Capitolo LV. La Simpatia

../Capitolo LIV ../Capitolo LVI IncludiIntestazione 8 settembre 2022 100% Da definire

Capitolo LIV Capitolo LVI

[p. 315 modifica]

CAPITOLO LV.

LA SIMPATIA.

Non amore,
     Ma certo parente
     Dell’amore sei tu, simpatia.
     (Autore qualunque).


Chi è quel tale dal volto sereno e dalla fìsonomia attraente? Non lo conosco!.... Ma i miei cani non abbaiano scorgendolo, ed i miei bimbi — così ombrosi alla vista d’uno straniero — non solo non lo fuggono, ma lo lasciano avvicinare, ridenti, come se da molto lo conoscessero, e ne accettano graziosamente le carezze; si siede e si gettano tra le sue ginocchia, come se di consuetudine! Io stesso, non so perchè, sono da lui attratto, e fissandolo cesso d’esser burbero, perdo la naturale mia malinconia, e ne risento piacere: quasi, se non temessi d’esserne ripulso, lo abbraccerei!

Che volete: è simpatia! Non so se l’occhio del perverso possa suscitarla coll’arte di fingere! In quel caso io sarei preso nella rete dell’inganno, [p. 316 modifica] poichè su di me è possente l’effetto simpatico del volto di un uomo onesto.

«Dirai a Castelli ch’io l’amo» dicevo bambino ad un mio amico che recavasi presso il summentovato, che avevo veduto una volta sola e che mi aveva suscitato simpatia.

Un’altra volta per il figlio di un cocchiere, che i miei parenti non volevano vedermi frequentare, io quasi divenni pazzo.

Ebbene! tra le nostre tre donne, che a Tivoli per l’abbondanza di cavalli s’eran lasciate persuadere di cavalcare, regnava molta simpatia, massime tra la contessa Virginia e Marzia. La contessa trovava forse la Lina troppo bella? Nel cuor delle belle — con tutto il culto che ho per esse — so regnarvi, qualche volta, dei germi di gelosia, così sottili, così delicati, che nelle anime nostre più rozze sono, credo, impercettibili.

Ma Lina era simpatica alla patrizia Romana! e non so se gelosia e simpatia ponno albergare sotto la stessa scorza. E poi, Marzia, benchè di bellezza diversa, era pure bellissima!

O sarà, che la bella fisonomia della fanciulla Romana, annuvolata spesso, non so da qual senso di dolorosa reminiscenza, confacevasi più al bruno, stupendamente bello e malinconico volto della Contessa.

La bionda figlia delle Alpi aggiungeva ai suoi vezzi, veramente, certa giovialità che cercavasi invano nell’aspetto della compagna.

Comunque, Virginia portava alcuna preferenza [p. 317 modifica] di simpatia verso colei ch’essa aveva mortalmente perseguitato come una nemica. Forse era il pentimento allora, che spingevala a tale preferenza?

Il fatto sta: l’odio che si dovea desumere dagli antecedenti già narrati delle due Romane, avea cessato, e poche parole di giustificazione della Virginia l’avean di ciò persuasa. È cosa stranissima! Marzia l’aveva assicurata che invano erasi provata d’odiarla, e che nella giornata fatale della conversione, essa sarebbe stata più sventurata assai, senza la di lei compagnia. Un raggio di felicità raddolciva il volto malinconico della contessa, a quella confessione ingenua ed angelica della giovane donna, ch’essa avea mortalmente offesa.

Virginia, più attempata delle sue compagne, aveva naturalmente il diritto di correggerle qualche volta, ciocchè faceva con molta grazia e con squisita gentilezza.

«Adagio!» essa esclamava qualche volta alla focosa figlia di Bergamo, che si compiaceva sovente di far caracollare il suo destriero1 «adagio! la mia Lina, qui il terreno è molto duro, ed io sarei infelice, se vi succedesse alcuna disgrazia».

E siccome esse cavalcavano generalmente accanto al comandante della brigata, Nullo aggiungeva le proprie ammonizioni a quelle della [p. 318 modifica] contessa per moderare gl’impeti dell’adorata sua compagna.

Marzia, più docile di Lina, dava pochi motivi a rimostranze. Comunque, come al corsiero generoso, l’aria pura e libera della campagna l’avea ravvivata, l’aveva resa a se stessa, le aveva ridato quel brio che l’animava a Calatafimi, contro i soldati del Borbone.

Ma che serve! — l’anima sua era contristata da affanni da essa sola conosciuti, e che si dipingevano mestamente sul bellissimo volto quando era padroneggiata da codeste tediose reminiscenze.

