francese

William Beckford 1782 1946 Giaime Pintor Letteratura Vathek Intestazione 25 luglio 2016 75% Da definire

Vathek, nono califfo della stirpe degli Abbasidi, era figlio di Motassem e nipote di Haroun al Raschid. Dalla precoce ascesa al trono e dai talenti di cui disponeva per farlo piú splendido, i suoi sudditi erano indotti a credere che il suo regno sarebbe stato lungo e felice. La sua figura era gradevole e maestosa: solo quando montava in furia uno dei suoi occhi diventava cosí terribile che nessuno avrebbe osato sostenerne lo sguardo, e lo sventurato su cui quell'occhio si posava cadeva istantaneamente riverso e talvolta spirava. Per paura tuttavia di spopolare i suoi territori e di rendere desolato il palazzo, solo raramente egli dava sfogo a tale furore.

Essendo molto proclive alle femmine e ai piaceri della tavola, Vathek cercava con la sua affabilità di procurarsi piacevoli compagnie; e in questo tanto meglio riusciva in quanto la sua generosità era senza limiti e la sua indulgenza senza restrizioni: egli non pensava infatti come il califfo Omar Ben Abdalaziz che fosse necessario fare un inferno di questo mondo per godere il paradiso nell'altro.

In magnificenza Vathek sorpassava tutti i suoi predecessori. Il palazzo di Alkoremi, che suo padre Motassem aveva eretto sul colle dei Cavalli Pezzati e che dominava l'intera città di Samarah, gli era parso troppo angusto: egli vi aveva aggiunto quindi cinque ali o piuttosto cinque altri palazzi che aveva destinato alla particolare soddisfazione di ciascuno dei cinque sensi.

Nel primo di questi palazzi si trovavano tavole sempre imbandite con le piú squisite vivande; erano servite giorno e notte e continuamente si vuotavano; mentre i vini piú deliziosi e i piú scelti liquori scorrevano da cento fontane non mai esauste. Questo palazzo era chiamato "L'Eterno o Inconsumabile Banchetto".

Il secondo era detto "Il Tempio della Melodia" ovvero "Il Nettare dell'Anima". Era abitato dai piú abili musici e dai piú rinomati poeti del tempo, che non solo vi spiegavano i loro talenti, ma uscendo a piccoli gruppi facevano sí che i luoghi circostanti echeggiassero delle loro canzoni in un vario quanto delizioso succedersi di melodie.

Il palazzo chiamato "La Delizia degli Occhi" ovvero "Il Conforto della Memoria" era un vero incanto. Rarità raccolte da ogni angolo della terra erano qui distribuite con tale profusione da confondere e da abbacinare se non altro per l'ordine in cui erano disposte. Una galleria conteneva le pitture del celebre Mani e statue che pareva fossero vive. Qua una ben studiata prospettiva attirava lo sguardo; là qualche magia ottica lo ingannava piacevolmente; mentre il naturalista per parte sua esponeva nelle loro diverse classi i doni che il cielo ha profusi sul nostro globo. In una parola, Vathek non aveva omesso nulla nel suo palazzo che potesse soddisfare la curiosità di coloro che vi accorrevano; solo la sua non doveva essere soddisfatta, perché di tutti gli uomini egli era certo il piú curioso.

"Il Palazzo dei Profumi", che era anche qualificato "L'Incentivo ai Piaceri", consisteva di varie sale dove i differenti profumi che la terra produce bruciavano continuamente in incensieri d'oro. Torce e lampade aromatiche erano accese in pieno giorno. Ma gli effetti troppo potenti di questo piacevole delirio si potevano attenuare scendendo in un immenso giardino dove erano raccolti tutti i fiori piú fragranti, che spandevano nell'aria purissimi odori.

Il quinto palazzo, chiamato "Il Rifugio dell'Allegria" ovvero "L'Insidioso", era abitato da schiere di giovani donne, belle come le Urí e non meno seducenti: esse non mancavano mai di accogliere con carezze gli ospiti che il califfo ammetteva alla loro presenza e a cui concedeva di godere di qualche ora della loro compagnia.

