§ XVI.

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XV XVII
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§ XVI.

Della pena di morte.

Questa inutile prodigalità di supplizi, che non hai mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la pena di morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno. Esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi [p. 55 modifica]è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio d’ucciderlo? Come mai nel minimo sagrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutt’i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi? Ei doveva esserlo, se ha potuto dare altrui questo diritto, o alla società intera.

Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale esser non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino; perchè giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere: ma se dimostrerò non essere la morte nenè utile nè necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.

La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino diviene dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengono luogo di leggi: ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo, per la quale i voti della nazione sieno riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità [p. 56 modifica]alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti; secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.

Quando la sperienza di tutt'i secoli, nei quali l’ultimo supplizio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto, ed efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia asserzione.

Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perchè la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime, ma replicate impressioni, che da un forte ma passeggero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente; e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni coll’aiuto di lei, così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offeso, che è il freno più forte contro [p. 57 modifica]i delitti. Quell’efficace, perchè spessissimo ripetuto, ritorno sopra di noi medesimi: Io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione, se commetterò simili misfatti, è assai più possente, che non l’idea della morte, che gli uomini veggono sempre in una oscura lontananza.

La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani, o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti.

La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte, e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più l’animo degli spettatori, che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue, il sentimento dominante è l’ultimo, perchè è il solo. Il limite che fissare dovrebbe il legislatore al rigore delle pene, sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplizio più fatto per essi, che per il reo.

Perchè una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti: ora non vi è alcuno che, riflettendovi, sceglier possa la totale [p. 58 modifica]e perpetua perdita della propria libertà, per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua, sostituita alla pena di morte, ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato.

Aggiungo che ha di più: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo; chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là della tomba; chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere, o di sortire di miseria; ma nè il fanatismo, nè la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro; e il disperato non finisce i suoi mali, ma li comincia.

L’animo nostro resiste più alla violenza ed agli estremi, ma passeggieri dolori, che al tempo ed alla incessante noia; perchè egli può, per dir così, condensare tutto se stesso per un momento per respingere i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte, ogni esempio che si dà alla nazione, suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua, un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi: e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il potere delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti; dunque perchè questo supplizio sia utile, bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse, che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la [p. 59 modifica]morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò, che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù, lo sarà forse anche di più: ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento: ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede, che chi la soffre; perchè il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dalla infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nella immaginazione, e chi soffre trova dei compensi e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice.

Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi, che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un’arte che si apprende colla educazione; ma perchè un ladro non saprebbe esprimere bene i suoi principii, non perciò essi agiscono meno: “Quali sono queste leggi, che io debbo rispettare, che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che gli cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffato pane fra le innocenti grida degli affamati figliuoli, e le lacrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte, ed utili [p. 60 modifica]ad alcuni pochi ed indolenti tiranni; attacchiamo l'ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia industria: verrà forse il giorno del dolore e del pentimento; ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un picciol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani.„ Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia.

Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita, che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò colla incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo in cui ne goderebbe i frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai più forte, che non lo spettacolo di un supplizio che lo indurisce più che non lo corregge.

Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni, o la necessità della guerra hanno insegnato a [p. 61 modifica]spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto, quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo, che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e che per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino un pubblico. Quali sono le vere e le più utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbono osservare e proporre; mentre tace la voce, sempre ascoltata, dell’interesse privato, o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indignazione e di disprezzo, con cui ciascuno guarda il carnefice; che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l’origine di questa contraddizione? E perchè è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perchè gli uomini nel più segreto dei loro animi, parte che più d’ogni altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno, fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo.

Che debbono pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno [p. 62 modifica]strascinare con lento apparato un reo alla morte; e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con secreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? “Ah, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza, e le meditate e crudeli formalità della giustizia non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggior sicurezza, come vittime destinate in sagrifizio all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevagliamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ce ne venivan fatte, ma la veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso!„

Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti ai delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può più che la religione medesima.

Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutti i secoli e di quasi tutte le nazioni che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò, ch’egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e [p. 63 modifica]confuse e a grand’intervalli distanti verità sopprannuotano. Gli umani sagrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà perciò scusarli? Che alcune poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario, perchè ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca fortunata in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al maggior numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti finora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto dividere dalle altre col rivelarle.

La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che sono guidati dalla cieca consuetudine; ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra, mi faranno eco nell’intimo de’ loro cuori: e se la verità potesse fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia ch’ella vi arriva co’ voti segreti di tutti gli uomini; sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori; e che la giusta posterità gli assegna il primo luogo tra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei Traiani.

Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo sedere sui troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtù, delle scienze, delle arti, padri de’ loro popoli, cittadini coronati, [p. 64 modifica]l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi, perchè toglie quell’intermediario dispotismo, più crudele perchè men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri del popolo, e sempre fausti, quando possono giungere al trono! Se essi, dico, lasciano sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli: ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggior ardore il continuo accrescimento della loro autorità.