Demetrio Pianelli/Parte seconda/II

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II.


Il giorno dopo, come se non fosse accaduto nulla di diverso, si alzò, si vestì e colla solita puntualità uscì per andare all’ufficio. La precisione e l’uguaglianza delle sue abitudini era tale, che il signor Pianelli serviva di orologio agli studenti e alle sartine, che affrettavano il passo quando l’incontravano al disotto del Cordusio. La sua strada era sempre la stessa tutti i giorni: piazza del Duomo, piazza dei Mercanti, Cordusio, Bocchetto: da una parte delle botteghe nell’andare, dall’altra nel tornare. Sotto i portici meridionali comprava un sigaro virginia (l’unico vizio), che era già preparato in un astuccio di carta e ch’egli metteva in tasca per fumare mezzo a colazione, mezzo dopo pranzo.

Stretto nei soliti panni color cioccolata, sempre quelli ma puliti, col bastoncino infilato in una tasca del paltò, andava col suo passo pesante di contadino, urtando spesso il muro colla spalla come un carro che esca tratto tratto dalle sue rotaie. [p. 131 modifica]

Veniva dunque quel giorno, tutto raccolto nelle sue grinze, quando, arrivato davanti al mercante Simonetta, sentì qualche cosa di morbido sdrusciargli le gambe. Era ancora quella bestiaccia di Giovedì col pelo sporco e arruffato, cogli occhi malati, che gli teneva dietro da cinque minuti senza che egli se ne accorgesse.

— Marcia via! — disse, alzando un poco il piede per farlo scappare.

Il cane, tiratosi indietro un passo, si fermò col muso in alto a guardare l’uomo, con occhi pieni di malinconia, dimenando il suo soldo di coda lungo un dito.

Quando Demetrio si mosse per continuare la sua strada, la bestia seguitò a pedinargli dietro come se seguisse il suo padrone. Demetrio si fermò un’altra volta sull’angolo degli Speronari e il cane si fermò anche lui e tornò a dimenare il suo soldo di coda, guardando sempre con quegli occhi....

Allora Demetrio finse di entrare nella porta del fiorista, ma vide che il cane gli andava dietro. Pensò se c’era vicina una chiesa con doppio ingresso per fargli perdere la traccia, ma di chiese non ce ne sono in quel tratto.... La bestia poteva anche essere arrabbiata: arrabbiata o no, non voleva avere a che fare con lei e con nessun altro di quella casa....

Guardò in su e in giù se vedeva una [p. 132 modifica]guardia, un sorvegliante, un’autorità per farlo menar via, ma non vide un cane tranne il suo.

E questo, duro, ostinato, gli andava dietro colla costanza di una bestia che non mangia da due giorni.

Provò ad affrettare il passo, a correre: e il cane dietro a correre anche lui.

Lo zio si fermò la terza volta, trasse il suo lungo fazzoletto di cotone turchino, fece un grosso nodo a uno dei capi, lo alzò come un flagello; ma Giovedì, facendo arco della schiena e piagnucolando, venne ad accosciarsi ai suoi piedi.

Che doveva fare? ammazzarlo?

Giunto finalmente sotto il portone del Demanio, picchiò nei vetri del portinaio e avvertì il Ramella con dei segni. Il Ramella guardò attraverso i vetri dell’antiporto, capì di che si trattava e venne fuori. Quando il cane vide in aria l’asperges, fuggì come il diavolo.

Demetrio giunse in ufficio con qualche minuto di ritardo, un’ora prima del suo capo, il cavalier Balzalotti. Arrivato al suo posto, che era un tavolo accanto a una finestra, difeso contro i colpi d’aria da un vecchio e logoro paravento, tolse prima di tutto il sigaro di tasca, lo guardò alla luce se c’era tutto e lo collocò come una preziosa reliquia sopra lo sporto della finestra.

