I primi giorni

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I III
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I PRIMI GIORNI





LL
’indomani era giovedì; quindi Caterina, che frequentava le scuole, aveva vacanza e poteva disporre del suo tempo per far conoscere la casa ad Annicca.

Dopo preso il caffè-latte in cucina accanto al fuoco, — facevano tutti colazione alla spicciolata, — Annicca si pettinò. Voleva pettinarla Lucia, a cui in quella settimana toccava il turno di pulire i bambini, ma ella si oppose.

— Mi pettino sempre da me. Se volete anzi pettino anche Caterina. [p. 22 modifica]

— Come mai puoi pettinarti tutti questi capelli?

— Ma... col pettine. Ci sono avvezza.

Infatti si pettinò colla massima disinvoltura.

Legava i capelli con una stringa, sulla nuca, poi li intrecciava e rigettava indietro la grossa treccia dalla punta tutta a riccioli.

Lucia portò su la valigia di Annicca e aiutò la cugina a disporre la roba nel baule. Poco corredo davvero. La piccola biancheria mal tagliata e mal cucita, era profumata di spigo. I vestitini di colore furono messi in fondo al baule.

— È tutto qui? — domando Lucia inginocchiata.

— Che belle calzette! Chi le ha fatte?

— Nonna. Ho lasciato molte cose in casa, ma zio Paolo mi ha promesso di farmele portare presto qui.

— Chi ci sta ora in casa tua?

— Nessuno. Non si sa a chi toccherà.

Mentre Lucia disponeva gli ultimi indumenti, fazzoletti, grembiali, un grosso libro di preghiere, uno scialletto, Annicca la guardava attentamente. Sì, senza dubbio, Lucia era più [p. 23 modifica]bella di Angela. Aveva il collo delicato di una bianchezza suprema e il naso così profilato e diafano che le narici si tingevano di rosa alla luce. E che begli occhi neri! Eppoi era ben pettinata, e aveva le mani tanto bianche e sottili che Annicca nascose le sue. Caterina venne a trarla da questa contemplazione. Tutta la mattina passò nel visitare le camere, la corte, le loggie e l’orto.

Attigua alla camera delle fanciulle c’era una cameretta per le serve. La finestra era munita d’inferriata e la porta dava nella camera delle signorine; così che le serve non potevano aver comunicazione con nessuno, di notte.

In altre due camere, di fronte dormivano e abitavano Sebastiano e Cesario; Antonino dormiva col primo, perchè Cesario era aristocratico; voleva una camera per sè solo, che neppure nelle sue assenze fosse abitata. C’erano molti libri, romanzi, giornali, ed era sempre pregna di un forte odore di sigaro. Cose che non si osservavano nella camera di Sebastiano, severa e semplice come una cella.

Al primo piano eranvi la camera di Paolo [p. 24 modifica]e Maria, un gabinetto con la macchina da cucire e i giocattoli di Caterina e Antonino.

Un’altra camera pulita, con qualche mobile di lusso, allo stesso piano, veniva riservata agli ospiti (sos intranzos), cioè agli amici dei villaggi vicini che in Sardegna vanno spesso ad albergare, gratis e amore, nelle case amiche.

Questa camera serviva qualche volta anche da stanza di ricevimento; perchè veramente i Velèna ricevevano le numerose persone che frequentavano la casa nella stanza da pranzo o nell’ufficio, un’altra stanza semplicissima, a pian terreno, dove Paolo Velèna faceva i propri affari. Erano per lo più persone del popolo, legate ai Velèna per ragioni di servizio; fattori, pastori, lavoranti, donne in costume e persone che venivano per affari o per far compre.

Dietro la casa s’ergevano le cantine e le dispense, munite di grosse inferriate e di porte solide che davano sul fresco cortile.

Sul cortile dava anche l’ampia cucina, e dietro il cortile v’era l’orto con la stalla.

