

— Tu arrivi a proposito, zio — esclamò Adriano. Io ti confisco. [p. 338 modifica]

— Io mi pensava che la Charte vérité avesse abolito quella villana cosa che addimandasi la confisca.

— Sì — con la medesima verità ch’essa è statuto! Ebbene, che ti à risposto il signor di Lavandall?

— Ti aspetta alle cinque, stassera, se non ài che semplicemente a parlargli; alle due, se ài qualchecosa a rimettergli, dalla parte di qualcuno. Cosa dunque macchini tu con quell’alta spia? Ti vorresti tu incanagliare nella polizia russa?

— Sta tranquillo, e non domandarmi nulla adesso. Più tardi, ti dirò forse tutto. Infrattanto, tu non mi lascerai punto per oggi; mi seconderai e mi darai la replica, se qualcosa arriva che mi obblighi a rappresentare la commedia.

— Ma io ò bisogno di andare al mio giornale, petit.

— Ta! ta! ta! Vado lì lì a scarabocchiarti il tuo premier-Paris, mentre tu fumi i miei avana, e lo manderò all’ufficio. Sei tu contento, brontolone?

— Che vescovo à perduto con te la Chiesa, monello! Saresti stato papa.

L’asciolvere terminava, quando il domestico annunziò il duca di Balbek.

— Ah! come arrivate a proposito, cugino — sclamò Adriano, andandogli incontro senza però dargli la mano. Andrete ad esser giudice di una scommessa che ò fatto con questo mio signor zio — il più difficile degli zii che lasciano nulla, morendo, ai nipoti!

— T’inganni, figliuolo — l’interruppe Linsac: ti lascerò i miei debiti e le mie pipe.

— Signor Adriano, avrei a parlarvi — rispose il duca di un tono grave.

— L’è un affare di quindici minuti, non più. Usciamo nel giardino, ove tutto è pronto. O’ scommesso cinquecento franchi con mio zio, che sparerò ventiquattro colpi di pistola ed abbatterò, per lo meno, ventidue statuette. Ora, come il signor Sergio è cavilloso, siate voi giudice dei colpi.

La proposizione del conte di Alleux occasionò probabilmente una certa emozione nel duca di Balbek, poichè il suo labbro inferiore fremè e la sua fisionomia espresse un doloroso stupore. Ciò malgrado, accettò la funzione di giudice cui gli si proponeva, e fu il primo a dirigersi verso il giardino. [p. 339 modifica]

Il signor di Linsac guardava Adriano di una ciera significativa.

Adriano aveva nel suo giardino un tiro con un bersaglio e dei pupattoli sempre allestiti. Prese dunque la sua scatola a pistole e cominciò la sperienza.

I ventiquattro colpi furono tirati.

Adriano aveva promesso ventidue mouches: ne fece ventiquattro.

L’emozione del duca raddoppiò.

— Ti propongo una rivincita — disse infine Adriano a suo zio. Andremo di questo passo in una sala d’armi. Farò dieci assalti col maestro. Se egli è Grisier, scommetto i cinquecento franchi che mi devi, che lo toccherò cinque volte. Se è con tutt’altro maestro di sala, lo bottonerò sette volte.

— Accetto — disse Sergio. Duca, volete voi tenere la scommessa con me?

— Se sono giudice — rispose costui lentamente — non posso esser parte.

— L’è giusto — sclamò Linsac.

— Ebbene — riprese Adriano — andremo a chiacchierare un istante, il duca ed io, perchè egli à a parlarmi; poi ci recheremo ove vorrai, zio.

— Andiamo al momento — interruppe il duca. Parleremo di poi, con più agio. Il mio coupé è alla porta. D’altronde, non voglio far ritardare il cronometro della politica europea — soggiunse quindi, stendendo la mano al signor Linsac.

Questi s’inchinò.

— Ahimè! mio caro duca — rispose Sergio — io posso aspettare; imperciocchè oggidì non sono più i cronometri che regolano la politica, ma le vecchie pendole.

Mezz’ora dopo erano da Grisier.

Un’ora dopo, la scommessa era stata guadagnata.

Adriano aveva toccato il gran maestro sei volte, e parato a meraviglia.

Adriano lasciò una cedola di 200 franchi sul caminetto del maestro, e, volgendosi a Linsac, gli disse:

— Andrò a prendervi alle cinque, e pranzeremo insieme. Ora, cugino, son tutto vostro. Volete parlare in vettura, andare a casa vostra, o ritornare alla mia?

