Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XVIII

Purgatorio
Canto diciottesimo

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Purgatorio - Canto XVII Purgatorio - Canto XIX
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C A N T O   X V I I I.




1Posto avea fine al suo ragionamento
     L’alto Dottor, et attento guardava
     Ne la mia vista s’io parea contento.
4Et io, cui nuova sete ancor frugava,
     Di fuor tacea, e d’entro dicea: Forse
     Lo troppo addimandar, ch’i’ fo, lo grava.1
7Ma quel Padre verace, che s’accorse
     Del timido voler che non s’apriva,
     Parlando, di parlar ardir mi porse.
10Ond’io: Maestro, il mio veder s’avviva
     Sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
     Quanto la tua ragion porti o descriva.2
13Però ti prego, dolce Padre caro,
     Che mi dimostri amor, a cui reduci
     Ogni buon operar e ’l suo contraro.
16Drizza ver me, disse, l’acute luci
     De lo intelletto, e fieti manifesto
     L’error dei ciechi che si fanno duci.
19L’animo, ch’è creato ad amar presto,
     Ad ogni cosa è mobile che piace,
     Tosto che dal piacer in atto è desto.

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22Vostra apprensiva da esser verace
     Tragge intenzione, e dentro a lui la spiega,3
     Sì che l’animo ad essa volger face;
25E se rivolto in ver di lei si piega,
     Quel piegar è amor, quell’è natura,
     Che per piacer di nuovo in voi si lega.
28Poi come il foco muovesi in altura,
     Per la sua forma ch’è nato a salire
     Là dove più in sua materia dura;
31Così l’animo preso entra in disire:
     Chè moto spirital giammai non posa,4
     Fin che la cosa amata il fa gioire.
34Or ti puote apparer quanto è nascosa5
     La verità a la gente, che avvera
     Ciascun amor in sè laudabil cosa:
37Però che forse appar la sua matera
     Sempre esser buona; ma non ciascun segno6
     È buono, ancor che buona sia la cera.
40Le tuoe parole e ’l mio seguace ingegno,
     Rispuosi lui, m’ànno amor discoverto;
     Ma ciò m’à fatto di dubbiar più pregno:
43Chè s’amor è di fuori a noi offerto,
     E l’anima non va con altro piede,
     Se dritta o torta va, non è suo merto.
46Et elli a me: Quanto ragion qui vede
     Dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta
     Pur a Beatrice: ch’è opra di fede.
49Ogni forma sustanzial, che setta
     È da materia, et è con lei unita,
     Specifica virtù à in sè colletta,7

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52La qual senza operar non è sentita,
     Nè sè dimostra, ma che per effetto,8
     Come per verde fronde in pianta vita.9
55Però, là onde vegna lo intelletto
     De le prime notizie, omo non sape,
     E del Primo Appetibile l’affetto;10
58Che sono in voi, sì come studio in ape11
     Di far lo mele; e questa prima vollia
     Merlo di lode e di biasmo non cape.
61E perchè a questa ogni altra si raccollia,
     Innata v’è la virtù che consillia,
     Che de l’assenso dè tener la sollia.12
64Questo è il principio, laonde si pillia
     Ragion di meritare in voi, segondo
     Che i buoni e i rei amor accollie e villia.13
67Color che ragionando andaro al fondo.
     S’accorsen d’esta innata libertate:
     Però moralità lassaro al mondo.
70Onde pognam che di necessitate
     Surga ogni amor che dentro a voi s’accende,
     Di ritenerlo è in voi la potestate.
73La nobile virtù Beatrice intende
     Per lo libero arbitrio, e però guarda
     Che l’abbi a mente, se a parlar ti prende.
76La Luna quasi a terza notte tarda
     Facea le stelle a noi parer più rade,
     Fatta come un secchion che tuttor arda.14

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79E correa contra ’l Ciel, per quelle strade15
     Che ’l Sol infiamma allor che quel da Roma
     Tra i Sardi e i Corsi il vede quando cade;
82E quell’ombra gentil, per cui si noma
     Pietola più che villa mantavona,
     Dal mio carcar deposta avea la soma;16
85Perch’io, che la ragione aperta e piana
     Sovra le mie questioni avea ricolta,
     Stava com’om che sonnolento vana.
88Ma questa sonnolenzia mi fu tolta
     Subitamente da gente, che dopo
     Le nostre spalle a noi era già volta.
91E quale Ismeno già vidde et Asopo
     Lungo di sè di notte furia e calca,
     Pur che i Teban di Baco avesser uopo;17
94Tale per quel giron suo passo falca,
     Per quel ch’io viddi di color, venendo,
     Cui buon voler il giusto amor cavalca.
97Tosto fur sovra noi, perchè correndo,
     Si movea tutta quella turba magna;
     E du’ dinanzi gridavan piangendo:
100Maria corse con fretta a la montagna;
     E Cesari, per suggiugar Ilerda,1819
     Punse Marsillia, e poi corse in Ispagna.
103Ratto, ratto, che ’l tempo non si perda
     Per poco amor, gridavan li altri appresso,
     Che studio di ben far grazia rinverda.
106O gente, in cui fervore acuto adesso
     Ricompie forse negligenzia e indugio
     Da voi per tepidezza in ben far messo,

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109Questo, che vive (certo io non vi bugio)20
     Vuol andar su, purchè il Sol ne riluca;
     Però ne dite onde è presso il pertugio.21
112Parole furon queste del mio Duca;
     Et un di quelli spirti disse: Vieni
     Di rieto a noi, e troverai la buca.
115Noi siam di vollia a muoverci sì pieni,
     Che restar non potem; però perdona,
     Se villania nostra giustizia tieni.
118Io fui Abbate in San Zeno a Verona,
     Sotto lo imperio del buon Barbarossa,
     Di cui dolente ancor Melan ragiona.22
121E tal à già l’un piede entro la fossa.23
     Che tosto piangerà quel monastero,
     E tristo fi’ d’avervi avuto possa;
124Perchè il suo fillio mal del corpo intero,
     E de la mente peggio, e che mal nacque,
     A posto in loco di suo pastor vero.
127Io non so, se più disse, o poi si tacque:24
     Tant’era già di là da noi trascorso;
     Ma questo intesi e ritener mi piacque.
130E quei che m’era ad ogni opo soccorso,25
     Disse: Volgeti qua; e viddi due26
     Venir dando all’accidia di morso.27
133Di rieto a tutti dicean: Prima fue
     Morta la gente a cui il mar s’aperse,
     Che vedesser Giordan l’eredi sue.28

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136E quella, che l’affanno non sofferse
     Fino a la fine col filliuol d’Anchise,
     Sè stessa a vita senza gloria offerse.
139Poi che furon da noi tanto divise29
     Quell’ombre, che veder più non potersi,
     Nuovo pensier dentro da me si mise,
142Del qual più altri nacquero e diversi;
     E tanto d’uno in altro vaneggiai,
     Che li occhi per vaghezza ricopersi,
145E ’l pensamento in sogno tramutai.

  1. v. 6. C. A. gli grava.
  2. v. 12. C. A. e descriva.
  3. v. 23. C. A a voi la
  4. v. 32. C. A. Che è moto spirital e mai non
  5. v. 34. C. A. apparir
  6. v. 38. C. M. esser vera;
  7. v. 51. C. A. virtude
  8. v. 53. C. A. Nè si dimostra mai che
  9. v. 54. C. A. verdi frondi
  10. v. 57. C. A. Primi Appetibili
  11. v. 58. C. A. Ch’è solo in noi,
  12. v. 63. C. A. E dell’assenso di tener
  13. v. 66. C. A. Che buoni e rei amori
  14. v. 78. C. A. che tututto arda.
  15. v. 79. C. A. E corrieri contra noi, per
  16. v. 84. C. A. Di mio
  17. v. 93. C. A. Bacco
  18. v. 101. C. A. E Cesar poi, per
  19. v. 101. C. M. Cesare
  20. v. 109. C. A. e certo
  21. v. 111. C. A. ov’è presso
  22. v. 120. C. A. Milan
  23. v. 121. C. A. piè dentro alla
  24. v. 127. C. A. se el si disse, o s’el si tacque:
  25. v. 130. C. A. uopo
  26. v. 131. C. A. in qua, vedine due
  27. v. 132. C. A. Venirne
  28. v. 135. C. A. vedesse Giordan le rede sue.
  29. v. 139. C. A. Poi quando fur da noi

