Atto primo

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Interlocutori Atto secondo
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ATTO PRIMO

SCENA I

Parte solitaria de’ giardini interni degli appartamenti reali.

Berenice, Ismene.

Ismene. No; tutto, o Berenice,

tu non apri il tuo cor: da piú profonde
recondite sorgenti
derivano i tuoi pianti.
Berenice.   E ti par poco
quel che sai de’ miei casi? Al letto, al trono
del padre tuo vengo d’Egitto: appena
questa reggia m’accoglie, ecco geloso
per me del figlio il genitore; a mille
sospetti esposta io senza colpa, e senza
delitto il prence ecco in esilio. E questo
de’ miei mali è il minor. Sente Alessandro
che, a lui negata, in moglie
Antigono m’ottiene; e, amante offeso,
giovane e re, l’armi d’Epiro aduna,
la Macedonia inonda, e al gran rivale
vien regno e sposa a contrastar. S’affretta
Antigono al riparo, e m’abbandona
sul compir gl’imenei. Sola io rimango,
né moglie, né regina,

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in terreno stranier; tremando aspetto

d’Antigono il destin; penso che privo
d’un valoroso figlio
ne’ cimenti è per me; mi veggo intorno
di domestiche fiamme e pellegrine
questa reggia avvampar; so che di tanti
incendi io son la sventurata face;
e non basta? e tu cerchi
altre cagioni al mio dolor?
Ismene.   Son degni
questi sensi di te; ma il duol, che nasce
sol di ragion, mai non eccede, e sempre
il tranquillo carattere conserva
dell’origine sua. Quelle, onde un’alma
troppo agitar si sente,
son tempeste del cor, non della mente.
Berenice. Come! d’affetti alla ragion nemici
puoi credermi capace?
Ismene.   Io non t’offendo,
se temo in te ciò che in me provo. Anch’io
odiar deggio Alessandro,
nemico al padre, infido a me: vorrei,
lo procuro, e non posso.
Berenice.   E ne’ tuoi casi
qual parte aver degg’io?
Ismene. Come Alessandro il mio, Demetrio forse
ha sorpreso il tuo cor.
Berenice.   Demetrio! Ah! donde
sospetto sí crudel?
Ismene.   Dal tuo frequente
parlar di lui, dalla pietá che n’hai,
dal saper che in Egitto
ti vide, t’ammirò; ma, piú che altronde,
dagli sdegni del padre.
Berenice.   Ei non comincia
oggi ad esser geloso.

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Ismene.   È ver, fu sempre

questo misero affetto
d’un eroe cosí grande il sol difetto.
Ma è vero ancor che l’amor suo, la speme
era Demetrio; e che or lo scacci a caso,
credibile non è. Chi sa? Prudente
di rado è amor: qualche furtivo sguardo,
qualche incauto sospir, qualche improvviso
mal celato rossor forse ha traditi
del vostro cor gli arcani.
Berenice.   Un sí gran torto
non farmi, Ismene. Io, destinata al padre,
sarei del figlio amante?
Ismene.   Ha ben quel figlio
onde sedur l’altrui virtú. Finora
in sí giovane etá mai non si vide
merito egual: da piú gentil sembiante
anima piú sublime
finor non trasparí. Qualunque il vuoi,
ammirabile ognor, principe, amico,
cittadino, guerrier...
Berenice.   Taci: opportune
le sue lodi or non son. De’ pregi io voglio
sol del mio sposo ora occuparmi. A lui
mi destinâr gli dèi;
e miei sudditi son gli affetti miei.
Ismene.   Di vantarsi ha ben ragione,
     del suo cor, de’ propri affetti
     chi dispone — a suo piacer.
          Ma in amor gli altèri detti
     non son degni assai di fede:
     libertá co’ lacci al piede
     vanta spesso il prigionier. (parte)

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SCENA II

Berenice, poi Demetrio.