— Da voi — rispose il duca. [p. 340 modifica]

Quando furono soli, il contegno di Adriano cangiò.

Il suo viso, sì dolce e trasparente, assunse un’aria dura, altera e supremamente disdegnosa.

Il duca pareva completamente abbattuto.

— Io vi aspettava — disse Adriano, sedendo — ed avete potuto vedere che sono preparato.

— Perchè mi aspettavate voi? — domandò il duca. Voi avete dunque dei rimorsi?

— Io mi metto di raro nel caso di averne — replicò Adriano.

— Nel caso! — mormorò il duca. — Con gli altri gentiluomini si sa anzi tratto quali sono codesti casi. Con noi altri, allevati al seminario o dai padri gesuiti, codesti casi sono indefiniti e sfuggevoli.

— Voi credete?

— Ditemi, a tutto azzardo, se voi opinate che introdursi in casa di qualcuno che è assente, aprire i mobili, pigliarvi un portafogli con delle carte, non sia il caso di aver dei rimorsi e di offrire delle spieghe.

— Gli è inutile l’andar per circuiti — gridò Adriano con impazienza. Precisate i fatti.

— Precisare! Ma e’ mi sembra che io mi abbia messo il proposito assai chiaramente. Gli è vero, sì o no, che voi siete venuto ieri mattina, alle otto, in casa mia?

— Sì. E poi?

— Gli è vero, sì o no, che vi si è fatto attendere nella mia camera da letto, a richiesta vostra, per fumare liberamente, avete voi detto?

— Sì. Continuate.

— Continuo, certo, perocchè non vi è che voi che siate entrato in quella camera. Ora: siete voi che avete aperto uno stipetto a capo del mio letto, e che ne avete tolto un taccuino di velluto violetto, con delle carte di Stato?

— Sissignore! — gridò Adriano, levandosi. Conchiudete.

— Ah! voi lo confessate dunque? — borbottò il duca, tremando di collera. Siete voi dunque che avete rubate le mie carte!

— Olà! — urlò Adriano. Rubare è una parola che non squarcia mica la bocca a voi — a voi che siete abituato alla cosa! Ma non osate articolarla più in mia presenza, se volete evitarmi il disgusto di schiaffeggiarvi. [p. 341 modifica]

— Che cosa è codesto modo di favellare? — osservò il duca atterrito.

— Il modo con cui gli uomini di onore parlano alla gente della vostra specie e del vostro calibro. Sì, le conosco tutte le vostre gesta: ciò che è occorso la notte del ballo presso il principe di Lavandall; ciò che è occorso la notte dell’orgia in casa Morella; i vostri debiti; le vostre scroccherie; il furto dei gioielli, che avete commesso in pregiudizio di vostra moglie; l’uso cui vi apprestavate a fare dei documenti che vi ò presi. Mia cugina andava a soccombere alla tentazione di restituir quelle carte contro l’autografo glorioso cui avete scritto presso il principe di Lavandall. Carpirvi quel portafogli sarebbe forse stata una cattiva azione per vostra moglie. Gli era un dovere per me d’impedirle di contaminarsi. Gli è un dovere per me d’impedirvi di aggiungere altra infamia all’onta cui avete di già sparsa sul capo di vostra moglie e del vostro figliuolo.

— E chi vi à delegato codesto doppio dovere, signore? — dimandò il duca.

— Il sangue che mi corre nelle vene. Ma ciò non è tutto ancora. Vi ò dato delle spieghe. Ascoltate adesso i miei ordini.

Balbek trasalì.

— I vostri ordini? — borbottò egli sillabando, le labbra tremanti.

— Cui eseguirete come quelli del vostro re. Vi do, per compierli, un mese — a partire da questo momento, le 3 e 25 minuti del 7 marzo, fino alle 3 a 25 minuti del 7 aprile.

— Vi ascolto — biascicò il duca, più bianco che la sua camicia — e sono soprafatto dallo stupore.

— Io non so che uso farò di quelle carte cui vi tolsi. Al contatto di quell’immondizia: diplomatici, spie e pretendenti a cui vo’ a fregarmi, il sentimento del giusto e del vero si perverte. Io non so se giungerò a strappare dagli artigli del Russo la dichiarazione firmata da voi. Ma l’è questa l’ultima delle mie preoccupazioni. Vostra moglie è vedova, da ieri in qua. Vostro figlio sarà, a partir da domani, non più il duca di Balbek, ma il conte di Meuge. Che il vostro nome resti o no contaminato innanzi [p. 342 modifica]al pubblico, ci cale men di nulla. Perchè, per noi, non è il mondo che determina il delitto: gli è il delitto stesso che ci fa orrore. Che la vostra infamia resti nascosta, voi non siete meno, agli occhi nostri, un codardo, un ladro, uno scroccone, un brigante che si mette in agguato armato di scritte delicate, e grida ad una regina: la borsa o il trono! Noi vi disprezziamo. La vostra presenza ci è divenuta intollerabile, ci fa nausea. Capite voi questo?