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C O M M E N T O


Posto avea fine ec. Questo canto xviii contiene dichiaragione dell’amore detto di sopra, e la purgazione del peccato dell’accidia; e però lo nostro autore fa in esso principalmente due cose: imperò che prima pone la dichiaragione dell’amore toccato nel precedente canto intorno ai dubbi che muove l’autore; ne la seconda l’autore pone la purgazione del peccato de l’accidia, e come uditte d’alquante di quelle anime di loro condizione, e come intrò in diversi pensieri tanto che s’addormentò, et incomincia la seconda quive: La Luna quasi a terza ec. La prima parte, che serà la prima lezione, si divide in parti cinque: imperò che prima l’autore finge come, finito Virgilio lo suo parlare, Dante li mosse uno dubbio: ne la seconda finge che Virgilio li dichiari lo dubbio mosso, et incomincia quive: Drizza ver me, ec.; ne la tersa parte finge l’autore come mosse anco un altro dubbio a Virgilio che nacque de la dichiaragione del sopra ditto, e come Virgilio in generale manifesta la condizione del dubbio, quive: Le tuoe parole ec.1; ne la quarta finge come Virgilio diede la dichiaragione speciale a ditto dubbio, quine: Ogni forma sustanzial, ec.; ne la quinta finge come Virgilio sopra la ditta dichiaragione adiunse una corollaria conclusione, quive: Color che ragionando ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co la litterale et allegorica, o vero morale esposizione. [p. 417 modifica]

C. XVIII — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che, compiuto lo ragionamento di Virgilio ditto di sopra nel quale dichiarò come amore è radice d’ogni virtù e d’ogni vizio, elli pregò Virgilio che dichiarasse che cosa è amore: imperò che di questo dubbitava, dicendo così: Posto avea fine al suo ragionamento l’alto Dottor; cioè Virgilio, al quale in questa parte ben si convenia questo nome: imperò che come dottore avea parlato e determinato che amore è la radice dei sette peccati mortali e così de le virtù, come chiaro appare per quil che ditto è di sopra, et attento guardava Ne la mia vista; cioè Virgilio fiso guardava nel mio volto: imperò che quive si cognosce l’abito d’entro per li segni che nel volto si vedeno, s’io; cioè Dante, parea contento; cioè di quel che ditto era di sopra: li segni del volto che dimostrano contentamento sono levamento su del volto, letizia de la faccia, e ’l volgimento del volto qua e là2. Et io; cioè Dante, cui; cioè lo quale, nuova sete; cioè nuovo desiderio di sapere, ancor frugava; cioè stimulava, Di fuor tacea; che era uno segno di non esser contento, e d’entro; cioè a me, dicea: Forse; mormorando o menando le labbra; e questo era segno di non esser contento, Lo troppo addimandar, ch’i’ fo, lo grava; ecco che manifesta l’autore lo suo concetto ch’elli avea allora d’entro, lo quale procedea da discrezione. Ma quel Padre verace; cioè Virgilio lo quale ora chiama Padre: però che come padre attendeva a la salute di Dante, come di filliuolo; et anco la ragione dè comandare et insegnare a la sensualità, e la sensualità dè ubedire a la ragione et attendere a la sua dottrina, come filliuolo, che s’accorse Del timido voler; come se n’avidde Virgilio: imperò che Dante fece atto di voler parlare e rattennesi, che fu segno di volere parlare e di timore, per lo quale lassò lo volere, che non s’apriva; cioè che non si manifestava, Parlando; cioè Virgilio: di parlar ardir mi porse; cioè a me Dante. E debbiamo pensare che cosa disse Virgilio a Dante che li diè ardire di parlare, et acconciamente possiamo fingere che li dicesse: Ài veduto, Dante, come amore è radice d’ogni virtù e d’ogni vizio, per darli ardire di dire. Ond’io; cioè unde, cioè per lo qual parlar io Dante dissi, s’intende: Maestro; ecco che chiama Virgilio Maestro, perchè ora à ad ammaestrare; e dice Gracismo che è differenzia tra dottore e maestro: dottore è pur d’uno, maestro di più, e però dice: Unus est doctor, sit multorumque magister — , il mio veder; ecco per questo dire, che Dante fa ora, che dice il mio veder, possiamo fingere che Virgilio dicesse: Ài veduto ec., s’avviva Sì nel tuo lume; cioè, secondo la lettera, lo [p. 418 modifica]veder di me discepolo s’illumina sì ne la tua dottrina; e secondo l’allegoria, la sensualità s’avviva, cioè s’illumina nello intelletto de la ragione per sì fatto modo, ch’io discerno chiaro; cioè io Dante veggo chiaramente, Quanto la tua ragion; che tu ài posto di sopra, porti o descriva: porti à ditto per quel ch’el lassò a dichiarare, acciò che Dante pensasse da sè, o descriva; dice per quel che dichiarò apertamente. Però ti prego, dolce Padre caro; ecco che Dante conchiude la sua dimanda con prego a Virgilio, dicendo: Che mi dimostri amor; cioè che cosa è amore, a cui reduci Ogni buon operar; cioè al qual amore tu arrechi le virtù, e ’l suo contraro; cioè lo vizio: lo contraro del buono3 operare è lo male operare ch’è vizio; e per questo appare che l’autore vuole sapere che cosa è amore, lo quale è radice del bene e del male.