— Tu credi che noi stiamo qui? — disse Caterina arrivata in fondo all’orto. — Guarda [p. 25 modifica]bene. Scavalchiamo il muro e scendiamo laggiù.

Annicca guardò, chinandosi sul muro.

Laggiù v’era la campagna; una china arida, screpolata, piena di roccie e di cespugli spinosi, che metteva capo allo stradale, dal quale la separava una siepe di rovi.

— E zia Maria vi permette di andare laggiù?

— Eh, sì! È terreno nostro questo, quindi possiamo ben andarci. Andiamo a mostrarti il bestiame ora.

— Il cavallo?

— Ma che cavallo d’Egitto. Vieni, vieni....

La ricondusse indietro e le mostrò le galline, i pulcini, i colombi e i gattini che Maramea, la gatta, allevava entro una mangiatoia, nella stalla, dove c’era il cavallo nero di Sebastiano.

Caterina chiacchierava senza fine. Aveva tante cose da dire, tante cose che le si confondevano nel pensiero.

— Non toccare il cavallo, ehi, Annì, bada che ti fai del male. Ecco, qui fanno le uova le galline. Sai quante ne fanno ogni giorno, molte, [p. 26 modifica]molte, più di sedici. Cosa ne facciamo, dici? Eh, c’è gente da mangiare in casa e le uova sono tanto necessarie, sai. Io conosco le uova che fa questa gallina e le uova che fa quest’ altra. Ogni sera le ritiro io le galline, dal cortile alla stalla, spingendole con una canna. Son tutta brava gente.

— Come si chiaman questi gattini? Oh, che bellini! — disse Annicca toccandoli ad uno ad uno. — Hanno ancor gli occhi chiusi però....

— Ecco la mamma loro. Buon giorno, Maramea! — esclamò Caterina.

Infatti la bella gatta nera si avanzava silenziosamente, guardando ove metteva le zampine e scuotendole ogni tanto. I gattini miagolavano disperatamente. Quando Maramea fu nella mangiatoia le due fanciulle tornarono nell’orto. Sebastiano era intento a potar dei rosai, con una grossa forbice d’acciaio. Nell’orto rinasceva l’erba e i fiori dei mandorli, sfogliati dal vento, coprivano i viali con una specie di nevischio profumato. Una distesa di cavoli fiori copriva quasi tutto l’orto, ma lungo i muri, [p. 27 modifica]sotto i mandorli che rinverdivano, crescevano già le altre piantagioni, su cui la rugiada brillava come polvere di perle, specialmente sui piccoli steli verdi delle cipolle.

Sebastiano coltivava l’orto. Ora aspettava che i cavoli venissero venduti, per zapparlo, solcarlo e ripiantarlo. Intanto seminava i primi fiori e potava i rosai e i cespugli.

— Tu hai messo i piedi qui! — gridò a Caterina appena la vide, additando un’aiuola calpestata.

— Non è vero. Non vedi che sono le pedate di Maometto....

— Anche bugie vieni a dirmi? Sono i piedi tuoi ti dico. Bada bene che non ti trovi io. Altrimenti ti taglio il naso con queste forbici qui. Buon giorno, Anna. Hai dormito stanotte?

— Non c’è male, — rispose Annicca arrossendo. — Grazie.

— Grazie di che? — domandò Sebastiano con le braccia in aria, ridendo.

Annicca si fe’ ancor più rossa e scomparve con Caterina.

Maometto era il cane. Un bel levriero alto, [p. 28 modifica]dal lungo muso vellutato e gli occhi che parevano di cristallo. Una sola macchia bianca, in fronte, interrompeva la nerezza lucente del suo elegantissimo corpo.

Lo trovarono in cucina che giocava con Antonino.

— Senti un po’ chè ti dico una cosa, — disse Caterina al fratellino, tirandolo nel cortile. Dopo il rabbuffo di Sebastiano si era fatta seria e triste.