[p. 133 modifica]Aprì il cassetto e controllò i due panini nel cartoccio. Fece una rapida ispezione al suo cappello rotondo, vi picchiò su con un buffetto per ispazzare via un filo di polvere, lo tuffò delicatamente in una custodia di carta fatta apposta e lo collocò nella sua vestina sull’ometto. Poi aprì un altro cassetto e trasse fuori le due manichette di tela lucida ch’egli metteva per scrivere. Se le infilò: diede una nervosa e rapida fregatina alle mani, chiudendo gli occhi, accartocciando tutte le rughe della faccia. Poi cominciò la diligente pulizia degli occhiali.

L’egregio cavalier Balzalotti da qualche tempo, come forse s’è già detto, aveva fatto venire il Pianelli nel suo ufficio e se ne serviva come di copista per una lunga relazione intorno all’esazione sulla tassa di bollo e registro, che doveva essere presentata per Pasqua al Ministero delle Finanze.

Il tavolone del cavaliere, pieno pieno di carte e di allegati, era posto nel mezzo della parete, sotto un bel ritratto del re, tra due campanelli elettrici, poco lontano dalla bocca del calorifero.

Il Pianelli, uomo paziente, discreto, di poche parole, era come se non ci fosse. Copiava, ricopiava, scriveva sotto dettatura, con una calligrafia grossa e precisa, senza fare tante questioni di lingua e di grammatica, come pre[p. 134 modifica]tendono certi chiacchierini saputelli, che, per esser stati bocciati alla quarta ginnasiale, credono di saperne più dei loro superiori.

Demetrio, non molto forte anche lui nelle questioni, dirò così, filologiche, copiava tutte le parole ciecamente, senza discuterle mai, senza mai cercare se avevano un senso o se dovevano averlo. Egli non si sarebbe mai permesso, per esempio, nemmeno una timida osservazione sui molti laonde, che il cavaliere seminava ne’ suoi periodi e nelle sue relazioni al Ministero, e fingeva di non capire lo scherzo, quando qualche burlone degli altri uffici gli domandava notizie del cavalier Laonde.

Tutte queste buone qualità d’uomo discreto e modesto gli avevano guadagnata la stima e sarei per dire quasi l’affezione del suo capo, che una volta gli aveva ottenuta una piccola gratificazione e prometteva di fare qualche cosa di più per l’avvenire.

Demetrio, dal canto suo, si era affezionato alla sua sedia di pelle sotto la finestra, che rappresentava dopo tante burrasche un porto sicuro e tranquillo, ove egli poteva riparare la vecchia carcassa della sua barca.

Sul cuoio lucido di quella sedia erano rimaste le infossature di due o tre generazioni di impiegati, che avevano tratto di là il pane dei loro figliuoli e le spese capricciose delle [p. 135 modifica]mogli; egli che non aveva nè moglie, nè figli, sperava di uscirne coi calzoni meno stracciati.

In Carrobio non si sarebbe lasciato più vedere nemmeno se ve lo avessero tirato con le corde di Valenza.

Il Signore era testimonio ch’egli non si era rifiutato di versare una goccia d’olio sopra una piaga: ma non voleva essere nè odiato, nè maledetto. Stava così bene nel suo guscio....

Data un’altra fregatina alle mani, se le portò alla testa e carezzò due o tre volte coi palmi le due gote come se si asciugasse la faccia e presa la penna, dopo averla provata sull’unghia grossa del pollice, ricominciò a copiare al punto dov’era rimasto il giorno prima: avvegnachè non sembri a codesto Eccelso Ministero poco retribuito il reddito imponibile, nonchè gli altri cespiti tassativamente indicati nella precitata Circolare del 10 ultimo scorso, N. di protoc. 54657, Posiz. 32, N. di partenza 307, e oltracciò avvegnachè non abbia a patire detrimento l’organica esazione come laonde....

— Signor Pianelli — disse il vecchio portiere Caramella, che sonnecchiava le dodici ore al giorno in anticamera — c’è un signore, un vecchio, che vuol parlarle.

— Chi è?