C. XVIII — v. 16-39. In questi otto ternari l’autore nostro finge come Virgilio li dichiarò lo dubbio che avea; cioè che cosa è amore, et anco lo fe accorto de l’errore di certi Filosofi, che disseno ogni amore essere lodevile, dicendo così: Drizza ver me, disse; Virgilio a Dante: volendoli dichiarare che cosa è amore lo fece attento, dicendoli che dirissasse in ver lui, l’acute luci De lo intelletto. Se Virgilio significa la ragione e Dante la sensualità, che vuole dire l’autore che finge che Virgilio li dica che dirissi in verso lui l’acute luci dello intelletto? La potenzia apprensiva de lo intelletto è atta a servire a la ragione et ai sentimenti, secondo lo Filosofo che dice: Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu; e però dice la ragione a la sensualità: Dirizza l’acute e sottili potenzie de lo intelletto che non operino ora, secondo che i sensi li apparecchino di fuora; ma solamente intendino a le ragioni che io inducerò; sicchè dirissare è rimuovere dai sentimenti e reducere a la ragione: l’acute luci sono le potenzie intellettive. E perchè dice questo? Perchè quel che dè dire non è cosa, che per li sentimenti si possa comprendere, e fieti manifesto L’error dei ciechi; cioè di color che non sanno, che sono come ciechi de la mente, che si fanno duci; cioè si fanno guidatori delli altri, cioè ammaestratori delli altri; e se colui che non sa vuole ammaestrare chi non sa, conviene che addivegna come del cieco, che se ’l cieco guida lo cieco, amburo cadeno ne la fossa: l’errore di costoro era che diceano che ogni amore in sè era buono; la quale cosa l’autore mosterrà esser falsa. L’animo, ch’è creato ad amar presto; parla dell’animo umano ch’è creato da Dio con potenzia d’amare, che si chiama concupiscibile; la quale potenzia prestamente può arrecare in atto, e per questo dimostra che l’amore sia una presta potenzia naturale dell’animo umano, Ad ogni cosa è mobile che piace: imperò che questa4 mobilità [p. 419 modifica]àe l’animo umano naturalmente, Tosto che dal piacer in atto è desto; qui dimostra che questa naturale potenzia d’amare stassi cheta nell’animo e non si produce in atto, se non provocata dal piacere: imperò che quando l’apprensiva, mossa da li sentimenti, ministra alcuna cosa all’anima, o ella li piace o ella li dispiace: se li dispiace, muovesi l’animo ad odiarla; se li piace, incontenente si muove ad amarla. Vostra apprensiva; cioè la potenzia apprensiva umana: questa apprensiva è una in tutte le potenzie dell’anima intellettiva, benchè per altro modo si mostri in uno atto et in uno altro: imperò che sua apprensiva è la ragione, sua apprensiva à l’ira, sua apprensiva à la concupiscenzia, e così ciascuno sentimento à la sua apprensiva5 ec.; ma ell’è una, e per li diversi atti è differente; imperò che altra apprensiva è l’una, et altra è l’altra; cioè che per altro modo apprende l’una, e per altro modo apprende l’altra. Questa apprensiva è quella de la volontà e concupiscibilità, de la quale parla l’autore ora, la quale pillia de l’apprensiva del senso comune, e quella pillia da l’apprensiva dei sensi particulari, e pillia l’apprensiva de la volontà intenzione da le cose, che sono bene o che paiano; e qui intenzione s’intende movimento, secondo che le trova o buone o rie si muove o con piacimento, o con dispiacimento; qui s’intende che da le cose buone, o che paiano, si muova con piacimento; e da le rie, o che paiano, con dispiacimento. Tragge intenzione; cioè pillia ad intendere, cioè muovimento, da esser verace; cioè da quelle cose che veramente sono buone o paiano: imperò che a le cose rie non può intendere, se non è ingannata apprendendole per buone: imperò che come apprende la cosa ria, incontenente la rifiuta; e come apprende la cosa buona, v’intende; e però dice: e dentro a lui; cioè all’animo, la spiega; cioè liela manifesta e ponliela inanti, Sì che l’animo ad essa; cioè cosa posta inanti, volger face; cioè a considerarla. E se rivolto; cioè l’animo umano, in ver di lei si piega; cioè s’inchinò in verso la cosa postali inanti, sicchè ne pilli piacimento e questo è piegare; cioè pilliamo piacimento de la cosa appresa, Quel piegar è amor; cioè quella inclinazione, che fa l’animo in pilliar piacimento de la cosa appresa: e però dice santo Agostino: Quod amor est inhians habere quod amat cupiditas — , quell’è natura; cioè quil piegare è naturale. Che per piacer di nuovo in voi si lega: imperò che si fa una colligazione dell’animo a la cosa che piace, de la quale nasce la concupiscenzia; e lo desiderio fassi di nuovo, perchè prima non era. Poi come il foco muovesi in altura; cioè6 dimostra per similitudine lo movimento dell’animo ch’è preso dal piacere de la cosa obietta, per7 la [p. 420 modifica]quale si muove come ’l fuoco che si muove in alto. Per la sua forma; cioè per la sua forma specifica, cioè per lo suo esser distinto dall’altre cose create, secondo natura a lui dato, ch’è nato a salire; cioè la forma del fuoco naturalmente monta: imperò che di natura de le cose leggieri è montare; questo che seguesi dè accostare a quello Poi come il foco muovesi in altura, Là dove più in sua materia dura; e così si dè intendere che là dov’è maggiore, più monta in su; e però dice: Là dove più in sua materia dura; cioè quive, u’ elli à maggiore vigore per più di materia ch’elli abbia, quive più si inalsa; e la cagione è ditta di sopra. Lo fuoco in materia è lo nostro che noi usiamo; ma lo fuoco sensa materia àe la spera sua di sotto a la luna tra l’etere e la luna, e però infine quive s’affatica di montare: ma quando è quive sta quieto, perch’è nel suo sito naturale. Così l’animo preso; dal piacere de la cosa obietta, entra in disire; cioè in desiderio entra de la cosa che li piace; et assegna la cagione: Chè; cioè imperò che, moto spirital; cioè lo movimento de lo spirito, giammai non posa; cioè giammai non sta contento, Fin che la cosa amata il fa gioire; cioè lo fa avere contentamento di sè: come ’l fuoco che mai non posa, in fin che non è ne la sua spera; così l’amore, infin che non à la cosa amata. Or ti puote apparer; cioè a te Dante può esser manifesto per quello ch’è ditto, quanto è nascosa La verità a la gente, che avvera; cioè che pone per vero, Ciascun amor in sè laudabil cosa; questo è l’errore, del quale fece menzione al principio; che molti ingannati affermavano che ogni amore in sè era buono, e moveansi da questo. L’animo non ama se non le cose che li apparecchia l’apprensiva, e l’apprensiva nolli apparecchia se non le cose ch’ànno vero essere, e le cose ch’ànno vero esser sono buone, dunqua ogni amore è buono; e questo errore l’autore nostro solve per quello che seguita, dicendo cosi: Però che forse appar la sua matera Sempre esser buona; e per questo si appar; si manifesta in parte l’errore: imperò che molte cose paiano quil che non sono; cioè paiano buone e sono rie; e così s’inganna l’apprensiva e l’animo che ne pillia piacere. Adiunge l’altra parte in che sta anco l’errore; cioè che, pognamo che l’obietto sia buono, l’animo può operare in quello obietto indebitamente o per troppo o per poco, e così erra come dimostrato fu nel precedente canto; e però adiunge: ma non ciascun segno È buono, ancor che buona sia la cera8; parla per similitudine: come lo gattivo [p. 421 modifica] suggello che fa lo segno ne la cera, fa gattivo9 segno ne la cera ben ch’ella sia buona; così ben che la cosa amata in sè sia buona, può essere errore ne l’amore che ama o troppo o poco, e così si passa l’ordine e cadesi in vizio. E per aver mellio notizia di quel che l’autore dice de l’amore, debbiamo sapere che li atti10 de l’animo umano sono inverso l’obietto suo o di placenzia, o di displacenzia11: placenzia è disposizione che seguita per lo conforto de la virtù concupiscibile, et è placenzia o di bene o di male: se è di bene, o proprio o d’altri12; se è proprio o è coniunto o è da lunga: se è bene proprio distante, la placenzia genera concupiscenzia e desiderio: la concupiscenzia è appetito del bene proprio appreso ancora distante; e desiderio è ardente et intenso appetito di quil medesmo bene, e sigurtà e speransa genera ancora; e la placenzia del bene proprio coniunto genera allegressa e letizia: allegressa è iocundamento de l’acquistamento del bene proprio coniunto: letizia è godimento dell’uso di tal bene. Se la placenzia è del bene altrui, genera amore; et è amore volontà, secondo la quale desideriamo lo bene altrui; se è placenzia di male altrui, che del proprio non può essere, genera odio; et odio è volontà, secondo la quale desideriamo lo male altrui. E per questo appare che da la virtù concupiscibile, secondo la placenzia nasceno questi atti; concupiscenzia, desiderio, gaudio, letizia, amore et odio; e se li atti13 de l’animo umano so14 di displicenzia, che è disposizione che seguita per lo conforto de la potenzia irascibile, et è questa displicenzia o del bene, o del male; se del bene o proprio, o d’altrui; se proprio, o coniunto o assente; se è bene proprio o coniunto o assente, la displicenzia genera abominazione e fastidio: fastidio è rifiutamento del bene proprio, appreso assente o coniunto: abominazione è ardente et intenso rifiutamento del bene proprio, assente, e così del coniunto. Se è displicenzia del bene altrui, genera invidia: invidia è volontà, secondo la quale desideriamo altri essere sensa li suoi beni; se la displicenzia è del male o è proprio o è d’altri; se è proprio, o è presente, o assente; se15 è presente, la displicenzia genera dolore e tristizia: dolore è afflizione del male [p. 422 modifica]proprio iam, presente16 appresso: tristizia è afflizione de la coniunzione di quello, se è timore e desperazione; et è timore et afflizione del male proprio appresso a bene; e desperazione è afflizione del male proprio, assente appresso, sensa rilevamento alcuno di speransa. Se la displicenzia è del male altrui, genera misericordia; et è misericordia voluntà, secondo la quale desideriamo altri essere senza lo suo male; adunqua da la concupiscibile potenzia esceno, secondo la displicenzia, questi atti; cioè fastidio, abominazione, invidia, dolore, tristizia e misericordia; e secondo la placenzia n’esceno concupiscenzia, desiderio, allegressa, letizia, amore, odio; et oppognanosi17 insieme li atti dell’una colli atti dell’altra; cioè fastidio e concupiscenzia, desiderio et abominazione, allegressa e dolore, letizia e tristizia, amore et odio, invidia e misericordia. E quinci si vede propiamente che cosa è amore, et unde nasce; ma lo nostro autore lo prese più largamente; cioè non pure per lo desiderio del bene altrui; ma anco per lo desiderio del bene proprio, et eziandio per lo desiderio del male; ma18 impropriamente, come ditto è di sopra. E però debbiamo dire che amore, secondo che l’autore lo descrive, è inclinazione naturale dell’animo; cioè de la volontà mossa da l’apprensiva de la cosa piacente; e così appare che amore non è sempre buono: imperò che, come fu ditto di sopra, può essere che l’apprensiva s’inganni; parendoli buono quel che non è; et anco può essere che la inclinazione dell’animo o è troppa, o è poga più, che non si conviene a la cosa che piace, come detto fu di sopra: e così si manifesta l’errore dei ciechi che si fanno duci.