— No. Ma terminate.

— Ebbene, voi avete un mese di tempo per dimandare ed ottenere dal vostro governo la vostra rimozione da Parigi. Se, a capo di questo tempo, voi non siete scomparso da questa città, solo, senza moglie e senza figliuolo, io vi schiaffeggio la sera e vi uccido l’indomani. Voi venivate a domandarmi probabilmente un duello. Voi avete visto che vi accordo un mese d’esistenza — perchè non voglio imbrattarmi le mani di un simile sangue. Ecco.

Il duca, che era stato assiso durante questa scena, si alzò e disse:

— Una parola ancora, per mio governo, signore. Gli è la virtù sdegnata sola che vi detta quei propositi?

Adriano si fermò di botto. Era stato colpito in mezzo del petto. Esitò un istante a rispondere; poi, senza nulla dire, indicò del dito la porta al duca e si assise.

Il signor di Balbek soggiunse:

— Io non rilevo i vostri insulti, signor di Alleux. Voi parlate con lo stesso senza scrupoli con cui agite. Noi siamo entrambi allievi della Chiesa: ci intendiamo dunque. Io smentisco le indegne supposizioni cui avete costrutte sulle mie intenzioni — di trafficare, cioè, delle carte cui mi avete involate. Io non iscuso le mie colpe — di cui voi avete goduto i frutti nelle braccia della mia ganza. Vedrò, quando l’ora sarà opportuna, se conviene di battermi con voi o di premunirmi. Voi capite? Poichè voi chiamate impedire di contaminarsi ciò che il mondo chiamerebbe rubare, io mi permetterò di addimandare premunirmi ciò che gli ingenui addimanderebbero assassinare.

Il conte sorrise.

Il duca continuò:

— Mia moglie e mio figlio mi riguardano... ed all’uopo vi son perfino dei tribunali... [p. 343 modifica]

— Vostra moglie è vedova — gridò Adriano andando verso il duca. E se voi non vi rassegnate alla vedovanza sociale, cui le avete fatto, io m’incarico di far eseguire da Dio la sentenza del mondo. I forzati perdono i diritti civili.

E ciò dicendo chiudeva l’uscio del suo salone in faccia al duca.




Alle cinque, Adriano entrava nel gabinetto del principe di Lavandall.

— Signor conte — disse il principe di Lavandall — voi siete cugino della duchessa di Balbek. Venite altresì in nome di lei?

— No, signore. Io vengo nel nome mio proprio. La duchessa però mi à narrato le proposizioni cui le avete fatto, gli accomodamenti che avete stabiliti. So tutto, insomma.

— Ne sono lietissimo. Amo meglio trattar con un uomo — continuò il principe. Si esce sempre battuti di un negoziato con una donna. Se il diplomatico trionfa, l’uomo perde; se il cavaliere si allegra del suo successo, il negoziatore ne piglia il bruno. Gli è impossibile intendersi, quando non è lecito chiamar le cose del loro nome; quando è mestieri far delle perifrasi per spiegarsi, ed astenersi dalle proposizioni chiare, brutali: se no, no! Preferisco dunque intendermi con voi. Che venite a dirmi?

— Son compiaciuto trovarvi del mio avviso, principe. La duchessa non poteva intingere il dito, senza insozzarsi, in questa immonda bisogna. Le ò sparmiato questo compito, a sua insaputa. Ecco dunque che vengo a dirvi. Voi avevate proposto un baratto: carte per carte! Io vi porto, al contrario, quest’offerta: silenzio per silenzio!

— Come ciò? — sclamò il principe.

— Dapprima, signore, è una cosa, che antistà a tutte, a dichiararvi: che, cioè, l’onore del signor duca di Balbek non ci riguarda più. Esso è a voi: potete sparmiarlo o distruggerlo a vostro talento. Madama di Balbek ritorna contessa di Meuge. Suo figlio prende il nome dell’avolo. Cosicchè, che voi conserviate, pubblichiate o bruciate la dichiarazione del duca, cui possedete, torna per noi completamente lo stesso. Noi lo abbiamo cancellato dalla nostra famiglia. Egli potrà essere per il mondo puro o riabilitato; per noi, egli sarà mai sempre infame. [p. 344 modifica]

— E la signora di Balbek consente a codesto?

