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atto secondo 81
a nome anco chiamandoti, parrammi,

la cara sposa non avendo, averla:
tristo diletto! eppur sollievo alquanto
darammi all’alma. E ne’ miei sogni poi
consolatrice a me verrai: che ognora,
e notte e dí, quando che sia, gradita
dell’amico è la vista. Ah, se avess’io
d’Orfeo la voce e i carmi, onde la figlia
intenerir di Cerere, o il suo Pluto,
e te sottrarre all’Orco! Ivi disceso,
non mi fariano inciampo, né il trifauce
Cerbero, né dell’-anime-il-nocchiero
Caronte, no, per ricondurti a vita.
Ma, poich’esser non può, colá mi attendi
finch’io mi muoja; e una comune sede
tu intanto appresta alle nostr’alme entrambe.
Che un’arca stessa di perpetuo cedro
accanto al fianco tuo questo mio fianco
giacente acchiuda, ordinerò: né mai,
né in morte pure, io mi starò disgiunto
da te, ch’unica e fida al mondo io m’ebbi.
Coro E teco io pur, qual con l’amico il suole
l’amico, appien dividerò il tuo pianto
per sí degna consorte.
Alces.   O figli, udiste
del padre i detti: a danno vostro ei moglie
mai non torrá; né oltraggio tal farammi.
Adméto No; mai; tel giuro.
Alces.   Or, per mia man ricevi
dunque a tal patto i figli miei.
Adméto   Li accetto,
amico don di amica mano.
Alces.   A questi
madre in mia vece anco sii tu.
Adméto   Fatale
necessitá, poiché di te fian orbi!


V. Alfieri, Tragedie postume. 6