C. XVIII — v. 40-48. In questi tre ternari lo nostro autore finge che, di po’ la risposta di Virgilio fatta a dichiarare che cosa è amore, elli mosse un altro dubbio lo quale Virgilio promette di solvere nell’altra parte, secondo la ragione umana; ma secondo lo spirito la solve la Teologia et a lei lo manda. Dice così: Le tuoe parole; cioè ditte di sopra, e ’l mio seguace ingegno; cioè che seguita le tuoe parole; cioè ch’è capace de le tuoe sentenzie, Rispuosi lui; cioè rispuosi io Dante a Virgilio, m’ànno amor discoverto; cioè m’ànno manifestato che cosa è amore; e bene adiunge lo ingegno suo a le parole di Virgilio: imperò che, se la sensualità non apprendesse quello che dimostra la ragione, invano s’affaticherebbe la ragione. Ma ciò m’à fatto di dubbiar più pregno; cioè questa dichiaragione m’à messo in maggiore dubbio; et ora manifesta lo dubbio: Chè s’amor è di fuori a noi offerto; come dimostra la ragione ditta di sopra: cioè che l’amore è una potenzia che à l’animo lo quale si [p. 423 modifica]muove in atto, quando l’apprensiva li presenta cosa piacevile, E l’anima non va con altro piede; cioè co l’amore: imperò che l’anima va, secondo che l’affezione la porta. Se dritta o torta va; l’anima, non è suo merto: però che va com’ella è mossa; dunqua bene operare non acquista merito, e male operare non acquista demerito. E mosso lo dubbio, finge l’autore che Virgilio prometta la risposta a la ragione possibile, e nel rimanente lo rimanda a Beatrice. Et elli a me; cioè e Virgilio rispuose a me Dante: Quanto ragion qui vede Dir ti poss’io; cioè io ti posso aprire la verità, quanto la ragione umana comprende, che non vasta a solvere questo dubbio; e però dice: da indi in là; cioè da la ragione umana in su, t’aspetta Pur a Beatrice; cioè a la santa Teologia: ch’è opra di fede; cioè imperò che s’appartiene a la fede catolica: imperò che la ragione umana non apprende, se non le cose sensibili e le intellettuali, secondo le sensibili; ma la Teologia insegna le cose spirituali che s’apprendeno per fede, non per ragione.

C. XVIII — v. 49-66. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Virgilio solve lo dubbio proposto di sopra, secondo ragione, dicendo così: Ogni forma sustanzial; cioè ogni anima: imperò che l’anima è forma sustanzial de l’omo, l’omo è composto d’anima e di corpo, l’anima è forma; lo corpo è materia dell’omo, la forma è quella19 che dà essere a la cosa; la materia è quella de la quale con alcuna cosa; cioè co la forma, si fa alcuna cosa, che setta; cioè la quale forma sustanzial divisa, È da materia; cioè che à essere separata da la sua materia: l’anima umana separata dal corpo à essere, et unita col corpo à essere, benchè altro essere sia l’uno, et altro sia l’altro, che non è nell’anime delli animali bruti, le quali non ànno essere separate dal corpo; e però dice che l’anima umana è pura forma: imperò ch’ella è divisa da materia; et adiunge: et è con lei; cioè co la materia, unita; cioè coniunta, sì come è mentre che sta nel corpo, Specifica virtù à in sè colletta; cioè à una potenzia differente da tutte l’altre specie, la quale costituisce la sua specie e falla differente dall’altre. La qual; cioè potenzia, senza operar non è sentita; cioè non appare e non si manifesta, se non per l’effetto; e però seguita: Nè sè dimostra; cioè essa potenzia, ma che per effetto; cioè se non per effetto; e pone lo esemplo: Come per verde fronde in pianta vita; cioè come si cognosce la pianta essere viva, quando si vedeno le frondi verdi; così per li suoi effetti si cognosce la virtù specifica de la forma sustanziale. Però; ecco che conchiude una proposizione; cioè che l’omo non sa unde vegna lo intelletto de le prime notizie; cioè de la generalità, e l’affetto; [p. 424 modifica]cioè l’amore di Dio, dicendo: omo non sape20; cioè non sa, là onde vegna lo intelletto De le prime notizie; come ne’ fanciulli cognoscere lo padre e la madre, e così dell’altre cose generali ne li omini provetti, come sono certe cose che li omini sanno in generale; ma non in particulare, E l’affetto; cioè l’amore e lo desiderio, del Primo Appetibile; cioè del sommo bene ch’è Iddio: ogni omo desidera lo sommo bene; unde vegna questo desiderio l’omo non sa: imperò che naturalmente è ne l’anima. Che; cioè le quali due cose; cioè lo intelletto de le prime notizie, e lo desiderio di Dio, sono in voi; cioè omini naturalmente, sì come studio in ape Di far lo mele; cioè come naturalmente è nell’apa lo studio di fare lo mele. e questa prima vollia; che è naturale, Merto di lode e di biasmo non cape; cioè non à in sè merito, nè demerito: imperò che dice lo Filosofo che i primi movimenti non sono in nostra podestate. E perchè; cioè et acciò che, a questa; cioè prima vollia, ogni altra; cioè volontà, cioè seconda e terzia, e così dell’altre che seguitano, si raccollia; cioè s’accordi a la prima, Innata; cioè dentro nata nell’anima e posta naturalmente, v’è; cioè ne l’anima, la virtù che consillia; cioè la potenzia ragionevile, che à a consilliare la volontà di quel che dè volere e non volere, Che; cioè la quale potenzia ragionevile, dè tener la sollia; cioè la signoria, de l’assenso; cioè del consentimento de le seconde volontadi a la prima; cioè la ragione dè reggere e signoreggiare li secondi movimenti, sicchè non consentino se non quil che ditta la ragione. Questo è il principio; ora finge l’autore che Virgilio pogna la soluzione del dubbio; cioè che, benchè i primi movimenti non siano in nostra potenzia e non abbiano cagione di loda, nè di biasmo, l’assenso seguente è quel che merita o demerita; e però dice: Questo; cioè l’assenso, è il principio laonde; cioè dal quale, si pillia Ragion di meritare; cioè se consente quel che dè, in voi; cioè in voi; omini, segondo Che i buoni e i rei; cioè assentimenti, amor accollie; cioè rauna insieme, e villia; cioè lega insieme; cioè che se amore accollie e lega li buoni consentimenti insieme, allora si merita; e s’elli accollie e lega li riei consentimenti, allora si demerita. E così àe mostrato l’autore che pur naturalmente l’omo può meritare e demeritare, benchè la Teologia a questo adiunga che, secondo la nostra fede, benchè l’anima possa meritare e demeritare naturalmente, come dimostrato è; questo meritare e demeritare è o a loda, o a biasmo del mondo, oltra ’l quale non si stende la ragione umana che non vede che l’anima è perpetua et è creata da Dio ad esser perfetta, et esser non può perfetta se non ritorna a colui che li à dato l’essere; cioè a Dio ch’è prima cagione: e l’anima non può [p. 425 modifica]per sua virtù naturale montare tanto insù, ch’ella adiunga a Dio: con ciò sia cosa che sua virtù sia limitata e terminata: imperò che creatura, e non si può stendere che21 adiunga al creatore. E però, acciò che l’anima meriti Iddio, è bisogno che Iddio si faccia inverso l’anima e tirila a sè co la sua grazia, e così può meritare sofficientemente d’avere vita eterna, in quanto ella vollia e desideri d’essere così tirata, e dimandilo. Et a questo dice la Santa Scrittura, che prima è bisogno all’anima la grazia preveniente di Dio, la quale disponga l’anima a volere e dimandare la grazia illuminante, cooperante, e consumante, altramente non potrebbe meritare che vastasse a vita eterna. E però, benchè l’anima possa meritare alcuna cosa o demeritare per le pure naturali potenzie, non può sofficentemente meritare per esse vita eterna, se non sopra vegnano le grazie, le quali adiunte con quelle fanno meritare quelle; ma per sè medesma può bene demeritare l’anima per le suoe pure naturali potenzie, benchè a ciò22 aiutino le suggestioni diaboliche, e le istigazioni del mondo e de la carne, alcuna volta o tutte le più volte. E però disse Virgilio, come finse l’autore, che quanto ragione umana vede, li direbbe che non vasta; ma più su che la ragione umana vegga, dimandi la Santa Teologia.

