Capitolo XL. Il Conclave dei rubati

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Capitolo XL. Il Conclave dei rubati
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CAPITOLO XL.

IL CONCLAVE DEI RUBATI.

Birri un dì noi vedemmo e genti serve
     In quest'afflitta terra; e fatalmente
     Di servi e birri noi vediam caterve.
     (Autore conosciuto)


È a tutti noto esser la corruzione e la delazione le armi principali di cui si serve il clero, per dominare le moltitudini, per spingerle alla ubbidienza di Cesare e poi farsi bello presso di lui per i servigi immensi che gli rende. La setta gesuitica, che si potrebbe chiamare il sublimato del pretismo, in altri tempi era potente al punto di dominare anche i Monarchi e le Corti. Oggi però, credo, solo le beghine, cariche d’ogni peccato mortale, ed alcuni cretini, sono il ludibrio della setta. Gl’imperatori e i re la fan da devoti per meglio corbellare i gonzi; essi mantengono e sorreggono il prete per ragioni di convenienza, ma sanno come me benissimo: un chercuto essere un impostore.

Il credito del gesuitismo va in ragione inversa [p. 209 modifica] del progresso umano. Generalmente quando uno stato diventa libero o quasi, la prima cura delle persone intelligenti si è quella di proporre la cacciata dei gesuiti, e quando il paese ricade sotto le unghie d’un’aquila, cotesta gramigna ripullula di nuovo maravigliosamente.

«Manteneteli poveri» È questo il precetto della tirannide e del prete, cioè, manteneteli miserabili e quindi sudici. — I paesi cattolici sono generalmente famosi per il sudiciume.

Correva il tempo in cui l’esercito liberatore1 di Cavour, dopo i fatti strepitosi d’Ancona e di Castelfidardo, marciava sul mezzogiorno d’Italia per combatterne la rivoluzione, ed in caso la rivoluzione non avesse voluto accettare la sfida, eseguire ciò che eseguisce generalmente la sedicente giustizia umana, quando possiede grossi battaglioni: dividere l’ostrica, darne una valva od una bastonata ai contendenti, e mangiarsi il buono.

In una sala del Quirinale da noi conosciuta, ove usavan adunarsi i capi del sanfedismo, trovavansi in concistoro il generale dei gesuiti, il suo segretario generale ed il cardinal Volpe, capo della polizia pontificia.

La conversazione trascorreva animata sugli avvenimenti del giorno, e Volpe adiratissimo, dopo di aver narrato di Ancona e di Castelfidardo, disse: [p. 210 modifica]

«Una volta si contava tra le più astute, come astutissima la nostra corte, e massime poi la più furba ancora, consigliera della stessa la Compagnia di Gesù, tenuta per stupenda ed universale nel sapere ogni cosa di questo mondo e sventarla, quando tale cosa poteva nuocere agl’interessi di santa Madre Chiesa. — Oggi noi siamo lasciati molto indietro dalla Corte dei galantuomini (e qui un solenne sogghigno) in ogni specie di furberia e di malizia. Il moderno Macchiavello di Torino ha saputo far capire allo Imperatore che l’esercito sardo moveva nell’interesse generale dell’ordine Europeo, per combattere la demagogia invadente le due Sicilie; quando esso calpestando ogni diritto umano e divino, scagliasi sull’esercito santo (non più composto di legioni d’angeli però) e s’impadronisce, come lo fecero le orde dei Vandali del santissimo Patrimonio».

E qui parlando del santissimo Patrimonio, l’Eminentissimo appoggiò ambedue le mani sul vertice d’un potentissimo ventre, ove gli scarafaggi, grandi e piccoli, hanno edificato il loro santissimo e bruttissimo tutto.

«Ah! i bei tempi delle passate nostre glorie!» esclamò il generale «quegli aurei tempi Borgiani ove sì temuta era la possanza delle sante chiavi! ove quando non valeva il pugnale a curare certe prepotenze, là era pronto il veleno» e guardossi attorno «infallibile mezzo per ricordare ai protervi il rispetto a noi dovuto». [p. 211 modifica]

«Più efficaci ancora erano i roghi» gridò con accento rabbioso il Segretario: e la voce avvelenata del minor scarafaggio fu interrotta dal suono di un campanello, dal comparire d’un servo in livrea, e finalmente da monsignor Corvo, introdotto con segni di rispetto nell’aula.

Seduto che fu in una poltrona damascata il nuovo venuto che — se bene inferiore in grado ai due principi della Chiesa (che modestia!) non mostrava perciò verun imbarazzo od umiltà, tanta era l’importanza acquistata dal seduttore della bella Contessa — seduto che fu, dico, e dopo di aver squadrato da capo a piedi i presenti da lui ben conosciuti, esclamò come Archimede al famoso ritrovato del quadrato dell’ipotenusa, uguale alla somma di quelli dei cateti: «L’ho trovato! — Sì l’ho trovato l’enimma che da tanti giorni cercavo sulle distrazioni e procedimenti della Contessa . . . Essa è innamorata d’un perduto! . . . d’uno di quegli esseri perversi, che per principii, per dovere (come essi lo intendono per i loro atroci giuramenti, per ogni propensione insomma) sono i nemici nostri mortali!»

— «Innamorata d’un Repubblicano!»

Repubblicano! . . . ed il protervo campione della malizia umana, forse il più astuto, non ardì aggiungere un epiteto degradante a quel nobile titolo, che equivale a quello di onesto, forse anche nella coscienza dei reprobi.