Rimasero fuori lungo tempo. Confabulavano a voce bassa e Antonino ascoltava con le braccia incrociate sulla schiena. Annicca non seppe mai ciò che dissero. Nel mentre esaminò la cucina, guardò dentro al forno e contò le casseruole di rame, lucentissime, appese sulle pareti gialle. Fece anche conoscenza intima con le serve, di cui una accendeva il carbone sui fornelli e l’altra scopava. Rosa era grande e brutta; una pertica vestita, ed Elena era piccola.

Rientrando Caterina disse alle serve:

— Dovete chiamarla donn’Annicca questa qui, perchè è dama. [p. 29 modifica]

Annicca sorrise di compiacenza, tuttavia osservò modestamente:

— Non occorre, per ora.

— Mamma non vuole che diamo confidenza alle serve, — le susurrò Caterina quando furono nella stanza da pranzo, — son gente maleducata e dicono sempre delle brutte parole.

Angela rammendava delle calze seduta davanti al braciere, e la signora Maria cambiava le vesti a Nennele, facendolo ridere e saltare. Lucia, dopo aver rimesso in ordine le camere, cuciva a macchina. Si sentiva distintamente il tic-tac della macchina perchè i soffitti erano di legno e il gabinetto stava sopra la stanza da pranzo. Si vedeva bene: l’arrivo di Anna non turbava menomamente le abitudini della casa.

Settimana per settimana Lucia ed Angela si addossavano l’incarico di pulire i bimbi, di rassettare le camere e di apparecchiare la tavola. Quando poi non facevano ciò, restavano giù, ricamando, facendo calzette o rattoppando, pronte a levarsi per vendere i [p. 30 modifica]prodotti raccolti nelle dispense e che vendevano alla spicciolata: vino, olio, formaggi, ecc.

Quella setimana toccava ad Angela restar giù. Per non sporcarsi il vestito indossava un largo grembiale turchino, fatto con certo gusto e adorno di un volante. Del resto nè lei nè Lucia si insudiciavano mai. Avevano tal pratica della cosa che misuravano l’olio e il vino senza toccarne una stilla; e facevano queste operazioni volgari, ma lucrose, senza punto umiliarsi.

— È il nostro mestiere, — diceva Angela, — ed io vorrei misurare olio per tutto l’anno.

— Abbiamo visitato tutto, — disse Caterina, scaldandosi le mani sul braciere.

— Sta bene, — rispose la mamma. — Sei contenta, Annì?

— Sì, tanto. — La piccola si assise vicino al fuoco e Maria si rivolse verso di lei. Non la trovava più brutta, come la sera prima, e si accorgeva che non era neppure mal educata.

— Studia la lezione, — disse a Caterina con serietà.

Caterina era la prediletta di tutti, per la sua [p. 31 modifica]vivacità e per le sue stesse stranezze, ma nel tempo stesso veniva trattata quasi con rigore, tanto che delle volte essa ne piangeva, dicendosi infelicissima. Temeva più la madre che il babbo, e più Sebastiano che la mamma.

Non si fece ripetere l’ingiunzione: andò a studiare, e Annicca disse timidamente:

— Datemi da lavorare, ora....

Dopo essersi fatta pregare, Angela le porse un paia di calze: Annicca si infilò il ditale di Lucia e prese l’ago con tanta buona grazia che Maria Fara ne restò incantata.

L’indomani, venerdì, le signorine Velèna e Annicca accompagnate da Cesario, dopo una lunga passeggiata andarono alla conferenza religiosa, a Santa Croce, giacchè si era di quaresima.

Caterina, di ritorno da scuola, le raggiunse giusto appunto mentre varcavano l’ingresso della chiesa, e Annicca ne restò molto contenta perchè potè farle nascondere entro il manicotto un mazzo di margherite portate dalla passeggiata.

— Gettatele via, — disse Cesario, seccato. [p. 32 modifica]

La piazzetta della chiesa formicolava di signori, e la gente entrava in chiesa, frettolosamente, perchè l’ultimo tocco era suonato. Ci vollero più di tre minuti per ficcare le margherite entro il manicotto, lì, sull’atrio della chiesa, ove tutti guardavano.

