Alceste Prima (Alfieri, 1947)/Atto secondo

Atto secondo

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Euripide - Alceste Prima (438 a.C.)
Traduzione dal greco di Vittorio Alfieri (1797)
Atto secondo
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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Adméto, Alceste, coi due figli, e il Coro in disparte.

Alces. Oh Sole! oh luce alma del giorno! oh ruote

sublimi eterne!
Adméto   Le celesti ruote
scorgonci entrambi in duri affanni, ed ambi
pure innocenti ai giusti Numi innanzi;
onde, il morir non t’è dovuto.
Alces.   Oh terra
della paterna Jolco! oh patrii tetti!
oh nuziale talamo!
Adméto   Deh, piacciati,
se non vuoi trarmi a morte, ergere alquanto
l’alma infelice ai Numi onnipossenti,
perch’ei ti compassionino.
Alces.   Giá veggo,
la fatal barca io veggo; e starvi al remo,
degli estinti nocchiero, il fier Caronte:
gridami ei giá: «Che indugi omai? ti affretta;
presto è il tutto, e tu tardi?» — In tali accenti
frettoloso ei mi accelera.
Adméto   Ahi me misero!
Di quale acerbo navigar parlasti!
Oh tu infelice! oh quali punte io provo!
Alces. Me trae giá giá, qualcun me trae (nol vedi?)

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nella reggia de’ morti: egli è l’alato

Pluto dai foschi sopraccigli, e torvo
rimirante. Che vuoi? lasciami, o Pluto...
Ahi, qual cammino, oh me infelice, imprendo!
Adméto Gli amici in pianto, e i figli, e piú d’ogni altro
me lasci, o Donna, in sempiterno pianto.1
Alces. Lasciatemi; lasciatemi oramai;
a giacer riponetemi: non reggo
piú sovra i piè: morte si appressa: in notte
tenebrosa giá gli occhi mi si appannano.
O figli, o figli, in breve piú non è,
piú non è, no, la madre vostra: o voi,
godiate almen questo almo Sol, deh, lieti!
Adméto Oh detti, oimè, d’ogni piú cruda morte
piú crudi a me! ten prego or, per gl’Iddii,
e pe’ figli, che foran di te orbati,
deh non mi vogli abbandonar! te spenta,
io non vivrò: ripiglia animo alquanto;
cara e sacra mi sei; sta in te mia vita,
sta la mia morte in te.
Alces.   Tu il vedi, o Adméto,
a che ridotta io sia: di aprirti bramo,
pria di morire, appien l’animo mio.
Per onorarti, e perché tu piú a lungo
questa luce in mia vece anco rimiri,
io per te muojo: ed in mia man ben era
il non perire; ed anzi, a scelta, avermi
altro Tessalo sposo, e seco starmi
entro beata reggia. Ma, non volli
da te disvelta io viver, no, coi figli
orbi del padre; né a me perdonai,
bench’io goder di giovinezza i doni
mi potessi anco. E i tuoi parenti entrambi,

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cui morir per l’amato unico figlio

bello era pure e gloríoso assunto,
te non salvando il tuo desir tradiro.
Eppur, te morto, d’altra prole in essi
caduchi omai, spenta ogni speme ell’era.
Vivi cosí rimasti ambo saremmo;
né desolato pianger tu dovresti
la tua consorte, né educar nel pianto
gli orfani figli. Ma, in tal guisa, al certo,
un qualche Iddio volea che il tutto fosse:
e sia cosí. — Tu intanto, contraccambiami
del beneficio mio: pari nol chieggo;
che al viver, nulla si ragguaglia; un giusto
contraccambio mi dona, che a te stesso
parrá pur tale; poiché questi figli
ami non men ch’io gli amo, e saggio sei.
Questi sien dunque di mia casa i soli
eredi, né ai tuoi figli una Madrigna
sovrappor vogli, che di me men pia
l’invide man su questa prole nostra
scaglierebbe. Scongiuroti dunque io,
che ciò far non ti piaccia. Ai non suoi figli
la vegnente Madrigna è ognor nemica,
né a lor piú mite che vipera il sia.
Udito ascolta il maschio figlio il padre,
e all’uopo in lui scudo possente ei trova:
ma tu, mia figlia verginella, ahi come
addottrinati fien gli anni tuoi primi
in madrignal custodia? Oimè! pavento
che in sul tuo piú bel fior colei deturpi,
per frastornar tue nozze, a te la fama.
Figlia infelice! ah, dalla vera madre
non si faran le nozze tue! né al primo
tuo parto avrai della materna vista
il fido impareggiabile conforto!
Morir, mi è forza: né un sol dí le Parche

