Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo VI

Capitolo VI

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Capitolo Sesto

Del primo Ministro1.

E fra le piú atroci calamitá pubbliche, cagionate dall’ambizione nella tirannide, si dée, come atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente capitolo soltanto accennata, e di cui credo importante ora e necessarissimo il discorrere a lungo.

Questa fatal dignitá altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede quanto è maggiore la incapacitá del tiranno che la comparte. Ma siccome il solo favore di esso la crea, siccome ad un tiranno incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un ministro illuminato e capace, ne risulta per lo piú, che costui, non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli rassomiglia interamente nella impossibilitá del ben fare e di gran lunga lo supera nella capacitá, desiderio e necessitá del far male. I tiranni d’Europa cedono a codesti loro primi ministri l’usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con maggiore estensione e in piú supremo grado, che il giusto abborrimento di tutti. E questo abborrimento sta nella natura dell’uomo, che male può comportare che altri, nato suo eguale, rapisca ed eserciti quella autoritá caduta in sorte a chi egli crede nato suo maggiore; autoritá che, per altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua propria gravezza.

Ma questo primo ministro, dal sapersi sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire altrui sommamente; ond’egli gastiga e perseguita e opprime ed annichila chiunque l’ha offeso, chiunque può offenderlo, chiunque ne ha, o gliene [p. 33 modifica] viene imputato, il pensiero, e chiunque finalmente, non ha la sorte di andargli a genio. Il primo ministro perciò facilmente persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l’anima egli, che tutte le violenze e crudeltá ch’egli adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il tiranno. Accade alle volte che, o per capriccio o per debolezza o per timore, il tiranno ritoglie ad un tratto il favore e l’autoritá al ministro, lo esiglia dalla sua presenza, e gli lascia, per singolare benignità, le predate ricchezze e la vita. Ma questa mutazione non è altro che un aggravio novello al misero soggiogato popolo. Il che facilmente dimostrasi. Il ministro anteriore, benché convinto di mille rapine, di mille inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia quasi mai dalla sua dignitá, se non in quel punto ove un altro piú accorto di lui gli ha saputo far perdere il favor del tiranno. Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in somma quel giorno in cui al ministro è tolta l’autoritá e il favore. Allora bisogna che lo stato si prepari a sopportare il ministro successore, il quale dée pur sempre essere di alcun poco piú reo del predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa stabilita dall’altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile. Eppure costui vuole, e dée volere (come il predecessore) ed arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed opprimere, ed atterrire. Ogni mutazione dunque nella tirannide, cosí di tiranno che di ministro, altro non è ad un popolo infelicemente servo che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa piaga insanabile che ne rinnova il fetore e gli spasimi.

Ma che il ministro successore debba esser poi di alcun poco piú reo dell’antecessore, colla stessa facilitá si dimostra. Per soverchiare un uomo cattivo, accorto e potente, egli è pur d’uopo vincerlo in cattivitá e accortezza. Un ministro di tiranno per lo piú non precipita, senza che alcuno di quelli che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina a lui non sottentri. Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti ripari, che avea fatti quel primo per assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore. [p. 34 modifica] Domando, se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizi in chi la possiede e felicemente la esercita.

La non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che il prodotto della non ferocia dei moderni popoli, non comporta che agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppur le ricchezze, ancorch’elle siano per lo piú il frutto delle loro iniquitá e rapine: né soffrono costoro alcun altro gastigo che quello di vedersi lo scherno e l’obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che maggiormente sotto essi tremavano. Alcuni di questi vice-tiranni smessi, hanno la sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo nella loro avversa fortuna, e ardiscono stoltamente arrogarsi il nome di filosofi disingannati. E costoro fanno ridere davvero gli uomini savi che, ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono ch’egli non è, né può essere mai stato, che un vice tiranno.

Ma perderei le parole, il tempo e la maestá da un cosí alto tema richiesta, se dimostrar io volessi che un ente cotanto vile ed iniquo non può né essere stato mai, né divenire un filosofo. Proverò bensí, (come cosa assai piú importante) che un primo ministro del tiranno non è mai né può essere un uomo buono ed onesto; intendendo io da prima per politica onestá e vera essenza dell’uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il bene di tutti al ben d’un solo, e la veritá ad ogni cosa. E, nell’avere io definita la politica onestá, parmi di aver largamente provato il mio assunto. Se il tiranno stesso non vuole, e non può volere, il vero ed intero ben pubblico, il quale sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria potenza, è egli credibile che lo potrá mai volere ed operare colui che precariamente lo rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno aveano quasi collocato sul trono, e che un capriccio ed un cenno ne lo precipitano?

Che il ministro poi non può essere privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestá la costumatezza e la fede, si potrebbe puranche ampiamente provare, e con ragioni invincibili: ma i ministri stessi, colle loro opere, tutto dí ce lo provano assai meglio che nessuno scrittore provarlo potrebbe con [p. 35 modifica] le parole. Si osservi soltanto che non esiste ministro nessuno che voglia perder la carica; che ninna carica e piú invidiata della sua; che niun uomo ha piú nemici di lui, né piú calunnie, o vere accuse, da combattere; ora, se la virtú per se stessa possa in un governo niente virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al raggiro e all’invidia, ne lascio giudice ognuno.

Dalla potenza illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a produrre la prepotenza; cioè l’abuso di un potere abusivo giá per se stesso. Crescono la potenza e l’abuso ogniqualvolta vengono innestati nella persona di un suddito; perché questo tiranno elettivo e causale si trova costretto a difendere con quella potenza il tiranno ereditario e se stesso. Una persona di piú da difendersi richiede necessariamente piú mezzi di difesa; e un’autoritá piú illegittima richiede mezzi piú illegittimi. Perciò la creazione o l’intrusione di questo personaggio nella tirannide si dée senza dubbio riputare come la piú sublime perfezione di ogni arbitraria potestá.

Ed eccone in uno scorcio la prova. Il tiranno, che non si è mai creduto né visto nessun eguale, odia per innato timore l’universale dei sudditi suoi; ma, non ne avendo egli mai ricevuto ingiurie private, gl’individui non odia. La spada sta dunque, fin ch’egli stesso la tiene, in man di un uomo che, per non essere stato offeso, non sa cui ferire. Ma tosto ch’egli cede questo prezioso e terribile simbolo dell’autoritá ad un suddito, che si è veduto degli eguali e dei superiori, ad uno che, per essere sommamente iniquo ed odioso, dée sommamente essere odiato dai molti e dai piú; chi ardirá mai credere allora, o asserire o sperare che costui non ferisca?


Note

  1. «Ad consulatum nonnisi per Seianum aditus: neque Seiani voluntas nisi scelere quærebatur». «Niuno era console, se non voleva Seiano: né uomo a Seiano piacea, se scellerato ei non era». Tacito, Annali, lib. IV, § 68.