C. XVIII — v. 67-75. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Virgilio, continuando lo suo ragionamento, dimostrò a Dante unde fu presa la Filosofia morale; cioè da questa innata libertà ch’è ne l’anima, dicendo cosi: Color; cioè quelli, che ragionando; cioè li quali filosofando, cioè investigando le cagioni naturali, andaro al fondo; cioè al primo principio, unde si prende cagione di meritare o demeritare; cioè all’assenso del libero arbitrio: imperò che se consente al buono movimento, e se vi si rattiene e stàvi fermo coll’ordine e modo dovuto, merita; e se fa lo contrario, demerita; e così se consente e tiensi e sta fermo nel rio movimento, che avviene quando s’inganna l’assenso del libero arbitrio, demerita ancora, S’accorsen; cioè s’aviddeno, d’esta innata libertate; cioè di questa naturale libertà, che à l’anima di consentire ai primi movimenti e di tenervisi e starvi ferma coll’ordine e col modo dovuto, o sconsentire e cessarli e levarsi da essi, Però moralità lassaro al mondo; cioè fenno arte e dottrina de le virtù morali, come si dovesseno acquistare; e de’ vizi, come si dovesseno fuggire. Et adiunge una conclusione che puose Virgilio per le cose dette innanti, dicendo: Onde; cioè per la qual cosa Virgilio disse, adiungendo al detto di sopra, pognam; cioè pognamo questo inconveniente, secondo la Teologia, benchè secondo la Filosofia paia vero; cioè che di necessitate; [p. 426 modifica]cioè che è necessario, Surga ogni amor; cioè nasca nell’anima, e levisi, che; cioè lo quale, dentro a voi s’accende; cioè dentro nell’anima si svellia, come ’l fuoco quando s’accende de la favilla che è sopita ne la cenere, Di ritenerlo; cioè lo ditto amore, o di lassarlo, in voi; cioè omini, è la potestate; cioè la potenzia; e fa Virgilio accorto Dante che, quando Beatrice li parlerà d’esta materia, tegna a mente che la chiama la libertà de l’arbitrio nobile virtù, e però dice Beatrice; cioè la Santa Scrittura, intende La nobile virtù Per lo libero arbitrio: imperò che così lo chiama, e però guarda; ecco che l’ammonisce, Che l’abbi a mente; cioè tu, Dante, se a parlar ti prende; cioè Beatrice. E qui finisce la prima lezione del canto xviii, et incominciasi la seconda.

La Luna quasi a terza notte ec. Questa è la seconda lezione del canto xviii, ne la quale l’autore nostro finge la purgazione del peccato dell’accidia; e come parlare uditte alcuna di quelle anime, e come entrò in diversi pensieri, sicchè s’addormentò. E dividesi questa lezione in parti sette, perchè prima descrive lo tempo, secondo Astrologia; ne la seconda finge che, avuta la risposta da Virgilio, stando sonnolento sentì grande turba venire di rieto a loro, quive: Perch’io, che la ragione ec.; ne la tersa finge che questa turba andava correndo, e dicendo certi esempli di sollicitudine contra il peccato dell’accidia, quive: Tosto fur sovra noi ec.; ne la quarta finge come Virgilio dimanda questa gente dov’è la via da montare suso, e come ella risponde, quive: O gente, in cui ec.; ne la quinta finge come uno di quelli spiriti si manifesta e prediceli alcuna cosa, quive: Io fui Abbate ec.; ne la sesta finge come due veniano ragionando, e co’ loro esempli biasmando l’accidia, quive: E quei che m’era ec.: ne la settima finge che, passate quelle ombre sopra venendo pensieri, s’addormentò, quive: Poi che furon da noi ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizioni litterali, allegoriche e morali.

C. XVIII — v. 76-84. In questi tre ternari lo nostro autore descrive lo tempo, secondo Astrologia, dicendo che allora quando questo ragionamento tra Virgilio e lui fu compiuto, la Luna ch’era passata già la quinta decima et era incominciata a mancare, sicchè lo suo scemo era inverso occidente e lo pieno verso oriente, era tanto scema che ’l suo orto era quasi al terso de la notte, e però dice: La Luna tarda; cioè a levarsi, quasi a terza notte; cioè quasi passata la tersa parte de la notte, Facea le stelle a noi parer più rade; cioè a Virgilio et a me Dante; e questo dice perchè, quando la Luna risplende col suo splendore, fa sparire le stelle piccule che non si vedeno; ma le grandi no; e però, non vedendosi se non le grandi, sparendo le piccule che sono in quil mezzo, paiano le stelle più rade che non paiano, quando si vedeno tutte, Fatta: dico la Luna, come [p. 427 modifica]un secchion; cioè come uno caldaione di ramo, che tuttor arda; cioè che tutta via arda: imperò che la forma de la Luna era allora come quando è meno che piena; cioè mezza o pogo più, sicchè era gibbosa. E correa contra ’l Ciel; cioè la Luna correa contra ’l primo mobile, come correno tutti li pianeti e l’ottava spera; cioè dall’occidente inverso oriente, ben che ’l primo mobile si tiri di rieto ogni contento dentro da sè, e roti sotto sopra in 24 ore da oriente ad occidente, per quelle strade; cioè per quelle vie, Che ’l Sol infiamma; cioè riscalda, allor che quel da Roma; cioè lo Romano, Tra i Sardi e i Corsi; cioè tra Sardigna e Corsica, il vede quando cade; cioè quando tramonta. Certo tempo dell’anno lo Sole tramonta ai Romani tra la Corsica e la Sardigna, et allora si leva nell’altro emisperio in quil sito che ai Romani tramonta, ch’è quando lo Sole è in Ariete; e così la Luna si leva in quel medesmo sito ne l’altro emisperio: imperò che la Luna, in fine che ella si fa mezza, sempre va di rieto al Sole; quando è mezza si leva per opposito, com’ella mancava innanti al Sole, tanto mancando la distanzia et approssimandosi a lui l’uno di’ più che l’altro che vegnano a coniunzione, e poi seguitandolo l’uno di’, si dilunga da lui più che l’altro tanto che vegnano ad opposizione; e così circularmente procede al modo primo. E descritto lo tempo; cioè ch’era quasi lo terso de la notte, dice: E quell’ombra gentil; cioè Virgilio, per cui; cioè per lo quale, si noma; cioè si nomina, Pietola; questa è una villa di Mantova de la quale nacque Virgilio, e però per Virgilio, di cui è tanta fama, è nominata quella villa, e però dice: più che villa mantovana: però ch’ella si nomina più, che tutte l’altre ville di Mantova, Dal mio carcar; cioè del mio carico, cioè del mio dubbio che mi caricava, deposta avea la soma; cioè avea posto giuso la gravessa, perch’elli avea dichiarato tutti li dubbi.