— Ti dico di buttarle via! — ripetè Cesario, alzando la voce. Egli non voleva che i giovinotti guardassero a lungo le sue sorelle.

Lucia ed Angela, invece, sorridevano, scambiando uno sguardo d’intelligenza fra loro.

— Questa mi pare sia l’ultima volta che vi accompagni.... — borbottò Cesario irritato.

Annicca arrossì e tremò: capì ch’era lei la causa di quel piccolo scandalo ed ebbe voglia di piangere.

— Sì, buttiamole via.... — rispose, ma Caterina era già dentro la chiesa, immergendo la manina senza guanti nell’acqua santa.

Era tardi. Il coro finiva; le voci dei sacerdoti risuonavano, come l’ultima eco di un tuono, per le antiche navate, e Annicca si confuse vieppiù, non sapendo cosa fosse. Molti ragazzi e giovinotti aspettavano che la [p. 33 modifica]predica incominciasse, disposti in faccia al pulpito, vicini alla pila dell’acqua santa. Intanto chiacchieravano e guardavano le belle ragazze in costume, inginocchiate per terra, e le signorine sedute sulle panche e sulle sedie.

All’entrare delle Velèna tutti si rivolsero a guardarle, mentre Cesario si dileguava tra la folla.

Mai manine di signorine si fecero un segno grazioso di croce come Lucia ed Angela. Caterina aveva loro porto l’acqua santa sulla punta delle dita. Annicca si sentiva più che mai smarrita in quel nuovo mondo. Le pareva che tutti si rivolgessero per guardar lei sola, e avvezza a veder la gente del suo villaggio star con devozione in chiesa, si domandava se tutto quel rumorìo confuso di voci irriverenti fosse mai la sua presenza a causarlo.

Attraversarono la chiesa, umida e grigia. A stento ritrovarono le loro sedie, e a stento Annicca potè calmarsi. Sulle prime non osava guardar in nessun posto. I santi e gli angelj delle vôlte, dipinti a fresco, con colori chiaro-oscuri che l’umido e il tempo rendevano più [p. 34 modifica]spiccati, con certi contorni verdi sfumati in giallo, fissavano acutamente la povera testolina di Anna, dicendole: — chi sei? donde vieni?

La piccola si fè coraggio e guardò in alto. No, erano santi e angeli dipinti, soltanto. Come mai potevano guardarla e parlarle?

La curiosità crebbe: guardò i finestroni semicircolari, di cui qualcuno conservava i vetri istoriati, e poi i capitelli dei vecchi colonnati, le altissime pareti grigie e la navata centrale. E il suo sguardo scivolò lentamente sulle funi delle lampade perlate che le diedero molto da pensare.

Il suo nome, pronunziato sommessamente dietro la sua sedia, la trasse da questa contemplazione. Senza volerlo si volse vivamente. Allora si accorse che le popolane, sedute e inginocchiate per terra, stavano con molta devozione e raccoglimento, ma che le signore e signorine parlavano fra di loro, sorridendo e guardando di qua e di là.

Si leggeva una sottile perfidia su quei bei volti incipriati, e gli occhi dicevano tante cose maligne. Le une guardavano le altre, alla [p. 35 modifica]sfuggita, frugando per i vestiti e per i cappelli, e il sottile profumo, composto di profumi diversi, che esalava nel piccolo spazio, pareva un fluido di fiori cattivi. Annicca vide due ragazze che la guardavano ridendo silenziosamente e dicendosi qualche parola dietro il manicotto, e sentì istintivamente il sentimento di una grande umiliazione. Per la seconda volta, in pochi minuti, provò una gran voglia di piangere.

Le cugine, smarrite tra le signore, pareva si fossero completamente scordate di Annicca. Chiaccheravano anch’esse, sottovoce, toccando la mano a qualche signorina, e Annicca si sentiva sola e perduta.

