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III.

All’Acqua Ascosa.

Corsenna, 15 luglio 18...

Ci sono molti villeggianti a Corsenna. Li chiama la bontà dell’aria, a quattrocentosessanta metri soltanto sul livello del mare; li chiama il fresco di queste convalli, e finalmente lo spirito d’imitazione, che l’uomo ha comune con tanti altri animali. Uno ha provato, e s’è ritrovato bene; lo ha detto, e lo hanno seguito due altri; quei due a lor volta.... Ma no, non voglio rifarti l’enumerazione degli atti; mi basta di dirti che quest’anno tutti i villini dei dintorni sono occupati, ed anche molti quartierini in paese; dove per altro bi[p. 21 modifica]sogna adattarsi. Ma si è in campagna, e non si guarda nel sottile; tanto più che la gente, venuta per goder l’aria, sta in casa il meno che può. La vita villereccia è gaia: fanno scarrozzate ai paesi vicini; non disdegnano la vecchia invenzione degli omnibus, rinfrescata col nuovo nome di tranvai, che permette di andare qua e là per pochi soldi, in dodici o quattordici persone. Fanno concerti, la sera, con gran giubilo e maraviglia di questi naturali; ballano anche, mi si dice, dove col pianoforte, dove coll’organino di Barberia, e dove coll’herofon, un nuovo strumento macinatore di musica; necessario, in verità, perchè di simili arnesi non ce n’era abbastanza.

Te ne parlo per sentita dire, non andando io in nessun luogo. Vedo le brigate, passando; cappellini e cappelloni, gonne e casacche, guarnelli e vestaglie, roste, sciarpe, ombrellini, tutto un rigoglio di colori sgargianti, tutto un miscuglio di cose; ma per lo più da lontano. M’imbatto nella gente quando vado alla posta, per ritirare i miei giornali, le poche [p. 22 modifica]lettere che mi vengon da casa o dai pochissimi amici che vogliono ricordarsi di me. Conosco appena tre o quattro famiglie di questi ospiti estivi; saluto, baratto alcune frasi di convenienza, e non mi accompagno mai. L’orso di Corsenna, mi chiamano. È questa la notizia che mi ha dato un diavolo di ragazzino, nella sua terribile ingenuità, che ha fatta arrossire la sua mamma dalla radice del collo fino a quella dei capelli. Ebbene, sia, l’orso di Corsenna, e d’ogni luogo dove mi piaccia di andare. Non si viene egli al verde per goder libertà? Soddisfatto l’obbligo della leva, pagate le tasse, quante sono o vorranno essere in processo di tempo, faccia ognuno quel che gli pare.

Io, poi, vestito ordinariamente di tela, con un cappellaccio di sparto che ha la falda rialzata sulla nuca e tirata giù sul naso, con una mazza di nocciuolo, tagliata da me, e più lunga di quelle che usavano i Babilonesi (qui è utilissima per tener distanti i buoi e per mettere in fuga le serpi), non sono un figurino da far bella mostra in società. La[p. 23 modifica]scio agli altri la strada maestra, l’abitato e i dintorni dell’abitato; passo il ponte di legno e mi ritrovo sul mio. Per altro, non ci corro; m’indugio di qua e di là per i campi, aspettando a passare quando sono ben certo che nessuno mi veda. Se, Dio guardi, avessero a scoprire il mio regno, mi potrei tappare in casa; tanto la riva destra del fiume è invasa e corsa e ricorsa da questo gaio sciame “d’infanti, di femmine e di viri„. Alla riva sinistra, almeno in questo tratto per circa due miglia, non ci s’arrischia nessuno, perchè non mette a nessun luogo; mentre alla chiesuola di Santa Giustina, che è meta di scampagnate, si va più comodamente da un’altra via, per un ponte vero e sicuro, gittato all’estremità del paese. Così, dopo avere imitati nella mazza lunga i Babilonesi, ho imitati nella sottile accortezza i Fenicii, quando ebbero scoperta oltre le colonne d’Ercole la via delle isole Esperidi; faccio quanto posso per tener celata la mia direzione, e a buon conto non metto nessun sull’orma. Così il gran viale dei pioppi è mio; mio il grande tappeto verde, [p. 24 modifica]mia l’acqua ascosa, che dietro la fila delle carpinelle va cercando il mulino, per ritrovarlo un mezzo chilometro più in giù.