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differiran la mia sventura: in breve

piú non sarò tra gli esistenti. — Addio:
sia letizia con voi: tu, sposo, il vanto
d’aver avuto ottima moglie or t’abbi;
e abbiatel voi d’ottima madre, o figli.
Coro Donna, affidati in lui; ben ei mi è noto:
saggio, qual è, mallevador non temo
farmiti, ch’egli adempirá i tuoi voti.
Adméto Tutto farò; deh, non temer, farollo.
Viva t’ebbi; e tu sola a me consorte,
anco estinta, sarai: né in vece tua
niuna Tessala moglie me suo sposo
mai chiamerá: né chiaritá di sangue,
né beltade havvi in donna omai da tanto.
Prole ho bastante, e dagli Dei sol chieggo
di goder questi; poiché (oh ciel!) tu tolta
mi sei. Ma il pianto, entro il confin dell’anno
giá non stará: finch’io vivrommi, o donna,
te piangerò; sempre odíando e il padre,
e in un colei che procreommi; amici
ambo a me in detti, e poi nemici, all’uopo.
Tu, sola tu, pel viver mio donando
ogni piú cara cosa tua, m’hai salvo.
Ch’altro oramai che gemiti mi avanza,
di cotal moglie orbato? Ah! per me mai,
non v’ha piú mai compagni, né conviti,
né corone, né canti: non piú udrassi,
qual solea, risuonar questa mia reggia
né della lira, né de’ miei lieti inni
colla Libica tibia accompagnati:
teco ogni gaudio del mio viver, donna,
m’involi tu. Ma, dalla industre mano
di dottissimi artefici un tuo corpo
avrommi; e in letto io ’l poserò: lí presso
io giacerommi, e il simulacro amato
fra mie braccia stringendo, e ad alta voce

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a nome anco chiamandoti, parrammi,

la cara sposa non avendo, averla:
tristo diletto! eppur sollievo alquanto
darammi all’alma. E ne’ miei sogni poi
consolatrice a me verrai: che ognora,
e notte e dí, quando che sia, gradita
dell’amico è la vista. Ah, se avess’io
d’Orfeo la voce e i carmi, onde la figlia
intenerir di Cerere, o il suo Pluto,
e te sottrarre all’Orco! Ivi disceso,
non mi fariano inciampo, né il trifauce
Cerbero, né dell’-anime-il-nocchiero
Caronte, no, per ricondurti a vita.
Ma, poich’esser non può, colá mi attendi
finch’io mi muoja; e una comune sede
tu intanto appresta alle nostr’alme entrambe.
Che un’arca stessa di perpetuo cedro
accanto al fianco tuo questo mio fianco
giacente acchiuda, ordinerò: né mai,
né in morte pure, io mi starò disgiunto
da te, ch’unica e fida al mondo io m’ebbi.
Coro E teco io pur, qual con l’amico il suole
l’amico, appien dividerò il tuo pianto
per sí degna consorte.
Alces.   O figli, udiste
del padre i detti: a danno vostro ei moglie
mai non torrá; né oltraggio tal farammi.
Adméto No; mai; tel giuro.
Alces.   Or, per mia man ricevi
dunque a tal patto i figli miei.
Adméto   Li accetto,
amico don di amica mano.
Alces.   A questi
madre in mia vece anco sii tu.
Adméto   Fatale
necessitá, poiché di te fian orbi!

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Alces. O figli, appunto allor che il viver mio