C. XVIII— v. 85-96. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che, standosi sonnolento, sentitte venire una grande turba d’anime di rietro a sè, che s’andavano purgando del peccato dell’accidia, dicendo così: Perch’io; cioè per la qual cosa io, che; cioè lo quale, la ragione aperta; cioè manifestata23 di Virgilio, e piana; cioè chiara et agevile, Sovra le mie questioni; le quali funno tre; cioè prima nel canto precedente qual peccato si purgava in questo girone; et in questo canto che cosa è amore; e poi che non parea l’anima meritare, nè demeritare, se l’amore era radice d’ogni atto virtuoso e vizioso; imperò che amore è naturale inclinazione de la volontà mossa dall’apprensiva de la cosa piacente, avea ricolta; cioè io Dante quella ragione, che Virgilio sopra a ciò avea assegnata, Stava [p. 428 modifica]com’ om che sonnolento vana; cioè vaneggia: ecco che fa similitudine che nel pensieri suo vaneggiava, come omo sonnolento. Ma questa sonnolenzia mi fu tolta; cioè a me Dante, Subitamente da gente, che dopo Le nostre spalle a noi era già volta; cioè io fui levato da la sonnolenzia da gente, che già venia di rieto su per lo balso. E qui si può movere uno dubbio; come finge l’autore che quella gente andasse, che era di notte, e sensa la grazia non si può procedere ne le buone operazioni; e la notte significa dipartimento de la grazia? A che si dè rispondere che, come è ditto di sopra, di notte si può andare intorno al monte per li gironi e descendere; ma non montare: imperò che descendere è mancare da la virtù, et a questo non fa bisogno la grazia: chè questo possiamo per noi medesmi andare intorno e contenersi nel primo stato. E questo si può fare per la grazia già ricevuta; ma montare non si può sensa nuova grazia: e, come è stato ditto, questo s’intende di quelli del mondo, che sono in atto di penitenzia, allegoricamente e veramente: imperò che di quelli del purgatorio parla poeticamente e fittivamente: imperò che a loro non è mai notte. E fa una similitudine, dicendo che questa gente andava in furia e in caccia, come andavano li Tebani lungo li loro fiumi; cioè Ismeno et Asopo, quando faceano sacrificio a Baco24 loro iddio, per avere dell’acqua per le loro vigne, dicendo così: E quale furia e calca Ismeno et Asopo; che sono due fiumi in quello di Tebe, già vidde Lungo di sè di notte: imperò che di notte, lungo li ditti fiumi, andavano li Tebani correndo e cantando le lode di Baco, quando voleano che piovesse; e però dice: Pur che i Teban di Baco avesser uopo; cioè bisogno de la deità di Baco, a dare loro dell’acqua per le loro vigne: imperò che quando volean altro, andavano a fare lo sacrificio vestiti di pelle co l’aste in mano su per lo monte Citeron e co le fiacule, per ch’era di notte. Bacco era nato di Tebe; cioè di Semele tebana e di Giove, e però li Tebani aveano devozione in lui, et a lui ricorreano per tutte le cose et in tutti li loro bisogni, facendo li loro sacrifici di notte, e con naccari, tamburi et altri istrumenti, e con aste in mano e vestiti di pellicce, come ditto è, facendo atti furiosi, et atti disonesti di lussuria, come fa fare la briachessa; unde Salomone: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria — , Tale; cioè furia, o vero calca, falca; cioè piega, suo passo per quel giron; cioè quarto, dove si purgava l’accidia, Per quel ch’io; cioè Dante, viddi di color; cioè di quelli spiriti, venendo; cioè di rieto a noi, Cui; cioè de li quali, buon voler; cioè buona volontà, il giusto amor cavalca; cioè signoreggia: imperò che si lassa signoreggiare lo buono volere dal giusto amore. Finge l’autore che [p. 429 modifica]queste anime si purgavano del peccato dell’accidia, correndo continuamente su per lo balso in giro sensa avere riposo; e che due vadino inanti, commendando la solicitudine, e due di rieto biasmando l’accidia con esempli che adduceano li primi pro, e li ultimi contra; et andavano piangendo e tutti andavano gridando che ’l tempo non si perda; ma la sollicitudine acquisti grazia, Queste pene convenienti sono, secondo25 la grazia, a purgare lo peccato dell’accidia: imperò che accidia è tristizia, o vero rincrescimento, o vero lentezza in desiderare et acquistare lo sommo bene; e di questa fu ditto a sufficenzia ne la prima cantica. Ben si conviene per ristoro che chi è stato lento in operare lo bene, volendo ristorare corra; e che gridi contra ’l vizio suo, biasmandolo; e che pianga per lo suo peccato, avendone debita contrizione; e che consideri li beni che àe già fatto la sollicitudine del bene operare, e li mali che àe indutto la lentessa, notando li esempli de la Santa Scrittura e de li autori, come finge l’autore nel testo. E queste medesme pene allegoricamente si convegnano a quelli del mondo, che sono in stato di penitenzia, volendo sodisfare per lo ditto peccato, dei quali l’autore intende: chè di quelli del purgatorio parla come poeta, fingendo; e di questi del mondo parla come maestro, insegnando.

C. XVIII — v. 97-105. In questi tre ternari lo nostro autore finge che quella turba, iunta a loro, avesse du’ inanti che diceano esempli di solicitudine al ben fare: imperò che, ritraendosi da l’accidia et inducendosi a la solicitudine, si purga lo peccato dell’accidia; e però dice: Tosto fur sovra noi; cioè le ditte anime, che si purgavano del peccato dell’accidia, tosto26 adiunseno noi; et assegna la cagione: perchè correndo, Si movea tutta quella turba magna: questa è sufficente cagione che s’elli correano, e Dante e Virgilio non andavano; ma stavano, tosto doveano iunger sovra di loro. E du’ dinanzi gridavan piangendo; ecco che finge che du’ inanti andasseno gridando con pianto esempli di solicitudine; cioè: Maria corse con fretta a la montagna; questo è l’esemplo de la Virgine Maria, madre del nostro signore Gesù Cristo, la quale ammonita dall’angiulo che dovesse fuggire col suo filliuolo in Egitto, perchè Erode cercava d’ucciderlo, subitamente sensa alcuno indugio montò in su l’asino col fanciullo in collo, e Giosef l’accompagnò, et andonno in verso li monti d’Egitto e passonno di là, sicchè uccidendo Erode l’infanti da du’ anni in giù per uccidere Cristo, nolli venne fatto per la solicitudine de la Vergine Maria; e questo è esemplo, che a ben fare non si dè dare indugio. E Cesari, per suggiugar Ilerda; ecco che [p. 430 modifica]induce uno altro esemplo de le storie romane, lo quale scrive Lucano nel libro iii, dicendo che, poi che Cesari ebbe perseguitato Pompeio in fine a le fine d’Italia, e cacciatolo d’Italia, sentendo che in Ispagna Petreio et Affranio tenevano una città che si chiamava Ilerda per lo senato, e tutta l’altra parte occidentale era a sua devozione, con tutto lo suo esercito se n’andò tostamente in Ispagna con tanta festinanzia, che sarebbe vastato ad uno corrieri non che ad uno duca co l’esercito; e pervenuto a Marsilia27, e lassòvi Bruto per capitano e suo vicario de l’esercito, che arrecasse lo fatto di Marsillia a fine, et elli se n’andò in Ispagna et in breve tempo acquistò Ilerda e tutta la Spagna, e vennesene a Roma, et in quil mezzo Bruto combattette coi Marsilliesi. E vinto prima Bruto in terra, arrecatosi poi a combattere con loro in mare, li sconfisse e subiugolli a Cesari, sicchè tutta la parte occidentale rimase poi libera sotto la signoria di Cesari. E queste cose funno fatte con grande sollicitudine, e però finge l’autore che quelli du’ dinanti raccontasseno questo esemplo, che fu di grande sollicitudine; e però dice: e Cesari; cioè Giulio Cesare che fu lo primo imperadore de’ Romani, dal quale tutti li altri imperadori sono nominati Cesari, per suggiugar Ilerda; cioè quella città ch’è in Ispagna, Punse Marsillia: imperò che l’assediò e lassolla assediata a Bruto, e poi corse in Ispagna; cioè, poi che ebbe punto Marsillia, se n’andò in Ispagna ad Ilerda. Ratto, ratto; diceano quelle due anime, sollicitando l’altre; cioè: Andate, che ’l tempo non si perda; finge questo l’autore, per mostrare la grande buona vollia dell’anime che si purgano; ma nel purgatorio non si può perder tempo; ma elli lo dice allegoricamente, insegnando come quelli del mondo debeno solicitare l’uno l’altro, per uscire del peccato dell’accidia, Per poco amor; ecco la cagione che fa li omini pigri al bene; cioè lo poco amore; ma mellio è che s’intenda pur delli altri e non di quelli primi du’, e però si può dire: gridavan li altri; cioè l’altre anime ch’erano di rieto, appresso; cioè di po ’l dire dei du’ primi gridavano li altri, sollicitando: Ratto ratto andiamo a la nostra purgazione, sicchè ’l tempo non si perda per poco amore, come si perdette nel mondo, Che studio di ben far; cioè sicchè lo studio; cioè la solicitudine del ben fare, grazia rinverda; cioè rinnuovi e rinvigorisca in noi la grazia di Dio: imperò che, quanto più ben s’aopera, tanto più crescie28 la grazia: ogni fervore di carità acquista grazia nuova; e così cresce la grazia, come cresce la carità.