Berenice. Io di Demetrio amante! Ah! voi sapete,

numi del ciel, che mi vedete il core,
s’io gli parlai, s’ei mi parlò d’amore.
L’ammirai; ma l’ammira
ognun con me: le sue sventure io piansi;
ma chi mai non le pianse? È troppo, è vero,
forse tenera e viva
la pietá che ho di lui; ma chi prescrive
limiti alla pietá? chi può... Che miro!
Demetrio istesso! Ah! perché viene? ed io
perché avvampo cosí? Principe, e, ad onta
del paterno divieto, in queste soglie
osi inoltrarti?
Demetrio. (con affanno) Ah! Berenice; ah! vieni;
fuggi, siegui i miei passi.
Berenice.   Io fuggir teco!
Come? dove? perché?
Demetrio.   Tutto è perduto;
è vinto il genitor; son le sue schiere
trucidate o disperse. Andiam: s’appressa
a queste mura il vincitor.
Berenice.   Che dici!
Antigono dov’è?
Demetrio.   Nessun sa darmi
nuova di lui. Ma, se non vive il padre,
tremi Alessandro: il sangue suo ragione
mi renderá... Deh! non tardiam.
Berenice.   Va’: prendi,
principe generoso,
cura di te. D’una infelice a’ numi
lascia tutto il pensier.

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Demetrio.   Che! sola in tanto

rischio vuoi rimaner?
Berenice.   Rischio piú grande
per la mia gloria è il venir teco. Avrebbe
l’invidia allor per lacerarne alcuna
apparente ragion. Giá il tuo ritorno
ne somministra assai. Parti; rispetta
del padre il cenno e l’onor mio.
Demetrio.   Non bramo
che conservarti a lui,
vendicarlo e morir. Soffri ch’io possa
condurti in salvo; e non verrò, lo giuro,
mai piú sugli occhi tuoi.
Berenice.   Giurasti ancora
l’istesso al re.
Demetrio.   Disubbidisco un padre,
ma per serbarlo in vita. Ei non vivrebbe,
se ti perdesse. Ah! tu non sai qual sorte
d’amore inspiri. Ha de’ suoi doni il cielo
troppo unito in te sola. Ov’è chi possa
mirarti e non languire?
perderti, Berenice, e non morire?
Berenice. Prence! (severa)
Demetrio.   (Che dissi mai!)
Berenice. (con severitá) Passano il segno
queste premure tue.
Demetrio.   No; rasserena
quel turbato sembiante:
son premure di figlio, e non d’amante.
Berenice. Non piú: lasciami sola.
Demetrio.   Almen...
Berenice.   Non voglio
udirti piú.
Demetrio.   Ma qual delitto...
Berenice.   Ah! parti:
Antigono potrebbe

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comparir d’improvviso. Ah, qual saria,

giungendo il genitore,
il suo sdegno, il tuo rischio, il mio rossore!
Demetrio. Dunque...
Berenice.   Né vuoi partir?
Demetrio.   Dunque a tal segno
in odio ti son io...
Berenice. Fuggi! ecco il re.
Demetrio.   Non è piú tempo.
Berenice.   Oh Dio!

SCENA III

Antigono, con séguito di soldati, e detti.

Antigono. (non vede ancora Demetrio)

(Eccola: in odio al cielo
tanto non sono. Ho Berenice ancora:
il miglior mi restò). Sposa... Ah, che miro!
Qui Demetrio, e con te! Dunque il mio cenno
ubbidito è cosí?
Berenice. (confusa) Signor... Non venne...
Udí... Mi spiegherò.
Antigono.   Giá ti spiegasti,
nulla dicendo. E tu, spergiuro...
Demetrio.   Il cenno,
padre, s’io violai...
Antigono.   Parti.
Demetrio.   Ubbidisco.
Ma sappi almeno...
Antigono.   Io di partir t’impongo,
non di scusarti.
Demetrio.   Al venerato impero
piego la fronte.
Berenice.   (Oh genitor severo!)

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Demetrio.   A torto spergiuro

     quel labbro mi dice:
     son figlio infelice,
     ma figlio fedel.
          Può tutto negarmi;
     ma un nome sí caro
     non speri involarmi
     la sorte crudel. (parte)

SCENA IV

Antigono, Berenice, e poi di nuovo Demetrio.

Berenice. (Povero prence!)

Antigono.   Or perché taci? Or puoi
spiegarti a tuo talento. I miei gelosi
eccessivi trasporti
perché non mi rinfacci? Ingrata! Un regno
perder per te non curo: è gran compenso
la sola Berenice
d’ogni perdita mia; ma un figlio, oh dèi!
ma un caro figlio, onde superbo e lieto
ero a ragion, perché sedurmi, e farne
un contumace, un disleal? Sí dolce
spettacolo è per te dunque, crudele,
il vedermi ondeggiar fra i vari affetti
di padre e di rival?
Berenice.   Deh! ricomponi,
signor, l’alma agitata. Io la mia destra
a te promisi, e a seguitarti all’ara
son pronta, ove ti piaccia. Il figlio è degno,
se mai lo fu, dell’amor tuo. Non venne
che a salvarmi per te; né dove io sono,
mai piú comparirá.
Demetrio. (uscendo) Padre!