Nonostante la sensualità cui indulgeva, Vathek non aveva subíto la minima diminuzione nell'amore del suo popolo, il quale riteneva che un califfo dedito al piacere non fosse meno capace di governare di un altro che se ne fosse dichiarato nemico. Ma l'inquieta e impetuosa tendenza del califfo non gli permetteva di fermarsi là. Egli aveva studiato molto per suo piacere durante la vita del padre e si era acquistato una grande somma di conoscenze, ma non tante tuttavia da esserne pago. Infatti egli voleva conoscere tutto: anche le scienze che non esistono. Volentieri proponeva dispute con i dotti; ma non permetteva loro di sostenere con accanimento un parere contrario al suo. Chiudeva la bocca con doni a quelli che se la lasciavano chiudere; quanto agli altri che le sue liberalità non bastavano a soggiogare, li mandava in prigione perché si raffreddassero il sangue, rimedio generalmente efficace.

Vathek manifestava anche una predilezione per le controversie teologiche; ma abitualmente non teneva dalla parte degli ortodossi. In questo modo induceva i bigotti a opporsi a lui e quindi li perseguitava, giacché in ogni caso risolveva di aver ragione.

Il gran profeta, Maometto, di cui i califfi sono i vicari, considerava con indignazione dall'alto del suo settimo cielo la condotta irreligiosa di un tale viceré. — Lasciamolo a sé stesso, — disse ai genî che sono sempre pronti a ricevere i suoi comandi, — vediamo fin dove lo porteranno la sua follía e la sua empietà: se cade nell'eccesso sapremo come castigarlo. Aiutatelo quindi a finire la torre che egli ha cominciato imitando Nimrod; non come quel gran guerriero per evitare di essere annegato, ma per l'insolente curiosità di penetrare i segreti del cielo: egli non indovina il fato che l'aspetta.

I genî obbedirono; e quando gli operai avevano elevato l'edificio di un cubito durante il giorno, altri due cubiti venivano aggiunti la notte. La speditezza con cui la fabbrica cresceva era un non piccolo motivo di adulazione per la vanità di Vathek: egli fantasticava che anche la materia insensibile mostrasse una disposizione a favorire i suoi disegni; non considerando che il successo dello sciocco e del malvagio è appunto la prima verga del loro castigo.

L'orgoglio di Vathek arrivò al culmine quando, dopo essere salito per la prima volta per i mille e cinquecento gradini della torre, volse di lassù lo sguardo e vide uomini non piú grandi di formiche, montagne che parevano conchiglie, e città simili ad alveari. L'idea che una tale altezza gli ispirò della propria potenza lo frastornò totalmente; era quasi sul punto di adorarsi da sé quando, rivolti gli occhi in su, vide le stelle tanto alte sul suo capo quanto apparivano allorché egli si trovava sulla superficie della terra. Si consolò tuttavia di questa inopportuna e spiacevole constatazione della propria piccolezza col pensiero di essere grande agli occhi degli altri; e si lusingò che la luce della sua mente sarebbe andata oltre il raggio dello sguardo e avrebbe strappato alle stelle i segreti del suo destino.

Con questa idea il temerario principe passò la maggior parte delle sue notti in cima alla torre, finché, iniziato ai misteri dell'astrologia, immaginò che i pianeti gli avessero rivelato le piú meravigliose avventure che dovevano compiersi per mezzo di uno straordinario personaggio venuto da un paese assolutamente ignoto. Spinto da motivi di curiosità, egli era sempre stato cortese verso i forestieri; ma da quel momento raddoppiò la sua attenzione e ordinò che fosse annunciato a suon di tromba per tutte le vie di Samarah che nessuno dei suoi sudditi, sotto pena della disgrazia sovrana, dovesse alloggiare o tenere presso di sé un viaggiatore, ma immediatamente portarlo al palazzo.

Non molto tempo dopo questo proclama, arrivò alla capitale, un uomo di una bruttezza cosí abominevole, che perfino le guardie che lo arrestarono furono costrette a voltare gli occhi dall'altra parte mentre lo portavano via. Anche il califfo apparve turbato da un aspetto cosí mostruoso; ma la gioia successe a questo moto di orrore quando lo straniero spiegò alla sua vista tali rarità, quali egli aveva mai viste prima né altrimenti immaginate.

In verità nulla fu mai cosí straordinario come le mercanzie offerte dallo straniero. Molte di esse, non meno ammirabili per la fattura che per il pregio della materia, portavano inoltre le loro diverse virtù descritte in una pergamena. C'erano pantofole che con i loro balzi spontanei facevano correre da solo il piede; coltelli che tagliavano senza che fosse necessario muovere la mano; sciabole che colpivano da sole la persona che si desiderava ferire; e tutto arricchito con gemme fino ad allora sconosciute.