— È un vecchio, un uomo.... [p. 136 modifica]

— Gli avete detto che non ricevo in ufficio? sta per venire il cavaliere....

— Dice che ha bisogno.... Pare un mezzo matto....

— Sarà uno dei soliti — soggiunse Demetrio, che da una settimana vedeva passare la processione dei creditori. — Questo lo mando a Melegnano dal sor Isidoro, — pensò. — Non voglio impiccarmi per.... Fatelo entrare un momento — soggiunse a voce alta.

— Per questo son già bello ed entrato — esclamò il vecchio mezzo matto, venendo innanzi da sè come se fosse il padron di casa.

Era un uomo sui settant’anni, d’aspetto campagnuolo, tarchiato e vigoroso, vestito di un abito grigio sciupato, con due grandi occhialoni sopra un viso color del mattone e con un nodoso bastone in mano di un bel legno giallo, contorto come una radice.

Fece tre passi avanti, cadendo tre volte sulla gamba destra che aveva più corta della sinistra e, senza levarsi il cappello di testa, fissando in faccia a Demetrio i grandi vetri dei suoi occhiali, disse con voce sguaiata:

— È lei quello che chiamano il Demetrio?

— Sissignore — rispose Demetrio non senza un piccolo sorriso ironico.

— Allora mi siedo, perchè sono stanco come un asino. [p. 137 modifica]

— Si accomodi, ma faccia presto.

— Son già seduto, grazie, obbligato. Non guardi se ci ho un vetro rotto nel mezzo. È una memoria che conservo, una grazia ricevuta dalla madonna. È stata una cavalla che aveva mangiata della cattiva stoppia, sprrang.... mi regalò un calcio qui nell’occhio. Si è rotto il vetro, ma la testa, oh, sì!.. testa di bronzo, corpo del diavolo!

— Ho l’onore? faccia presto....

— Ecco, l’onore veramente è una parola troppo di lusso per un uomo che non ha avuto nemmeno il tempo stamattina di farsi lustrare gli stivali. Son venuto a piedi da San Donato a Milano, e c’era un fango alto così....

— Senta, si sbrighi....

— Stia comodo, caro il mio carissimo sor Demetrio, che in un pater, ave e gloria la minestra è cotta. So bene che i regi impiegati non hanno mai troppo tempo da perdere coi signori contribuenti. So da un pezzo quel che significhi un regio impiegato.

Il vecchiotto color mattone accompagnò queste parole con un suo gesto favorito, che consisteva nel porre il dito indice alla coda dell’occhio, sporgendo un poco le labbra e aguzzando lo sguardo a una sopraffina espressione di mariuoleria.

— Non mi levo il cappello perchè sono sudato e poi noi siamo americani. Sono stato a [p. 138 modifica]casa sua a cercarlo, e non ho trovato che un vecchio sordo come una campana. La portinaia mi ha detto: — È già andato all’ufficio. — Allora io ho pensato: — Poichè siamo in piazza Fontana, approfittiamo della circostanza e facciamo colazione: e sono andato al Biscione, dove una volta ho mangiato una eccellente busecca alla milanese. Una volta c’era anche del vin buono - parlo di trent’anni fa, quando il Biscione non era diventato ancora un grand hôtel. Ci andavo tutte le settimane, fin da quando viveva mio padre, jesus per lui, anzi ho passato al Biscione la mia prima notte di matrimonio. C’è da farne un quadretto. La mia povera Marianna non era mai stata al Biscione.... ah! ah! sicchè, s’immagini che paura!.. Basti dire che è scappata su per la ringhiera in camicia....

— Scusi, — interruppe aspramente Demetrio, — chi è lei? che cosa vuole? non ho tempo di stare a sentire le sue fanfaluche.

— Ecco un parlar chiaro, corpo del diavolo! Se si tratta dunque di farle quell’onore che dice, io sono il Chiesa di Melegnano.

— Il sor Isidoro? — esclamò Demetrio un po’ mortificato e confuso.