Ho preso Orazio in compagnia; Orazio, per far la corte a te, che me lo hai citato; nella edizione civettuola del Murray, per far piacere a me, che amo tanto veder belli i libri buoni. Quel caro Orazio è il più vario di tutti i poeti del mondo: ha tutte le corde della lira; c’è Pindaro, in lui, ed Anacreonte, Saffo, Simonide, Alceo, e chi sa quanti altri smarriti della greca antichità, i quali ci si faranno ritrovare un giorno (voglio sperarlo, almeno) nelle fasce di qualche mummia egiziana del periodo alessandrino. Come li ha tutti condensati, il Venosino, esprimendoli tutti con quel sentimento della misura ch’è la vera dote del genio! come li ha tutti rivissuti in sè stesso, non già intarsiator diligente ed accorto, ma fonditore balioso e geniale, rendendoli come guizzi dell’anima sua, da tanti spiragli di sincerità, con tanti lumi di vero! Senza vantarmi, credo d’essere un po’ come lui; non nell’arte, intendiamoci, ma nel modo [p. 25 modifica]di pensare e d’intender la vita. Egli amò la campagna per le sue intime bellezze naturali, dopo aver goduta la città nei suoi eleganti artifizi. Non odiava gli uomini, conoscendoli, e sapendone ridere; aveva in pregio gli amici, e amava qualche delicatezza nel vivere. Perchè rinunzieremmo alle grazie? Può mai dimenticarle, chi le ha conosciute e praticate una volta?

Amo Orazio, e mi godo qualche sua ode, centellinando, assaporando le strofe, in mezzo a quei fregi, ornati, bozzetti di scene romane e pompeiane, onde il Murray ha accompagnato il testo, come di cose che gli appartengono. Più volentieri mi fermo ai passi dov’è fatta menzione dell’acqua. Quell’amico del vino sentì la poesia delle fonti. La sentirono, del resto, tutti i Romani. L’acqua è diamante liquido; abbraccia bene, penetra e scioglie, purifica e rallegra, canta bene e non istuona mai, salvo a maritarla col vino.

Orazio in una tasca della mia giacca e due panini nell’altra, me ne vado ogni giorno al mio rifugio nel verde. Perchè i panini, dirai, [p. 26 modifica]e per chi? Pei cani che ho sempre amati e più sento di amare, dopo che gli uomini hanno lavorato più alacremente a renderli uggiosi, vedendo da per tutto la rabbia. Se i cani diventano idrofobi, non hanno poi tutti i torti. Li vogliamo amici ad ogni costo, e neghiamo loro ogni onesta libertà; non li lasciamo ben avere in nessun modo, e li facciamo servire alle nostre esperienze fisiologiche. I cani lo sanno, e ne arrabbiano. Un giorno o l’altro vedrai diventare idrofobi i conigli e i porcellini d’India; questi, anzi, sotto il lor nome scientifico di cavie, saranno i primi a mordere i polpacci dei dotti.

Qui, dove son liberi, ma dove pare che ricevano i viveri in contanti, i cani mi vogliono tutti un gran bene, e vengono volentieri con me; cani da caccia e da pagliaio, da guardia e da tartufi, mi fanno le capriole, mi saltano alla cintola, mugolando, scodinzolando, fiutando, girandomi attorno, seguendomi, precedendomi, ringhiando per onor mio a tutti coloro che passano. Questa è stata la storia della prima settimana; ma poi s’è dovuto [p. 27 modifica]smettere via via, non passando più dai casolari dove incontravo quei cari amici, che a certe ore mi usavano la cortesia d’aspettarmi sugli usci. I padroni non vedevano volentieri queste amicizie dei guardiani di casa col signor forestiero; ed io, che ho capita la solfa, ho diradate le visite. L’ultimo dei miei amici di qui è stato Buci, il cane più stravagante di Corsenna. Piccolo e tozzo, di pelo rossigno con una macchia bianca dall’occhio destro al naso, gli occhi rossi, mozzate le orecchie e la coda, non è davvero l’Adone dei cani; ma ride, e ciò lo rende piacevole a vedere; ride, arricciando con atto strano il labbro superiore e mostrandomi tutti i suoi denti, corti, serrati, sani e bianchissimi. S’intende che ride con me e con altri pochi a cui vuol bene; sa ringhiare, per contro, e ringhia volentieri a molti, specie agli altri cani, volendo battaglia con tutti.