Le sciabole, le cui lame emanavano un vago riflesso, attirarono piú di tutto il resto l'attenzione del califfo, il quale si propose di decifrare a suo piacere i bizzarri caratteri che portavano incisi sul fianco. Perciò, senza domandare il prezzo, fece portare dal suo tesoro tutto l'oro in moneta che vi si trovava, e ingiunse al mercante di prendere quello che voleva. Lo straniero obbedí, ne prese un poco, e rimase silenzioso.

Vathek, pensando che il silenzio del mercante fosse dovuto alla soggezione che la sua presenza ispirava, lo incoraggiò a farsi avanti e gli chiese con aria di condiscendenza chi era, da dove veniva e dove si era procurato oggetti cosí belli e preziosi. L'uomo, o meglio il mostro, invece di dare una risposta si grattò tre volte la testa che, come il resto del corpo, era piú nera dell'ebano; si batté quattro volte la pancia che aveva enorme e prominente; spalancò i grandi occhi che ardevano come tizzoni; e cominciò a ridere con orribile rumore scoprendo i lunghi denti color d'ambra striati di verde.

Il califfo, benché alquanto turbato, ripeté la sua domanda senza riuscire a ottenere una risposta. Al che, cominciando a irritarsi, esclamò: — Sai tu, sciagurato, chi sono e di chi osi farti giuoco? — Poi, rivolgendosi alle sue guardie: — Lo avete udito parlare? È muto? — Ha parlato, — risposero le guardie, — ma senza senso. — Fatelo parlare di nuovo, — ordinò Vathek, — e poi ditemi chi è, da dove viene e dove si è procurato queste singolari curiosità; o giuro, per l'asina di Balaam, che lo farò pentire della sua pertinacia.

Questa minaccia fu accompagnata da uno degli atroci sguardi d'ira del califfo, che lo straniero sostenne senza la minima emozione, benché i suoi occhi fossero fissi su quello terribile di Vathek.

Le parole non possono descrivere la costernazione dei cortigiani quando si accorsero che quel rozzo mercante sosteneva inalterato il confronto. Tutti caddero prostrati con la faccia a terra, per non mettere a repentaglio la vita; e sarebbero rimasti in tale abietta posizione se il califfo non avesse esclamato in tono furibondo: — Su, codardi! prendete il miscredente! E guardate che sia messo in prigione e custodito dai miei migliori soldati! Fategli tuttavia tenere i denari che gli ho dati; non è mia intenzione togliergli quello che è suo: voglio solo che parli.

Non aveva ancora pronunciato queste parole che lo straniero fu circondato, afferrato, legato in ceppi; quindi trascinato alla prigione nella grande torre, che era tutta recinta da sette cancelli di ferro, irti in ogni senso di chiodi lunghi e grossi come spiedi. Il califfo nondimeno rimase nella piú violenta agitazione. Si sedette a mensa; ma dei trecento piatti che si portavano tutti i giorni non poté assaggiarne piú di trentadue.

Un digiuno a cui era cosí poco abituato sarebbe bastato da solo a impedirgli di dormire; quale doveva esserne l'effetto quando si univa l'agitazione che opprimeva il suo spirito? Al primo chiarore dell'alba egli si avviò in fretta alla prigione a interrogare di nuovo l'intrattabile straniero: il suo furore superò ogni limite quando trovò la prigione vuota, le inferriate divelte e la guardia stesa senza vita tutt'intorno. In un parossismo di rabbia si buttò furiosamente sulle povere carcasse e le prese a calci fino a sera senza interruzione. I cortigiani e i visir adoperarono tutti i loro sforzi per calmare questa stravaganza; ma trovando inefficace ogni espediente si unirono in un unico clamore: — Il califfo è diventato pazzo! Il califfo è uscito di sé!

Il grido, che presto risuonò per le strade di Samarah, arrivò infine alle orecchie di Carathis, madre di Vathek, che accorse nella piú grande costernazione a spiegare il proprio potere sulla mente del figlio. Le lacrime e le carezze di lei richiamarono l'attenzione di Vathek, che si lasciò convincere dalle insistenze materne a farsi portare di nuovo al palazzo.