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Antigono.   E ritorni

di nuovo, audace?
Demetrio. (affannato) Uccidimi, se vuoi;
ma salvati, signor. Nel porto è giunto
trionfando Alessandro, e mille ha seco
legni seguaci. I tuoi fedeli ha vòlto
tutti in fuga il timor. Piú difensori
non ha la reggia o la cittá: se tardi,
preda sarai del vincitor. Perdona
se violai la legge: era il salvarti
troppo sacro dover; ma sfortunato
a tal segno son io,
che mi costa un delitto il dover mio.
  (torna a partire)
Berenice. (Che nobil cor!)
Antigono.   Se di seguir non sdegni
d’un misero il destin, da queste soglie
trarti poss’io per via sicura.
Berenice.   È mia
la sorte del mio sposo.
Antigono.   Ah! tu mi rendi
fra’ disastri beato. Andiam... Ma Ismene
lascio qui fra’ nemici? Ah! no: si cerchi...
Ma può l’indugio... (dubbioso)
(risoluto alle guardie) Io con la figlia, amici,
vi seguirò: voi cauti al mar frattanto
Berenice guidate. Avversi dèi,
placatevi un momento, almen per lei.
          È la beltá del cielo
     un raggio che innamora,
     e deve il fato ancora
     rispetto alla beltá.
          Ah! se pietá negate
     a due vezzosi lumi,
     chi avrá coraggio, o numi,
     per dimandar pietá? (parte)

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SCENA V

Berenice sola.

E, fra tante tempeste,

che sará di Demetrio? Esule, afflitto,
chi sa dove lo guida... Aimè! non posso
dunque pensar che a lui? Dunque fra’ labbri
sempre quel nome ho da trovarmi? Oh Dio!
che affetto è mai, se non è amore il mio?
          Io non so se amor tu sei,
     che penar cosí mi fai;
     ma, se amor tu fossi mai,
     ah! nasconditi nel sen.
          Se di nascermi nel petto
     impedirti io non potei,
     a morirvi ignoto affetto
     obbligarti io voglio almen.
  (parte, accompagnata dalle guardie)

SCENA VI

Gran porto di Tessalonica con numerose navi, da alcune delle quali al suono di bellicosa sinfonia sbarcano i guerrieri d’Epiro e si dispongono intorno. Ne scende dopo di essi Alessandro, seguito da nobil corteggio.

Alessandro dalle navi, Clearco da un lato della scena.

Clearco. Tutto alla tua fortuna

cede, o mio re. Solo il tuo nome ha vinto:
Tessalonica è tua. Mentre venisti
tu soggiogando il mar, trascorsi invano
con le terrestri schiere
io le campagne intorno. Alcun non osa

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mirar da presso i tuoi vessilli; e sono

sgombre le vie di Macedonia al trono.
Alessandro. Oh, quanto a me piú caro
il trionfo saría, se non scemasse
della sorte il favore
tanta parte di merto al mio sudore!
Ma d’Antigono avesti
contezza ancor?
Clearco.   No: estinto
per ventura ei restò.
Alessandro.   Dunque m’invola
la fortuna rubella
la conquista maggior.
Clearco.   Non la piú bella:
Berenice è tua preda.
Alessandro.   È ver?
Clearco.   Sorpresa
fu da me nella fuga. I tuoi guerrieri
or la guidano a te: di pochi istanti
io prevenni i suoi passi.
Alessandro.   Ah! tutti or sono
paghi i miei voti: a lei corriam.
Clearco.   T’arresta:
odo strepito d’armi.

SCENA VII

Ismene affannata, indi Antigono difendendosi
da’ soldati d’Epiro, e detti.

Ismene.   Il padre mio

deh! serbami, Alessandro.
Alessandro.   Ov’è?
Antigono. (difendendosi) Superbi,
ancora io non son vinto.