«Ma che monta!» esclamò il Cardinale Volpe, «se una donna è innamorata più d’uno che [p. 212 modifica] dell’altro, è cosa tanto naturale! una donna cambia di amanti come di vestiti» (Morale veramente dei preti).

E qui scorgendo il dispetto sulla fisonomia di Corvo, il capo della polizia chercuta caricò sulle ultime parole, pronunciandole pacatamente ed in modo solenne. — Volpe era ingelosito della grande influenza esercitata nella Corte pontificia dalla setta gesuitica, e massime di quella del Monsignore che riconosceva d’assai superiore a lui stesso in intelligenza e furberie, per cui colla quantità di vittime sedotte, più della stessa polizia era informatissimo d’ogni cosa importante in Roma e nel mondo.

«Che monta! (esclamò il seguace di Loiola) — voi non sapete che quella donna conosce i più reconditi secreti di questa Corte e della potente società nostra, che n’è la più solida colonna».

Un cenno di approvazione del generale gesuitico e del suo segretario, all’onorevole menzione fatta da un membro sì rispettabile dell’Ordine, fece rintuzzare alquanto l’alterigia del Cardinale, mentre ringalluzzì l’ardimento del Monsignore, il quale più francamente di prima riprese:

«Noi siamo in circostanza di dover temere più dai nostri nemici di dentro che da quei di fuori. Quella volpe di Monarchia sabauda, mentre si protesta umilissima figlia della santa Sede, distrugge il nostro esercito, si fa padrona delle nostre province e delle nostre sostanze; e siatene certi, essa non si fermerà nelle sue depredazioni [p. 213 modifica] se non che dopo d’essersi seduta padrona sul trono del Vaticano, come fece a Parma, Modena, Firenze, Milano e Napoli. Comunque, l’impudente suo ardimento mai giungerà a distruggere la Chiesa, che ad essa conviene, né il potere spirituale del santo Padre. — Non così i nostri nemici interni, essi non si contenteranno di distruggere una cosa e l’altra, ma getteranno le loro mani sacrileghe sui sacerdoti di Dio, e sul santissimo di lui rappresentante sulla terra, rovesciando nella polve e nel sangue dei fedeli ogni cosa sacra esistente in Roma! — Roma Capitale d’Italia! — Essi si senton piccini quei miserabili Macchiavelli della Dora a tanta grandezza. — Il peggio si è, che oggi non son più padroni di loro stessi, e sono obbligati di ubbidire a chi più di loro vale, benché sempre stupida, sempre ingannata, la nazione, ch’essi taglieggiano, come fanno di noi, e come noi, sono in obbligo di adulare rubando».

Un momento di silenzio seguì la mordente favella del Corvo, e tutti sembraron meditare sulla veracità delle sue asserzioni, e sulla delicata e pericolosa posizione della bottega.

Incoraggito dal silenzio dei compagni, così proseguì il gesuita:

«Osteggiati barbaramente al di fuori da chi si manifesta pubblicamente servo della santa Sede, noi stiamo su d’un vulcano nell’interno di Roma. — La setta dei perduti, profittando delle sventure del nostro esercito, e dell’entusiasmo suscitato in [p. 214 modifica] tutta Italia dalla vittoriosa spedizione dei Filibustieri del mezzogiorno, tenta in questo momento un colpo decisivo sul santo Padre, ed il suo governo, per farla finita una volta (come dicono quei malviventi) coi chercuti. — E ciò che mi fa supporre tanto più terribile tale infernale congiura, si è: di veder sedotta da uno dei capi la contessa Virginia N.... — tanto influente sulla società nostra, e padrona dei nostri segreti — » .

— «Che si congiuri in Roma, è cosa vecchia» esclamò il Volpe spaventato dalle tremende rivelazioni, e poi stizzito, nel vedere ed udire, che un semplice mortale ne sapesse più dello stesso Capo di polizia — «ma che la contessa N.... creatura nostra, sì zelante sempre, siasi lasciata sedurre dal serpente, è ben straordinario, e duro fatica a crederlo».

«Io proverò coi fatti a V. S. che quanto dissi è vero, e chiedo anzi tutto l’appoggio possibile per far sventare la tremenda congiura che si prepara a distruggere fino alle fondamenta il santissimo tempio del Signore».

Come già cominciano a mutar tuono cotesti ministri di Dio; non sono più le porte dell’inferno, né le legioni degli Arcangeli che essi invocano, ma spie, birri, ben pagate polizie, e non bastando tutto ciò invocano anche il soccorso di Maometto. Poveri impostori! sono veramente da compiangere, dopo d’aver trovato un mondo di stupidi, che sì grassamente li manteneva, esser essi minacciati d’esterminio dalle stesse loro pecore! [p. 215 modifica]

Dopo alcune intelligenze prese col Volpe e col suo generale, il gesuita congedossi; Volpe rimase ancora colla volontà di ciarlare, millantare i suoi servigi al potente suo ospite e persuaderlo che il Corvo operava finalmente sotto le sue ispirazioni. Il generale però, ben persuaso della capacità del monsignore, lasciò il poliziotto con tanto di naso, e con un pretesto futile, se la svignò nel suo gabinetto.




Note

  1. Ripeto: non si scordi la nota di Farini a Bonaparte; «Noi marciamo coll’esercito per combattere la rivoluzione personificata in Garibaldi. (Che liberatori!)