C. XVIII — v. 106-117. In questi quattro ternari lo nostro [p. 431 modifica]autore finge come Virgilio dimandò quelli spiriti de la via da montare suso; e come rispuoseno, dicendo: O gente; ecco che parla Virgilio a quella gente, et incomincia lo senno nel tersio ternario; cioè: Parole furon queste del mio Duca; cioè di Virgilio dicente: O gente, in cui; cioè ne la quale, fervore acuto; cioè amore fervente, adesso; cioè ora, Ricompie forse; cioè ristora, negligenzia e indugio messo Da voi in ben far per tepidezza; cioè per negligenzia: ecco che àe manifestato la loro condizione, Questo, che vive; cioè Dante (certo; cioè certamente, io non vi bugio; cioè io Virgilio non vi dico bugia) Vuol andar su; cioè all’altro balso, purchè il Sol ne riluca; cioè pur che ’l Sol si levi, secondo la lettera, non aspetta altro: però che di notte non si può montare; ma secondo l’allegoria s’intende de la grazia di Dio illuminante, sensa la quale non si può fare niuna buona opera. Però ne dite; cioè dite a noi, onde è presso il pertugio; cioè la via da sallire suso. Et un di quelli spirti; cioè che correano, disse: Vieni Di rieto a noi; ecco la risposta che li fu renduta, e troverai la buca; cioè la via da ir suso: però che noi andiamo in verso u’ ella è; et adiunge la scusa, dicendo: Noi siam di vollia a muoverci sì pieni; cioè noi siamo sì volontarosi d’andare a purgare la nostra negligenzia, Che restar non potem; cioè non possiamo restar, però perdona; tu, che ci ài di mandato, Se villania nostra giustizia tieni; cioè se tu reputi nostra emenda, che noi facciamo per iustizia e per debito che non ci possiamo restare, esser villania.

C. XVIII — v. 118-129. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che una di quelle anime, così correndo in fugga, li si manifestasse, dicendo: Io fui Abbate in San Zeno a Verona; questi fu uno abbate di San Zeno da Verona, ch’è ricco monastero e di grande dignità, e non abbo trovato lo nome suo: fu omo pigro e negligente in ben fare, perchè l’autore finge che purghi lo suo peccato dell’accidia in questo luogo; e trovossi abbate al tempo, che lo imperadore Federico Barbarossa assediò Melano e disfecelo et arrecòlo a borghi; e però dice: Sotto lo imperio del buon Barbarossa; ben dice buono: imperò che tra l’altre buone cose, ch’elli ebbe in sè, fu che non fu avaro di pecunia, come appare ne la prima cantica, Di cui; cioè del quale, dolente ancor Melan; perchè non era anco rifatto, ragiona: imperò che i Melanesi ànno cagione di ragionare di lui, perchè disfece la loro città; e la cagione fu questa che, venendo lo detto imperadore Federigo Barbarossa per incoronarsi a Melano, li Melanesi non volseno ricevere; unde lo detto imperadore vi puose l’assedio con aiuto de’ ghibellini di Toscana nel 1249, addi’ 18 d’Agosto et ebbelo: chè s’arrendette a lui addi’ 8 di Settembre nel ditto anno, e lo ditto di’ si coronò. E poi in quel medesimo anno si ribellò [p. 432 modifica]dal detto imperadore Melano, Brescia, Piagenzia e Cremona; per la qual cosa, tornato lo ditto imperadore de la Magna nel 1261, disfece Melano e l’altre tre suprascritte et arsele; de la qual cosa si dolse tutta Lombardia, non che Melano. E tal à già l’un piede entro la fossa; cioè è già prossimano a la morte, perchè è vecchio. Questi fu messere Alberto de la Scala signore di Verona lo quale, avendo uno suo filliuolo bastardo sciancato e rio, lo fece fare abbate del ditto monasterio: e però finge l’autore che quell’anima parlasse, andando, di lui lo quale non era anco morto, quando l’autore finse che avesse questa imaginazione. Che; cioè lo quale, tosto piangerà quel monastero: imperò che fi’ punito da Dio d’avervi posto sì fatto abbate, E tristo fi’ d’avervi avuta possa: imperò che ne patirà pena; e dice tosto, perchè tosto morrà, e di po’ la morte porterà la pena; et assegna la cagione. Perchè; cioè imperò che, il suo fillio; cioè del ditto messere Alberto de la Scala, mal del corpo intero: questo dice, perch’era sciancato, E de la mente peggio: imperò che era più sciancato de la mente che del corpo, e che mal nacque: imperò che nacque d’adulterio, A posto in loco di suo pastor vero; e forsi che vel puose di fatto, sensa l’autorità apostolica, poi che l’autore usa le suddette parole; o forsi lo dice l’autore, perchè non operò quello abbate quello, che dè operare lo vero abbate. Dice ora l’autore, Io; cioè Dante, non so, se più disse; cioè quello spirito, che andava correndo: imperò che la distanzia non mel lassò udire, o poi si tacque; cioè non so, se poi si tacque quando fu ito oltre. Tant’era già di là da noi trascorso; ch’io noi potei più intendere, Ma questo intesi; io Dante, e ritener mi piacque; per scriverlo poi29, che com’io l’abbo scritto. E questa finzione àe fatto l’autore, secondo la lettera, assai verisimile e moralmente: perchè queste non sono cose note per li autori, però finge che l’abbia detto quell’anima.