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Alessandro.   Olá! cessate

dagl’insulti, o guerrieri; e si rispetti
d’Antigono la vita.
Antigono.   Infausto dono
dalla man d’un nemico!
Alessandro.   Io questo nome
dimenticai, vincendo. Hanno i miei sdegni
per confine il trionfo.
Antigono.   E i miei non sono
spoglia del vincitor. Ma Berenice,
oh dèi! vien prigioniera. A questo colpo
cede la mia costanza.

SCENA VIII

Berenice fra custodi, e detti.

Berenice.   Io son, lo vedo,

fra’ tuoi lacci, Alessandro, e ancor nol credo.
A’ danni di chi s’ama, armar feroce
i popoli soggetti
è nuovo stil di conquistare affetti.
Antigono. (Mille furie ho nel cor.)
Alessandro.   Guardami in volto,
principessa adorata, e dimmi poi
qual piú ti sembri il prigionier di noi.
Ismene. (Infido!)
Antigono.   (Audace!)
Alessandro.   Io di due scettri adorna
t’offro la destra, o mio bel nume, e voglio
che mia sposa t’adori e sua regina
Macedonia ed Epiro. Andiam. Mi sembra
lungo ogni istante. Ho sospirato assai.
Antigono. Ah! tempo è di morir. (vuol uccidersi)
Ismene. (trattenendolo) Padre, che fai?

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Alessandro. Qual furor! Si disarmi. (gli vien tolta la spada)

Antigono.   E vuoi la morte
rapirmi ancora?
Alessandro.   Io de’ trasporti tuoi,
Antigono, arrossisco. In faccia all’ire
della nemica sorte,
chi nacque al trono esser dovria piú forte.
Antigono. No, no: qualor si perde
l’unica sua speranza,
è viltá conservarsi, e non costanza.
Alessandro. Consòlati: al destino
l’opporsi è van. Son le vicende umane
da’ fati avvolte in tenebroso velo;
e i lacci d’imeneo formansi in cielo.
Antigono. (Fremo!)
Alessandro.   Andiam, Berenice; e innanzi all’ara
la destra tua, pegno d’amor...
Berenice.   T’inganni,
se lo speri, Alessandro. Io fé promisi
ad Antigono: il sai.
Antigono.   (Respiro!)
Alessandro.   Il sacro
rito non vi legò.
Berenice.   Basta la fede
a legar le mie pari.
Antigono.   (Ah, qual contento
m’inonda il cor!)
Alessandro.   Può facilmente il nodo,
onde avvinta tu sei,
Antigono disciôrre.
Berenice.   Io non vorrei.
Alessandro. No! (resta immobile)
Antigono.   Che avvenne, Alessandro? onde le ciglia
sí stupide e confuse? onde le gote
cosí pallide e smorte?
Chi nacque al trono esser dovria piú forte.

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Alessandro. (Che oltraggio, oh dèi!)

Antigono.   Consòlati. Al destino
sai che l’opporsi è van.
Alessandro.   Dunque io non venni
qui che agl’insulti ed a’ rifiuti!
Antigono.   Avvolge
gli umani eventi un tenebroso velo;
e i lacci d’Imeneo formansi in cielo.
Alessandro. Toglietemi, o custodi,
quell’audace d’innanzi.
Antigono.   In questo stato
a rendermi infelice io sfido il fato.
          Tu m’involasti un regno,
     hai d’un trionfo il vanto;
     ma tu mi cedi intanto
     l’impero di quel cor.
          Ci esamini il sembiante;
     dica ogni fido amante
     chi piú d’invidia è degno:
     se il vinto o il vincitor.
  (parte, seguito da guardie)

SCENA IX

Berenice, Alessandro, Ismene e Clearco.

Ismene. Che Alessandro m’ascolti

posso sperar?
Alessandro.   (Dell’amor suo costei
parlar vorrá.)
Ismene.   Non m’odi?
Alessandro.   E ti par questo
de’ rimproveri il tempo?
Ismene.   Io chiedo solo

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che al genitore appresso

andar mi sia permesso.
Alessandro. (alle guardie) Olá! d’Ismene
nessun limiti i passi.
Ismene.   (Oh, come è vero
che ogni detto innocente
sembra accusa ad un cor che reo si sente!)
          Sol che appresso al genitore
     di morir tu mi conceda,
     non temer ch’io mai ti chieda
     altra sorte di pietá.
          A chi vuoi prometti amore:
     io per me non bramo un core
     che professa infedeltá. (parte)

SCENA X

Berenice, Alessandro, Clearco e soldati.