— Sì, Isidoro Chiesa, uomo libero per la grazia di Dio e che non mangia il pane di nessuno. [p. 139 modifica]

— Se avessi saputo.... non ci siamo mai incontrati.

— Non abbiamo mai avuto quest’onore.... Son venuto a Milano per discorrere di quella faccenda; anzi per far più presto ho portato con me tutto l’incartamento talis et qualis come me l’ha consegnato ieri l’avvocato Ferriani.... Conosce l’avvocato Ferriani? un bravo giovane, svelto come un uccellino, un poco storto di gambe, ma diritto di cervello. Questi nanis quanis alle volte hanno un talento! Anche la vite è storta, e fa buon vino. Transeat! Da questo incartamento ella potrà farsi un’idea precisa delle cose, come le ho raccontate al povero Cesarino. Io sono uno che ama le cose chiare, sebbene ne abbia ricevute di quelle che non le ha sofferte nostro Signore sulla croce. Ma un Chiesa non si umilia nè per cento, nè per duecento, nè per mille marenghi. Un Chiesa non si vende.

Il mezzo matto cominciava a gridare e ad agitare il suo bastone bistorto in aria.

— Io non so nulla.... — disse Demetrio umile e paziente.

— Si tratta di un capitale di ottanta mila lire che l’Ospedale mi deve sacrosanto, come è vero che ho ricevuto il battesimo. Lei saprà benissimo la storia di quel capitaletto: c’è da farne una tragedia. Io sono salito sul [p. 140 modifica]fondo di Melegnano l’anno mille e ottocento cinquantasei, l’anno del colèra, ai tanti di novembre.

— Senta....

— L’avvocato Ferriani, che non è un’oca, dice e sostiene che ho tutte le ragioni. Negli articoli del capitolato c’era una clausola che contemplava appunto la restituzione di quel precario, per cui io ho diritto a un risarcimento, sì o no? Si tratta di ottanta mila lire, non un quattrino, e in queste c’è la dote di mia figlia, che vuol dire il pane de’ suoi figli, sangue del mio sangue. Pazienza ancora se i denari andassero a sollievo dei poveri; ma lei sa meglio di me che in queste pie amministrazioni è un rubamento e un mangiamento generale. Mangia l’ingegnere, mangia il ragioniere, mangia l’economo, mangia l’avvocato che fa le cause, mangia il giudice che fa le sentenze, mangia la Corte d’Appello che le rivede e su su, ladro via ladro fa ladro, è tutta una consorteria birbona.

— Scusi....

— E io, bestia, mi son sempre fidato. Ma dice bene quel nanis quanis del mio avvocato: la pazienza dei popoli è la mangiatoia dei tiranni, e sento anch’io che un po’ di catastrofe universale di tanto in tanto ci vuole....

— Ma senta.... [p. 141 modifica]

Il vecchio infervorato non lasciava il tempo di aprire la bocca.

— Se io esagero, — continuò, inarcando le sopracciglia e movendo quei due grandi specchi ustori che aveva sugli occhi, — se io esagero, mi possa cadere un fulmine sul collo, e restar qui, in nomine patris, filii et spiritus. È tutta una lega di moderati birboni....

Proprio in questo momento entrò il cavalier Balzalotti, che si fermò un istante a dare un’occhiata al predicatore.

— Tutta gente che vende la pancia al Governo. Rubano i ministri, rubano i segretari generali, rubano i capi divisione, e giù giù fino all’ultimo guattero del regno d’Italia, con Depretis alla testa, è una ladreria di mutuo soccorso....

A queste parole pronunciate in presenza di un superiore, Demetrio scattò come un razzo e alzando la voce anche lui con una furia caina (perchè ogni pazienza ha il suo limite) dimostrò al signor Isidoro Chiesa di Melegnano che non è alle persone di buon senso che si fanno certi discorsi, e che un pubblico ufficio non è un’osteria. Il suo tempo era prezioso, e se non aveva nulla di più bello di queste fanfaluche, andasse a contarle al suo avvocato. — Nell’eccitazione dell’ira il volto di Demetrio si fece rosso come la cresta del gallo, e i duri muscoli guizzarono sotto [p. 142 modifica]la pelle infiammata come un gruppo di biscie. Il cavalier Balzalotti, che finiva di dare l’ultima occhiata alla Perseveranza, gli fe’ segno d’aver pazienza e di lasciarlo dire.