Dietro di lei aveva udito Lucia dire ad un’altra ragazza della sua età:

— È Anna Malvas, nostra cugina.

— Sta in casa vostra’?

— Sì, da avant'ieri sera....

— Perchè è vestita di nero?

Uno schianto di tosse, leggero, civettuolo, represso da una mano inguantata impedì ad Annicca di sentire il seguito del discorsetto. [p. 36 modifica]

Ma tornò a confondersi pensando al suo vestitino nero, liscio, mal fatto, che spariva tra tutti quei vestiti a sbuffi, a colori vivaci e morbidi. Vicino a lei stava una signora in mantello di velluto nero, splendente di giajetti e passamanteria, e una bimba in abito bianco guarnito di vivissimo pelusce verde. Dio mio, Dio mio, come in quel momento Anna si sentiva infelice e brutta, sotto il suo fazzolettino stretto e i suoi capelli rialzati. Perchè non si era fatta fare i ricci, perchè?... Ora le sembrava che le cugine avessero vergogna di lei, anch’esse così ben vestite ed eleganti. Si volse e guardò supplichevolmente Caterina; ma Caterina non le badò punto.... Per buona fortuna in quel momento squillò argentina una campanella: i sacerdoti si disposero sulle sedie, a piè dell’altare maggiore, entrarono i seminaristi che Annicca credè, sbalordita, fossero tutti preti, benchè così giovani, entrarono i signori, la chiesa si affollò, e tra un improvviso meraviglioso silenzio cominciò la conferenza.

Il predicatore, un bell’uomo roseo, dal [p. 37 modifica]profilo fine, rassomigliava tanto a Paolo Velèna, che Annicca si voltò di nuovo, cercando gli occhi di Lucia, per interrogarla se quello lì era davvero lo zio. Lucia si accorse di qualche cosa e allungò la mano, sfiorando la spalla della cugina e dicendole:

— Sta attenta....

Annicca sussultò sulla sedia, perchè la voce del predicatore, nel pronunziare l’epigrafe latina, era terrilbilmente tetra e sonora. Cominciò la predica.

Nel raccoglimento solenne della folla, solo due signorine si ostinavano a pispigliare fra loro davanti ad Anna, che ne restò scandolezzata oltre ogni dire. Del resto essa era tutta intenta alla predica, con la testa sollevata. Non aveva mai veduto nè sentito cose simili.

La voce del roseo predicatore si spandeva per la chiesa, sotto l’immenso paravoce di stoffa color d’oro, a momenti dolce e soave come una cantilena, a momenti fragorosa come un uragano; risuonava, scendeva, sfumava nella penombra delle cappelle, tornava, come respinta, ripercossa dall’eco delle navate. I santi [p. 38 modifica]e gli angeli del Mugano ascoltavano dall’alto, e nello sfondo dolcemente azzurro dei finestroni brillava il sole, scendendo su qualche testa di giovinotto e incoronandola di un’aureola misteriosa.

Il tema della predica era il Purgatorio. Il predicatore citava esempi antichi e moderni, diceva dei riti pagani e dei bramini e dei buddisti, rievocava i concili ecumenici e specialmente quelli di Cartagine, ove solennemente fu affermata l’esistenza del purgatorio.... Si serviva di citazioni degli stessi protestanti, degli enciclopedisti, di Lutero, di Melentone, di Voltaire e di Erasmo.... e Annicca, a bocca aperta, non ne capiva un’acca. Capiva solo che c’era qual cosa di terribile per l’aria e quando il predicatore citò, per dire delle caducità delle terrene cose, l’esempio di Isabella di Spagna, la più bella donna del mondo, che poche ore dopo morta destò orrore e terrore perfino al coraggiosissimo duca di Cardia, tanto era deformata, Annicca si pentì di aver invidiate tutte quelle signorine ben vestite e incipriate e d’essersi chiamata infelice, sentendosi bruttina e mal vestita. [p. 39 modifica]

Ma a poco a poco si annoiò e finì col non capire più nulla. La sua testina si voltò e i suoi occhi fissarono lo sfondo dolcissimo dei finestroni, ricordando la bella passeggiata attraverso i campi, il torrente, il ponte, le pervinche e le margherite e le capre che pascolavano sulla punta delle roccie.