Alessandro. Alla reggia, o Clearco,

Berenice si scorga. E tu, piú saggia...
Berenice. Signor...
Alessandro.   Taci. Io ti lascio
spazio a pentirti. I súbiti consigli
non son sempre i piú fidi:
pensa meglio al tuo caso, e poi decidi.
          Meglio rifletti al dono
     d’un vincitor regnante,
     ricòrdati l’amante,
     ma non scordarti il re.
          Chi si ritrova in trono
     di rado invan sospira;
     e dall’amore all’ira
     lungo il cammin non è. (parte)

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SCENA XI

Berenice, Clearco, guardie; indi Demetrio.

Berenice. (Da tai disastri almeno

lungi è Demetrio, e palpitar per lui,
mio cor, non déi.)
Demetrio.   Del genitor la sorte,
per pietá, chi sa dirmi?... Ah! principessa,
tu non fuggisti?
Berenice.   E tu ritorni?
Demetrio.   Invano
dunque sperai... Ma questi
è pur Clearco. Oh quale incontro, oh quale
aita il ciel m’invia! Diletto amico,
vieni al mio sen...
Clearco.   Non t’appressar: tu sei
macedone alle vesti; ed io non sono
tenero co’ nemici.
Demetrio.   E me potresti
non ravvisar?
Clearco.   Mai non ti vidi.
Demetrio.   Oh stelle!
Io son...
Clearco.   Taci, e deponi
la tua spada in mia man.
Demetrio.   Che!
Clearco.   D’Alessandro
sei prigionier.
Demetrio.   Questa mercé mi rendi
de’ benefizi miei?
Clearco.   Tu sogni.
Demetrio.   Ingrato!
La vita, che ti diedi,
pria vuo’ rapirti... (snuda la spada)

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Berenice.   Intempestive, o prence,

son l’ire tue. Cedi al destin: quel brando
lascia e sérbati in vita; io tel comando.
Demetrio. Prendilo, disleal! (gli dá la spada)
Berenice.   Non adirarti,
guerrier, con lui: quell’eccessivo scusa
impeto giovanil.
Clearco. (alle guardie) Con Berenice
mi preceda ciascuno: i vostri passi
raggiungerò.
Berenice.   Ti raccomando, amico,
quel prigionier: trascorse, è ver, parlando
oltre il dover; ma le miserie estreme
turbano la ragion. Se dir potessi
quanto siamo infelici,
so che farei pietade anche a’ nemici.
          È pena troppo barbara
     sentirsi, oh Dio! morir,
     e non poter mai dir:
     — Morir mi sento. —
          V’è nel lagnarsi e piangere,
     v’è un’ombra di piacer;
     ma struggersi e tacer
     tutto è tormento.
(parte, accompagnata da tutte le guardie)

SCENA XII

Demetrio e Clearco.

Demetrio. Or chi dirmi oserá che si ritrovi

gratitudine al mondo,
fede, amistá?
Clearco.   Siam soli alfin: ripiglia
l’invitto acciaro; e ch’io ti stringa al petto
permettimi, signor.

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Demetrio.   Come! finora...

Clearco. Finora io finsi. Allontanar convenne
tutti quindi i custodi: in altra guisa,
io mi perdea senza salvarti.
Demetrio.   Ah! dunque
a torto io t’oltraggiai. Dunque...
Clearco.   Il periglio
troppo grande è per te: fuggi, ti serba
a fortuna miglior, principe amato;
e pensa un’altra volta a dirmi ingrato.
  (in atto di partire)
Demetrio. Ascoltami.
Clearco.   Non posso.
Demetrio.   Ah! dimmi almeno
che fu del padre mio.
Clearco. Il padre è prigionier. Sálvati. Addio. (parte)

SCENA XIII

Demetrio solo.

Ch’io fugga, e lasci intanto

fra’ ceppi un padre! Ah! non fia ver. Se amassi
la vita a questo segno,
mi renderei di conservarla indegno.
          Contro il destin, che freme
     di sue procelle armato,
     combatteremo insieme,
     amato genitor.
          Fuggir le tue ritorte
     che giova alla mia fede?
     se non le avessi al piede,
     le sentirei nel cor.