— Buci, che cosa sono queste scenate? — gli ho detto io qualche volta. — Non è da cani addentare il proprio simile, ricordatelo bene, è da uomini. Voi siate buono, affabile, [p. 28 modifica]cortese, morigerato e virtuoso; virtuoso sopra tutto, mi capite? La virtù, per vostra norma, ha sempre il suo premio, qui, nella mia tasca di destra. —

Questi discorsi fanno sempre un certo effetto su lui. Penso che quel cane sia capace d’una vera educazione. Il nome della virtù, sopra tutto, gli fa drizzare quei suoi mozziconi d’orecchi. Gli occhietti rossi ammiccano maliziosamente all’idea del premio serbato alla virtù sulla terra; e ride, di quel suo riso muto, ma tanto espressivo, arricciando le froge sulla chiostra dei denti. Povero Bucino! Ho dovuto rinunciare alla sua educazione compiuta. Il suo padrone, un contadino del colle qui presso, dice che glielo svio; perciò da otto giorni non mi faccio più vedere da quella parte. Ma se non ci sono io a sviargli il suo cane, c’è altri. Ah, questi benedetti villeggianti, che frucano da per tutto!

Oggi, per l’appunto, era andato sulle nove del mattino a fare la mia solita passeggiata, con la solita fermatina oraziana al mio rivolo. “O fonte di Bandusia, più lucente del vetro!„ [p. 29 modifica]E letto un paio d’odi, m’ero anche addormentato; non per colpa d’Orazio, ma dell’argine erboso, che faceva gradevole invito. Dormivo nondimeno d’un sonno molto leggero, perchè uno stormir di frasche bastò a risvegliarmi. Chi vedo? Lui, proprio lui; Buci che mi scova, Buci che mi salta addosso, mi vuol baciare, mi fiuta il premio della virtù nella tasca.... No, non calunniamo quel povero Buci. È stato uno dei tanti suoi atti incomposti; e a quello non si è fermato, non ha insistito su quello. Per oggi, sicuramente, egli pensa coll’antico filosofo, che la virtù sia premio a sè stessa.

— Voi qui, Buci? — gli grido, destandomi in soprassalto. — Dormivo così bene! —

Ma egli non era solo, e la mia frase fu rotta appena incominciata. Di mezzo alla frappa delle carpinelle appariva una bianca figura; la signorina Wilson, vestita alla Pamela, o giù di lì, colla sua gonna di mussolina bianca a fiorellini, un gran fisciù incrociato intorno alla vita, di mussolina, di tulle, o di garza, non so più bene, certo della medesima stoffa del cappellino, assai largo di giro, chiuso ser[p. 30 modifica]rato sotto il mento, per modo da farle una candida aureola intorno alla faccia colorita.

Ah, ecco l’inglesina! dirai tu, giungendo a questo punto del mio letterone. No, niente inglesina; il nome straniero è qui per trarti in inganno. Si chiamava Wilson il babbo di lei, ora morto, ma nato in Italia, dove i suoi erano venuti a stabilirsi per ragione di commercio; è italiana la mamma, fiorentina per la pelle. Aggiungi che la signorina non è bionda, anzi ha neri, ma proprio neri d’inchiostro, i capelli; che non è vaporosa di forme, nè altrimenti preraffaellesca, come pare si costumi laggiù. Di carnagione, per altro, doveva esser bianca; ma oramai, dal gran vivere che fa sempre all’aperto, è cotta bruciata dal sole. Mani e braccia sono egualmente abbronzite, non calzando mai guanti. L’ombrellino lo porta solamente, io credo, per darsi alle mosche. È, a dirti tutto in due parole, una mezza viragine. E lei e sua madre ho conosciute due settimane fa, con la Berti e con altre signore, tutte donne di sboccio; per istrada, si capisce, in un momento [p. 31 modifica]che non potevo più cansare l’incontro, ed ho barattate quattro parole di complimento, come s’usa in tutte le presentazioni. Non gridar dunque all’armi; niente inglesina, e la strada polverosa ha portato via tutti gl’ideali. A quest’età, poi, caro Filippo, vorrei vederlo io l’ideale che avesse il coraggio di farsi avanti!

Ed anche oggi si barattarono quattro parole, mentre io, da buon cavaliere forzato, l’accompagnavo fino al principio del paese. Tanto, il mio sonno era rotto, e rotto l’incantesimo della mia pace nel verde. Quel che è peggio, e non potrò mai consolarmene, è violato il mio dolce segreto. Povera acqua ascosa, com’io volevo battezzarla! Ne verranno, delle brigate, ne verranno a far chiasso da queste parti, specie per il gran viale dei pioppi, che la signorina Wilson ha dichiarato un prodigio.

Pazienza! cercherò dell’altro. E se non troverò dell’altro, me ne andrò. Il diavolo si porti le fanciulle girandolone, e i cani riconoscenti!