C. XVIII — v. 130-138. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Virgilio li dimostrò30 due che veniano diritto, dando esempli dissuasori dell’accidia, mostrando lo danno che ne seguità31, dicendo: E quei che m’era ad ogni opo; cioè ad ogni bisogno, soccorso; cioè Virgilio, che sempre mi soccorrea a’ miei bisogni, Disse; cioè a me Dante: Volgeti qua; ecco che la ragione fa accorta la sensualità a considerare li esempli, che sono suasori a schifare l’accidia, e viddi due; cioè di quelle anime, Venir dando all’accidia di morso; cioè riprendendola; e questo è mordere l’accidia; cioè riprenderla, mostrando per esempli quanto ella è nocevile. Di rieto a tutti: imperò che li [p. 433 modifica]esempli confortativi a la carità puose che dicesseno quelli che andavano inanti, ora finge che coloro che diceano li esempli dissuari da l’accidia venisseno di rieto; e questo finge l’autore acconciamente, secondo la lettera, di quelli del purgatorio: imperò che nel peccato non possano più cadere, imperò che sono già in grazia. È pur loro necessario d’accrescere la carità e l’amore del bene operare, et oltra questo avere pentimento e dolore del tempo perduto nel mondo, sicchè la carità va loro inanti: imperò che sempre cresce e crescerà quanto potranno li meriti acquistati in questa vita per la grazia di Dio, sicchè sempre andrà inanti, e li esempli dissuasori del peccato vegnano di rieto: però che finita la penitenzia e la purgazione, finirà lo dolore e la contrizione, sicchè rimarrà adrieto. E per quelli del mondo è vera finzione: imperò che inanti va la grazia preveniente, e poi la illuminante che c’illumini: quanto è grandissimo bene la virtù contraria al nostro vizio, e tirici a l’amore di quella, unde poi seguita lo pentimento del vizio co la contrizione; e però in tutti li passati à tenuto l’autore questo ordine; cioè prima, posto li esempli suasori a la virtù contraria, e poi li dissuasori dal vizio, e finge che dicessono quelle due anime prima lo esemplo del populo d’Israel, secondo la Santa Scrittura: e poi l’esemplo dei Troiani, secondo Virgilio, dicendo così: dicean; cioè quelli due, Prima fue Morta la gente; cioè d’Israel, a cui; cioè al qual populo d’Israel, il mar s’aperse; cioè lo mare rosso, Che vedesser Giordan; cioè lo fiume Giordano, l’eredi sue; cioè che il populo crede de la ditta gente vedesse lo fiume Giordan, che era in terra di promissione. Questa è istoria nota de la Bibbia; cioè che quando piacque a Dio di liberare lo populo d’Israel, che era sotto la servitù di Faraone in Egitto, comandò a Moisè che andasse a Faraone e comandasseli che non opprimesse lo populo suo; e non rimanendosene per li segni, che Moisè li mostrava per la virtù di Dio: imperò che ’l cuor di Faraone era indurato, li fe fuggire una notte co le massarizie preziose de li Egizi che aveano accattate, percossi con morte tutti li progeniti d’Egitto. E pervenuti al mare rosso, perchè Faraone col suo esercito li perseguitava, percosse Moisè lo mare; e divise l’acque, come due muri stetteno ferme da ogni lato, e passonno per lo mare come per terra secca; e Faraone, intrato nel mare col suo esercito, fu coperto dall’acqua et affogato. E pervenuto questo populo ingrato nel diserto, che era via di xl giornate, tanto fu pigro e contenzioso in verso Iddio, che 40 anni stette nel diserto notricato da Dio co la manna; e per lo suo peccato tutti quelli, che uscitteno d’Egitto, moritteno nel diserto, e niuno pervenne in terra di promissione, se non li eredi loro nati nel diserto, come dice l’autore nel testo. E quella; cioè gente; ecco lo secondo esemplo, che pone Virgilio dei Troiani [p. 434 modifica]che venneno con Enea in Italia, nel v de l’Eneidi: imperò che quando Enea, pervenuto in Sicilia, facea l’annuale d’Anchise suo padre, arseno quattro galee, o vero navi, appresosi lo fuoco nel navilio; unde molti Troiani volseno rimanere in Sicilia e non volseno procedere più oltra. E così per loro pigrezza, che ebbeno in sostener le fatiche, perdetteno che non funno poi partecipi de la gloria dei Romani: imperò che rimaseno in Sicilia e non funno co loro; e però dice: che; cioè la qual gente, l’affanno; del navigare, del combattere, non sofferse; cioè non sostenne, Fino a la fine; cioè in fin che si pervenne dov’è ora Roma, et acquistòsi Lavino, overo Laurento, overo Lauro Lavinio: imperò che la città del re Latino fu chiamata prima Lavinio dal nome di Lavinio, fratello del re Latino; e poi Laurento; per lo Lauro ch’era sacrato ad Apolline ne la rocca: e poi Lauro Lavinia da Lauro, e Lavinia filliuola del re Latino, col filliuol d’Anchise: cioè con Enea che fu filliuolo d’Anchise troiano, che guidò li Troiani in Italia, Sè stessa a vita senza gloria offerse; cioè diede sè medesma a voler vivere sensa gloria, rimanendosi in Sicilia per non patire più affanno: e il Savio dice: Absque labore gravi nil magnum dedit vita mortalibus.

C. XVIII — v. 139-145. In questi due ternari et uno versetto finge lo nostro autore come s’addormentò, sopra venendo nuovi pensieri, dicendo così: Poi che furon da noi tanto divise; cioè le suprascritte anime che andavano correndo, purgandosi del peccato dell’accidia; e però dice: Quell’ombre: cioè anime; perchè l’anima si chiami ombra è stato ditto di sopra, che veder più non potersi; cioè da me e da Virgilio, Nuovo pensier dentro da me; cioè ne la mente di me Dante, si mise; questo nuovo pensieri fu la nuova materia, de la quale pensava di trattare in giù mai: imperò che assai avea ditto dell’accidia, sicchè ingiummai pensava di trattare de la avarizia. E perche di sopra àe finto che di notte non si possa montare, però finge che s’addormentasse in questi pensieri, non potendo sallire32 a nuova materia, infine che non finge che sia venuto lo di’; e però pensava che ordine e che modo dovesse tenere in fingere questo. E sopra questo finge che s’addormentasse, per mostrare la imaginazione sua informare una imagine, che li apparisse nel sogno, che significasse lo vizio di che dè trattare, de la quale dirà nel seguente canto; e però dice: Del qual; cioè pensieri, più altri; cioè pensieri, nacquero; da quello33 che ditto è, e diversi; ancora da quello. E nota che altri importa diversità inaccennate e diversi, in substanzia; e però puose l’autore l’uno e l’altro. E tanto d’uno in altro vaneggiai; cioè andai discorrendo, non fermandomi sopra [p. 435 modifica]alcuno, Che li occhi per vaghezza ricopersi; cioè per la34 solicitudine dei pensieri vaganti qua e là venne lo sonno, et io m’addormentai; e però dice che ricoperse li occhi: quando l’omo dorme, li occhi si chiudono. Diceno li Savi che le cure de le solicitudini riscaldano lo cerebro35 e fanno resoluzione umorosa, per la quale viene lo sonno, sì veramente che la calefazione non sia troppa: imperò che allora diseccherebbe lo cerebro35, non potrebbe dormire. E ’l pensamento in sogno tramutai; questa specie di sonni si chiama insomnio da Macrobio, Super somnio Scipionis; quando per lo pensieri e per le cure, che l’omo àe mentre che vegghia, l’animo addormentato in quelle medesme si ritrova. Dei sogni fu detto da me ne la cantica prima, e però non replico qui. Seguita lo canto xix, finito lo canto xviii.

Note

  1. Le tuoe parole — ad — Ogni — è sostituzione dal Cod. Magliabechiano. E.
  2. C. M. là; et un altro segno è del parlare; cioè che si comprende nelle parole, e di questo non s’intende ora. Et io;
  3. C. M. del bene operare
  4. C. M. questa nobilità
  5. C. M. la sua apprensiva, e ’l senso comune à la sua apprensiva ec.; ma
  6. C. M. Ora dimostra
  7. C. M. per lo quale
  8. vv. 34-39. Torquato Tasso nelle sue Considerazioni sopra le canzoni del Pigna, ricordando questi versi, ragiona così «Chiama qui Dante materia; cioè cagion materiale, la bellezza che è oggetto generante l’amore, perchè sebbene, secondo i Peripatetici, l’oggetto è cagione produttrice; nondimeno è dottrina de’ Platonici, ai quali per avventura Dante ebbe in questo luogo riguardo, che l’anima sia cagione effettiva di quegli atti, ch’ella intorno all’oggetto, quasi in sua materia produce. Non è dubbio che l’amore non segua la cognizione, e non sia in alcun modo effetto di quella; onde il bello quanto è più conosciuto, tanto è più amato; e meno, quanto meno». E.
  9. C. M. cattivo
  10. C. M. li atti de la potenzia concupiscibile sono inverso lo bene dilettevile, o di placenzia,
  11. C. M. displicenzia:
  12. C. M. d’altrui
  13. C. M. li atti della virtù concupiscibile sono displicenzia, o sono del bene,
  14. So; sono è voce proveniente dall’infinito sere ed è comune a parecchi antichi, ed al popolano favellare. Nel secondo dell’Eneide l’Ugurgeri tradusse «per la voluntà delli Dei so portato nelle fiamme». E.
  15. C. M. se è presente o assente, la displicenzia
  16. C. M. presente, o vero assente appreso: tristizia
  17. C. M. oppognansi
  18. C. M. ma imprimamente, come ditto
  19. Corretto col Magliab. da — che dà — infino — de la quale. E.
  20. Sape; desinenza primitiva e regolare dall’infinito sapere. E.
  21. C. M. stendere tanto che aggiunga
  22. C. M. a ciò invitino le
  23. C. M. manifesta da Virgilio,
  24. Baco e Bacco truovasi negli antichi e nel verso e nella prosa. E.
  25. C. M. secondo la lettora, a
  26. C. M. tosto giunseno a noi, o vero aggiunseno
  27. C. M. a Marsillia; e trovato che i Marsiliesi volevano obedire lo senato, e non lui, assediò Marsilia e lassòvi Bruto
  28. C. M. cresce
  29. C. M. poi qui, com’io abbo
  30. C. M. li mostrò
  31. Seguità; antica inflessione della terza persona singolare del perfetto nei verbi della prima coniugazione. E.
  32. C. M. salire
  33. C. M. da quello. E tanto
  34. C. M. per sollicitudine
  35. 35,0 35,1 C. M. celebro,
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