— Lei, — soggiunse il Chiesa col suo bel risolino sardonico, — lei parla così, perchè anche lei mangia alla greppia. Ma lasciamola lì. Non sono venuto per cercare la carità a nessuno, ma soltanto per far valere dei diritti.

— Che diritti?

— Suo fratello prima di morire mi aveva promesso settecento lire per vedere di finire questa causa.

— E così?

— Ci ho qui ancora la lettera, nella quale Cesarino mi diceva di andare avanti, di fare i primi passi coll’avvocato, di battere il ferro mentr’era caldo; che in quanto ai denari li avrebbe trovati lui, anzi mandò lui stesso un acconto di duecento lire all’avvocato Ferriani. Io sono andato avanti, ho battuto il ferro, e per Dio, non si lascia neanche un malfattore impiccato a mezzo sulla forca. L’avvocato ha sulla garanzia di Cesarino e nell’interesse dei minorenni smosso della polvere, versato dell’inchiostro, ha unto le mani a qualche cancelliere per far correre la cosa, ha fatto spese in scritturazioni e carta bollata; ma se non ha le settecento lire [p. 143 modifica]promesse, è come aver messo le pezze e l’unguento su una gamba di legno.

— E viene a contarle a me queste cose? — gridò Demetrio in preda a una convulsione nervosa, che non seppe più dominare alla presenza del suo capo ufficio.

— Non è lei il fratello di suo fratello?

— Io non ho promesso niente a nessuno.

— Lei è il tutore dei minorenni.

— Io sono il tutore di nessuno....

— C’è un’obbligazione, corpo del diavolo! e a un Chiesa di Melegnano non si dànno ad intendere delle ciarle.

Il vecchio strillava come un’oca: e a lui di ripicco l’altro:

— A un Chiesa di Melegnano io dico che non lo conosco.

— Dunque il signor Demetrio non crede alle mie parole.... — strillò di nuovo il vecchio, alzandosi e picchiando in terra il suo bastone bistorto.

— Io credo che lei è un gran buon uomo.

Queste parole furono come un secchio d’acqua sopra un gran fuoco che divampa; che non lo smorza, ma lo umilia per un momento, facendolo stridere quasi irritato in mezzo a un nugolone di cenere.

Cambiando il tono chiassoso in un tono sibilante e canzonatorio, il Chiesa cominciò a dire con un sorrisetto di acerba ironia: [p. 144 modifica]

— Ah! io sono un gran buon uomo?!

— Vada da mio fratello a farsele dare le sett....tecento lire. Io non vivo di grassazione per sua regola: — gridava l’uno: e l’altro sempre sorridente:

— Ah! io sono un gran buon uomo — e appoggiato al bastone diritto come le sue idee, cominciò a dondolare il capo a destra e a sinistra. — Ah! io sono....

— E se l’avvocato ha speso duecento lire in bolli, si faccia bollare anche lui per quattrocento.... e vada fuori dei piedi che ho già la testa come un cavagno.

Lo zoppo, quasi sospinto dalle mani lunghe e ossute di quello che dicevano il Demetrio, stordito forse di quella accoglienza, cominciò a ritirarsi a poco a poco verso l’uscio, girando sopra sè stesso come una vite di torchio che infili il pavimento, mandando terribili lampi e fosforescenze dalle due grandi invetriate.

— Ah! io sono....

Giunto sulla soglia si drizzò tutto, brandì il pomo del bastone colle due mani e picchiando forte in terra gridò compiendo la frase con un gesto di sfida:

— Ci rivedremo, Filippo!