Carathis, preoccupata all'idea di lasciare Vathek a se stesso, lo fece mettere a letto e, seduta accanto a lui, tentò con la sua conversazione di pacificarlo e di placarlo. E nessuno avrebbe potuto tentarlo con piú fortuna; perché il califfo non solo amava Carathis come madre ma la rispettava come una persona di genio superiore. Era lei che, essendo greca, lo aveva convinto a adottare le scienze e i metodi del suo paese, da cui i buoni musulmani aborrono cosí decisamente.

L'astrologia giudiziale era una di quelle scienze in cui Carathis era perfettamente versata. Cominciò quindi col ricordare a suo figlio la promessa che le stelle gli avevano fatta e lo informò della sua intenzione di consultarle di nuovo. — Ahimè! — disse il califfo appena poté parlare: — che pazzo sono stato! Non per aver dato quarantamila calci alle mie guardie che cosí supinamente hanno accettato la morte; ma per non aver considerato che quell'uomo straordinario era lo stesso annunciatomi dai pianeti: lui, che avrei dovuto conciliarmi con tutte le arti della persuasione invece di maltrattarlo.

— Il passato, — disse Carathis, — non si può richiamare; ma ci esorta a pensare al futuro. Forse potrai vedere di nuovo la persona che rimpiangi tanto; può darsi che le iscrizioni sulle sciabole ci diano qualche indizio. Mangia quindi e riposati, mio caro figlio. Domani penseremo al modo di agire.

Vathek accondiscese come poté al consiglio della madre e la mattina si alzò con la mente piú tranquilla. Si fece portare immediatamente le sciabole e, guardandole attraverso un vetro colorato perché, cosí lucenti, non dessero riflessi, si dispose con la piú grande serietà a decifrare le iscrizioni. Ma i suoi reiterati tentativi furono tutti inutili, invano si batté la testa e si morse le unghie, non gli fu possibile riconoscere una sola lettera. Una delusione cosí amara lo avrebbe di nuovo stravolto se per fortuna Carathis non fosse entrata nell'appartamento.

— Abbi pazienza, figlio mio! — ella disse; — certo tu possiedi ogni scienza importante, e la conoscenza delle lingue è una futilità buona solo per pedanti. Annunzia in un proclama che conferirai ricompense quali si addicono alla tua grandezza a chi interpreterà quello che tu non capisci e che non è degno di te studiare; e la tua curiosità sarà presto soddisfatta.

— Può essere, — disse il califfo, — ma nello stesso tempo io sarò orribilmente disgustato da una folla di cialtroni che verranno alla prova sia per il piacere di raccontare le loro frottole, sia per la speranza di guadagnarsi la ricompensa. Per evitare questo fastidio sarà opportuno aggiungere che io manderò a morte chi non riuscirà a soddisfarmi; perché, grazie al cielo, sono abbastanza abile da distinguere se un uomo traduce o inventa.

— Su questo non ho dubbi, — disse Carathis, — ma mandare a morte gli ignoranti mi sembra piuttosto severo e può avere effetti nocivi. Contentati di fare bruciare loro la barba: le barbe in uno stato non sono cosí essenziali come gli uomini.

Il califfo si piegò alle ragioni della madre e, mandato a chiamare Morakanabad, il suo primo visir, disse: — Fa' proclamare dai pubblici araldi, non solo a Samarah, ma in ogni città del mio impero, che chiunque comparirà qui e saprà decifrare certi caratteri che si presentano incomprensibili avrà modo di sperimentare quella liberalità per cui sono famoso; ma tutti quelli che mancheranno alla prova avranno la barba bruciata fino all'ultimo pelo. Fa' aggiungere anche che assegnerò cinquanta belle schiave e altrettante ceste di albicocche dell'isola di Kirmith a chi mi porterà notizie dello straniero.

Ai sudditi del califfo, essendo come il loro sovrano ammiratori delle belle donne e delle albicocche di Kirmith, venne l'acquolina in bocca, ma furono assolutamente incapaci di soddisfare le loro bramosie perché nessuno sapeva che cosa fosse successo dello straniero.

Diverso fu il risultato dell'altra inchiesta del califfo. I dotti, i semidotti, e quelli che non lo erano affatto ma si ritenevano pari alle due prime categorie, vennero audacemente a mettere a rischio le loro barbe e tutti miseramente le perdettero. L'esazione di questo tributo, giudicato incarico adatto per gli eunuchi, diede loro una tale puzza di peli bruciati da disgustare oltremodo le signore del serraglio e da rendere necessario il trasferimento in altre mani di questa nuova occupazione dei loro custodi.