Essa sorrideva alle dolci parole di Virginia e dei suoi amici, ma quel sorriso sfiorava appena le labbra coralline, per far subito posto a mesto, abituale atteggiamento, massime quando il suo sguardo cadeva sullo sventurato genitore, che macchinalmente, e quasi istupidito dai tormenti sofferti, accompagnava silenzioso la comitiva.

Un giorno, sulla strada da Tivoli a Subiaco, mentre la brigata aveva fatto un alto, Lina, avendo scoperto, vicino al sito un bell’albero di fichi, disse a Marzia: «Io monterò su quest’albero a mangiare dei fichi, e te ne getterò la tua parte». Marzia, che non voleva esser da meno in agilità della compagna, rispose: «ma monterò anch’io, e ne mangeremo assieme sull’albero» — «Che sì! che no!» nacque un po’ di diverbio tra le due amiche. Lina, sollecitamente però, lasciò la compagna ed arrampicossi sul fico. Usando troppa precipitazione, nel salire, mise un piede in fallo, si [p. 319 modifica] ruppe il ramo a cui si teneva colla mano destra, lo stesso successe alla sinistra, e la nostra bellissima fanciulla se ne venne al suolo, distesa in tutta la lunghezza del corpo, senza ferirsi però, ma svergognata d’aver mostrato ai presenti la sua poca capacità ginnastica.

Per combinazione — o con intento — due degli ufficiali del papa, prigionieri — galanti come lo sono generalmente quella classe di gente, che altro non hanno al mondo da fare, che mangiar bene, bever meglio, e passare il resto in seduzioni, anche fosse delle undici mila vergini, la di cui castità sarebbero obbligati di difendere a spada tratta — gli ufficiali del Papa, dico, Merode e Pantantrac, a cui era venuta l’acqua alla bocca, contemplando le bellissime giovani italiane, avean approfittato d’un momento di noncuranza della guardia loro — composta di bravi giovani romani — e s’erano avvicinati alle due donzelle, con aria graziosa e seducente.

I due stranieri giungevano precisamente al momento in cui Lina aveva comprato tanto terreno quanto era lunga, e circostanza miracolosamente favorevole fu questa per loro, di cui vollero naturalmente approfittare, slanciandosi al rilievo di quel caro corpicino.

Il fortunato dei due fu Pantantrac, che giunse primo ad afferrare, con ambe le mani, il cinto snello della vezzosa. Egli certamente adempiva a quell’atto di galante cortesia, con grazia — dote incontestabile della Nazione francese — ed [p. 320 modifica] un gentile ringraziamento della bella guerriera avrebbe, senza dubbio, messo fine all’incidente. Così però non l’intendeva Talarico, nella fiera rozza, indomita sua natura.

Assorbito non so da qual distrazione od affare, egli non trovavasi, come d’abitudine, vicino a Lina, al momento della caduta, e vi giunse dopo che la sua dea era in piedi, ma non ancor libera dalla stretta dell’ufficiale papalino.

«Ahi! — fu il grido doloroso di Pantantrac, quando il brigante gli piantò le unghie nella nuca — «Ahi!»... e non più micidiale sarebbe stata la graffa del tigre. Talarico staccò con tale malagrazia l’ufficiale prigioniero che lo mandò gambe all’aria a molti passi di distanza.

Alcuni minuti vi vollero all’ufficiale straniero per riaversi dalla sorpresa e dalla caduta. Ritornato in sè, alla fine, egli cominciò a scatenarsi, con un repertorio d’improperii da far arrossire anche i soldati del Papa.

«Sacré nom di qua — e sacré nom di là, e brigands d’Italiens!» — senza curarsi della Nazione a cui apparteneva l’uditorio, e che avrebbe potuto risentirsi, se la presenza di Nullo non lo avesse impedito.

«Eh se non m’aveste preso per di dietro!» — e qui un’altra infilzata di sacré nom, e di allusioni anche alla circostanza del convento, in cui era stato disarmato da Muzio.

Straniero e prigioniero, a Nullo rincresceva si maltrattasse quell’individuo. E chi ha conosciuto [p. 321 modifica] la bell’anima del guerriero di Bergamo, ricorderà quanto modesto era ed umano.

Ma Pantantrac non la voleva finire, sia per certa naturale boria, sia per voler fare da gradasso in presenza delle dame, ed avrebbe fatto perder la pazienza a Giobbe.