Poi vide un bambino signorile, o meglio lo sentì perchè si appoggiava fortemente alla sua sedia. Dio mio, che affare era codesto? Il bambino teneva fra le mani un ciuffo di margherite. Gliele aveva date forse Caterina?

Annicca fu per voltarsi, ma temè di sentire nuovamente la voce di Lucia rimproverarle: sta attenta....

Il bambino con le margherite non la lasciò più in pace. Salterellava, spingendo la sedia, dondolandosi e ballando. Per fortuna Annicca ricordava di essere una ragazza a modo, molto devota, altrimenti gli avrebbe dato uno spintone. A un tratto fu urtata così fortemente che si volse e non potè trattenersi dal ridere. L’impertinente era Antonino in persona, sopraggiunto con una delle serve.... [p. 40 modifica]

All’uscita Cesario, ancora irritato per l’affare delle margherite, piantò le sorelle che si dovettero contentare di tornare a casa con la serva.

Prima di ritornare però le signorine andarono in un negozio e comperarono la stoffa nera per un vestito di Annicca. Comprarono per lei anche i guanti e un fazzoletto di seta. Annicca non stava in sè dalla gioia; al ritorno si mise a fare la ruota, completamente immemore delle impressioni varie provate durante tutta la sera, mentre Caterina e il fratellino collocavano le margherite, peste e vizze, entro un bicchiere d’acqua e Lucia con Angela facevano un mondo di osservazioni sulla predica, sul predicatore e sugli ascoltatori.

Annicca potè solo interessarsi a queste parole, scambiatesi rapidamente fra le due signorine.

— Hai veduto Lucifero?

— Altro che l’ho veduto!... È andato via con Cesario.... ne sono contenta....

— Silenzio.... — disse Angela, guardando attorno. [p. 41 modifica]

Anna si ficcò in testa l’idea che questo Lucifero avesse a che fare con le cugine.

— Chi è Lucifero? — domandò a Caterina, un momento che furono sole.

— Ma.... il demonio.

— Il demonio? può essere. È l’innamorato di tue sorelle?

Caterina la guardò spaurita e offesa.

— Ma lasciami un po’ la testa!... Come vuoi che siano innamorate del demonio?

— Ma se l’hanno detto loro?

— Cosa? innamorate del demonio?

— No. Hanno detto così e così.

Per un pelo non si bisticciarono. Alla fine vennero a sapere che Lucifero era Gonario Rosa, un compagno di Cesario, un simpatico ragazzo bruno. Lo chiamavano Lucifero appunto perchè era brunissimo. Taluni dicevano che si tingeva apposta.



L’indomani era sabato. Quindi grande pulizia per tutta la casa. Si spolveravano le sedie, [p. 42 modifica]i letti, i muri, i tappeti, le coperte. Angela, con un fazzoletto in testa, scopò.

— Perchè non metti la serva? — domandò Annicca.

— Perchè le serve non danno attenzione; spazzano all’impazzata, tanto per far presto, e la polvere la levano dal suolo e la mettono sulle pareti.

Annicca aiutò; anzi, per la prima volta, entrò in cantina e vendè un litro di vino, tutta superba di aver fatto una grand’opera.

Quando non c’era quella spiritata di Caterina, Annicca diventava una donnina seria e composta, appassionata solo per la casa e per le faccende domestiche. Ma con Caterina ridiventava bambina e faceva dei discorsi senza senso, ridendo o rattristandosi per cose da nulla. Eppure con Caterina ella non si sentiva contenta.