— Ella lo esige per la prima.

Il principe azzeccò il suo sguardo dritto e profondo sul conte e replicò:

— Ne siete voi ben sicuro, signor conte?

— Signore, io non ò l’abitudine di parlare alla ventura. Ciò posto, venghiamo agli altri documenti.

— Ebbene?

— Io li ò. Io li ò presi, per impedire che la duchessa li prendesse. Conosco il valore di quelle scritte, e l’uso che se ne potrebbe cavare...

— Allora?

— Allora, io li conservo — come se mi fossi un sepolcro!

— Ma non è codesto che era stato convenuto con la duchessa.

— Lo so. Ma altresì, io non agisco d’appo i suoi ordini. Ecco il mio avviso, signore. Il vostro governo è avverso alla regina Bianca, favorevole a quell’abbominevole principe di Tebe — di cui l’elemento vitale è il delitto e l’abbrutimento dei popoli per mezzo del clero e dalle fraterie. Questi documenti, nelle vostre mani, potrebbero servire ad un compito più fatale di quello del duca di Balbek. Egli vuole quattrini; voi volete confiscare la libertà di un popolo. Quegli mira alla lista civile della regina; voi al trono di lei. Un uomo di onore non può dar mano ad alcuna di codeste manovre. Io ò quelle indegne carte. Le conservo, le sotterro — se tuttavia non le brucio.

— Ma, signore, le avete lette voi, quelle scritte?

— Sì.

— Allora, voi vi fate complice di una estorsione, di un adulterio, di una sostituzione, di un furto, di una prostituzione... che so ancora? voi tenete il sacco a coloro che rubano.

— Signore, i due re ed i loro ministri sono stati infami; il duca di Balbek — forse il meno colpevole — è stato infame anche egli. La morale si vela la faccia in mezzo a quella gente. Io non mi preoccupo ove sia la giustizia. Io non calcolo che questo: la regina Bianca è un vituperio; il principe di Tebe un flagello. Il vituperio ricade sur una regina; il flagello si abbatte sur una nazione. Dei due di[p. 345 modifica]sastri, scelgo il minore. Qual re al mondo, d’altronde, può affermare: questo figliuolo è mio? Gli altri lo sospettano; Taddeo IX lo sapeva.

— Conchiudete, signore, se vi aggrada — disse il principe freddamente, ma umiliato del suo scacco fino al fondo dell’anima.

— Termino, principe. Ecco dunque l’ultima mia parola: silenzio per silenzio — se volete essere generoso. Se no, fate l’uso che vi piace dell’autografo del duca. Io fo scomparire le carte di Balbek.

— Signore, avreste voi per avventura un terreno meno assoluto sul quale potessimo impegnare un negoziato più logico?

— Signore, io non sono mica diplomatico, e perciò non negozio. Vi dovevo una risposta dalla parte di mia cugina, ed una spiegazione da parte mia. Ve le porto. Esse contrariano forse il diplomatico; ma io porto nella mia coscienza il convincimento che il padre, il marito, il gentiluomo, che sono in voi, non mi sconfesseranno. Me ne appello al vostro cuore ed al vostro onore, principe.

Il signor di Lavandall si alzò, senza rispondere, salutò e ricondusse il conte di Alleux fino alla porta del suo gabinetto.

La sera, Adriano andò a raccontare a sua cugina tutto ciò che si era passato fra lui ed il duca, e fra lui ed il principe.

Vitaliana approvò...

La duchessa si dileguò.

La donna si mostrò allora in tutta la sua potenza.

E la lotta cominciò.

Il fantasma di Morella andava a costare ad Adriano più di cure, che non gli era costato di tempo e di pena la conquista di lei.

— Vitaliana — disse infine Adriano partendo — che debbo io sperare?

— Mio povero amico — rispose la duchessa di un accento triste e scoraggiato — di’ piuttosto: che debbo io temere?

— Io metto tutto nella mia posta — riprese Adriano.

— Me lo immagino bene — replicò Vitaliana. Perocchè io vi metto tutto, e, più che tutto, me stessa ed il figlio mio! [p. 346 modifica]

Adriano partì, il paradiso negli occhi, lo sgomento nel cuore.

Prevedeva egli?