Invano i suoi compagni di prigionia (giacchè si avvicinarono anche tre ufficiali fatti prigionieri a Tivoli) lo pregavano di far silenzio; invano l’impazienza cominciava a dipingersi su tutti i volti, senza eccettuare quello del Capo. Finalmente Talarico, che quantunque non molto versato nelle lingue straniere, ne sapeva abbastanza per capire che la maggior parte delle ingiurie eran dirette a lui, che aveva la principal colpa di tale scena, avanzossi verso Nullo rispettosamente, e disse:

«Quel signore si lamenta d’esser stato da me assalito a tradimento e per di dietro; e confesso il mio torto, egli ha ragione. Volete permettermi di combatterlo petto a petto, col mio pugnale soltanto, e lui armato di sciabola o spada, come meglio gli aggrada?»

La proposta piacque poco a Nullo, su di cui la fedeltà ed il coraggio del bandito già avevano suscitato molta simpatia, e naturalmente contava su di lui, per la sua pratica, nell’arduo viaggio che si doveva proseguire per i monti.

Ma Pantantrac continuando ad insultare e sfidare tutto il mondo, e Talarico persistendo a volerlo combattere singolarmente, Nullo finì per [p. 322 modifica] accondiscendere al loro desiderio, e di lasciarli battere.

Qui, in onor dell’ufficiale legittimista, devo confessare ch’egli non voleva accettare la prevalenza della spada o sciabola sul pugnale, ma, sia che il Calabrese poco sapesse di scherma nelle armi suddette, o che avesse veramente un’illimitata fiducia nel suo ferro, egli non volle accettare altr’arma — almeno se così concedeva il suo avversario.

Un pezzo di terreno piano fu scelto per arena; Muzio rimise la sciabola a Pantantrac, a cui l’aveva tolta nel perittero del convento; questi la salutò e la baciò come una vecchia amica — molto più preziosa, se, come le spade degli antichi cavalieri, essa avesse servito alla redenzione degli oppressi.

Muzio e P... da una parte, come testimoni di Talarico; Merode ed il Maggior Ventre dei zuavi pontifichaux dall’altra, testimoni di Pantantrac, misurarono il terreno, e gli avversari vi presero posizione alla distanza di cinque metri.

Il marchese quasi certo della vittoria, aspettò un momento il competitore coll’arma in guardia per infilzarlo, ma vedendo che quello non avanzava, si mosse lui stesso, cercandolo colla punta del ferro.

Talarico non s’era mosso; il suo aspetto sembrava impassibile, ma chi lo fissava negli occhi li vedeva roteare nell’orbita, e farsi sanguigni come quelli della pantera quando si dispone ad assalire un nemico. [p. 323 modifica]

Appena però il suo avversario cominciò a marciare contro di lui, il feroce bandito, facendosi scudo del braccio sinistro, gli fu addosso, lasciò sfiorarsi l’antibraccio dal fendente della sciabola, mise la mano sinistra sull’elsa del marchese, e lo colpì, come con clava, sulla cervice.

«Ahi!» — fu Tunica esclamazione del colpito, e tutti gli astanti videro piegar sulle ginocchia l’ufficiale del Papa, e stramazzare.

Chicchessia avrebbe creduto la lama del pugnale di Talarico penetrata sino all’elsa nel corpo di Pantantrac, ma non fu così. Il brigante, svelto e destro com’era e coraggioso, nel colpire il suo nemico, rovesciò il ferro, dimodochè il solo suo pugno piombò sul cranio del marchese, e bastò per rovesciarlo svenuto.

«Meglio così» disse Nullo, quando lo accertarono che non v’era ferita mortale. E Muzio, che era disposto a chieder soddisfazione a Pantatrac, che lo aveva pure accusato di tradimento, in conseguenza del depresso di lui stato, ne fece a meno, ed ordinò di prepararsi per la marcia.

Prima dell’alba i trecento giungevano a Subiaco, ove sorprendevano le autorità pontificie ed alcuni gendarmi, non essendovi guarnigione di truppa. Ebbero quindi quanto poteva dare il paese, senza necessità di violenze.

In guerra, nelle marcie di notte, con un obbiettivo qualunque, vi è sempre qualche vantaggio: principalissimo, la sorpresa. Nelle ritirate la possibilità di scegliere le linee più convenienti, [p. 324 modifica] e suddividere la forza in tante colonne divergenti, come piace. D’estate, gli uomini ed i cavalli faticano molto meno di notte e marciano meglio. Una marcia ben ordinata di notte, e tanto segreta quanto possibile, confonde anche le spie, e quindi incerte le informazioni del nemico.





Note

  1. Le fanciulle avevan accettato un cavallo per far compagnia alla Contessa.