piú d’uopo v’era, io muojo!
Adméto   Ahi! che farommi
orbo or di te?
Alces.   Rimedio al pianto avrai,
dal tempo: i morti, un nulla sono.
Adméto   Ah, trammi,
per gl’Iddii te ne prego, all’Orco trammi,
deh, teco.
Alces.   All’Orco io sola or per te basto.
Adméto Ah, di qual moglie orbo mi rendi, o Fato!
Alces. Ma gli occhi gravi giá giá mi si appannano...
Adméto E pero io pur, se tu mi lasci, o sposa.
Alces. Nulla omai sono; e tosto a te pur anco
nulla parrò.
Adméto   Deh, il volto innalza alquanto;
né abbandonar questi tuoi figli!...
Alces.   A forza
li lascio... Or dunque, addio, miei figli...
Adméto   Ad essi
volgi ancor gli occhi; volgili...
Alces.   Giá manco.
Adméto Oimè! che fai? ci lasci?
Alces.   Adméto, addio.
Adméto Ahi me misero, io pero!
Coro   Ecco, passò:
ah! piú non hai, piú non hai moglie, Adméto.
Eúmelo Oh me infelice! la mia madre a Stige
discese: ahi, piú non la rischiara il Sole!
O padre, ella abbandonami, e vivrommi
orfano! — Mira, le palpébre ha chiuse,
misera; e sciolte le mani le cadono. —
Odimi, madre; odimi o tu, ten prego:
io son, io son quei che ti appello; il tuo
fanciul, che stassi or sul tuo labro, o madre!
Adméto Né piú t’ode, né vede; invan la chiami.

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Piagati tutti, e padre e figli, a morte.

Eúmelo Padre, fanciullo abbandonato e solo
son dell’amata madre: oh quanti danni,
cui tu pur meco, o sorellina, avrai!
Invano, o padre, invan tu moglie hai tolta,
poiché con questa agli ultimi anni tuoi
pervenir non t’è dato: ella involossi
a tutti noi. Nel tuo perire, o madre,
nostra casa perí.
Coro   T’è forza, o Adméto,
il sopportar questa sventura. Anco altri,
orbati fur d’ottime mogli: il sai,
ch’è a tutti noi necessitá la morte.
Adméto Pur troppo il so; né fu improvviso il colpo:
giá addolorommi, antiveduto pria. —
Ma, tomba or vuolsi a questo corpo. Innanzi
fatevi, o voi miei fidi: ite alternando
al crudo Inferno Nume inni lugúbri.
A’ miei Tessali tutti impongo intanto
per sí gran Donna il comun lutto. Ognuno,
reciso il crin, sue vesti abbruni; e tosto
le quadrighe si aggioghino, e ai corsieri
delle cervici il folto onor sia tronco:
muta ogni tibia sia, muta ogni cetra,
nella cittá, dodici lune intere:
ch’io mai, no mai, piú caro corpo in tomba
seppellirò di questo. Ella è ben degna,
ch’io l’onori altamente, ella che sola
volle in mia vece per mio amor morire.

STROFE I

Coro            O tu, giá figlia del buon Pelia, fausta

     or mi sii dalla reggia
     dell’Orco grave d’ogni luce orbato.
     Al tuo venir, si avveggia
     il Nume atro-chiomato

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     Pluto; e il Nocchier della palude infausta,

     che in su i remi biancheggia
     del palischelmo dell’eterno Fato;
     varcate aver quell’acque
     donna, che sovra tutte ottima nacque.

ANTISTROFE I

           Di te molt’inni e molti, o Alceste fida,

     canteranno i Poeti,
     or misti al suon della Parnassia lira,
     or senza corde queti.
     E dove Sparta mira
     del Carnio Apollo tutelar sua guida
     ogni anno i giorni lieti
     a colma Luna; e dove Palla spira
     su la beata Atene;
     di tua morte il Cantor gran vanto ottiene.

STROFE II

           Deh, mi foss’io da tanto,

     che a ricondur bastassi
     te in questa luce, dal tremendo ostello;
     e Cocíto solcassi
     col rivolto infernal Remige snello!
     Tu, dall’eterno pianto
     riscattando il marito, amante Donna,
     che tutte addietro lassi,
     donata all’Orco hai la mortal tua gonna.
     Sovra te posi lieve
     seppellitrice arena! Ah, se mai poi
     nel tuo talamo Adméto altra riceve,
     lo abborrirem noi certo e i figli tuoi.

ANTISTROFE II

           Non la madre che vita

     al nostro Adméto dava;

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     né il genitor che il procreò; niun d’essi

     coprir sua salma ignava
     di terra vuol, mentre a spregiar se stessi
     lor canizie li invita.
     Tu, giovincella, del tuo bel sul fiore,
     tu al giovin sposo intessi
     viver novel, coll’esser tuo che muore.
     Deh pur tal donna in sorte
     (raro dono!) toccasse a me compagna:
     che il mio amor, non mai sazio, ognor piú forte
     farian quegli anni, onde piú Amor si lagna.


  1. Il Testo dice: Lagrimevole (il cammino) agli amici e sovra tutti a me, ed ai figli, a cui questo pianto è comune.