Finalmente si presentò un vecchio, la cui barba era un cubito e mezzo piú lunga di tutte le altre apparse prima. Gli ufficiali del palazzo si sussurravano a vicenda mentre lo introducevano: — Che peccato, che gran peccato che una simile barba debba essere bruciata! — E anche il califfo condivise il loro rammarico quando la vide; ma la sua preoccupazione fu vana. Quel venerabile personaggio lesse i caratteri con facilità e li spiegò a voce come segue: — Noi siamo stati fatti dove ogni cosa è ben fatta, siamo l'ultima delle meraviglie di un luogo dove tutto è meraviglia e tutto merita lo sguardo del primo potente della terra.

— Tu traduci mirabilmente! — gridò Vathek. — So a che cosa alludono questi meravigliosi caratteri. Che riceva tante vesti preziose e tante migliaia di zecchini d'oro quante parole ha pronunciate. In certo modo mi sento libero dalla perplessità che mi imbarazzava —. E Vathek invitò il vecchio a cena e a fermarsi per qualche giorno nel palazzo.

Disgraziatamente per lui il vecchio accettò l'offerta. Infatti la mattina dopo il califfo lo fece chiamare e gli disse: — Leggi di nuovo quello che hai già letto; non posso stancarmi di sentire la promessa che mi viene fatta e che anelo di vedere realizzata —. Il vecchio si mise subito un paio di occhiali verdi, che di colpo gli caddero dal naso quando si accorse che i caratteri che aveva letti il giorno prima erano scomparsi per dare luogo ad altri di differente significato. — Perché ti turbi,— domandò il califfo, — e cosa sono questi segni di meraviglia? — Sovrano del mondo, — rispose il vecchio: — queste sciabole parlano oggi un altro linguaggio da quello che parlavano ieri. — Cosa dici? — replicò il califfo. — Non importa; dimmi, se puoi, che cosa significano.

— Questo, Signore — balbettò il vecchio: — Guai al temerario mortale che tenta di conoscere ciò di cui deve restare ignaro, e di intraprendere ciò che è oltre i suoi poteri.

— E guai a te! — gridò il califfo in un impeto d'indignazione: — Oggi hai perduto l'intelletto. Via dalla mia presenza, e ti bruceranno solo la metà della barba perché ieri sei stato fortunato nell'indovinare; nei miei doni non torno mai indietro —. Il vecchio, abbastanza saggio da accorgersi che se l'era cavata felicemente dopo la pazzia di aver rivelato una verità cosí spiacevole, sparí immediatamente e non si fece piú vedere.

Ma non passò molto tempo che Vathek scoprí abbondanti ragioni per rammaricarsi della sua precipitazione; infatti, benché da solo non potesse decifrare i caratteri, studiandoli continuamente si accorse con certezza che cambiavano tutti i giorni; e purtroppo nessun altro candidato si offriva di spiegarli. Quest'occupazione assillante gli riscaldò il sangue, gli confuse la vista e lo portò a uno stato di tale stordimento e fiacchezza che arrivava appena a reggersi in piedi. Tuttavia, anche in condizioni cosí misere, non mancava di farsi portare spesso alla sua torre e si lusingava di poter leggere nelle stelle che consultava qualcosa di piú vicino ai suoi desideri. Ma in questo le sue speranze furono deluse; ché gli occhi offuscati dai vapori del capo cominciarono a rispondere cosí male alla sua curiosità che non osservò se non una nuvola spessa e scura da cui trasse il peggiore degli auspici.

Turbato da tanta ansietà, Vathek perse completamente la salute; lo prese la febbre e l'appetito lo lasciò. Egli che era stato uno dei piú grandi mangiatori della terra divenne altrettanto notevole come bevitore. La sete che lo tormentava era cosí insaziabile che la sua bocca, come un imbuto, era sempre aperta per ricevere le varie bevande che altri gli porgeva, specialmente acqua fredda da cui aveva particolare giovamento.

L'infelice principe, reso ormai incapace di qualunque piacere, fece chiudere i palazzi dei cinque sensi; smise di apparire in pubblico, di spiegare la sua magnificenza e di amministrare la giustizia; e si ritirò nell'appartamento piú intimo del suo harem. Siccome era sempre stato un eccellente marito, le mogli, oltremodo turbate da questa deplorevole situazione, offrivano di continuo preghiere alla sua salute e acqua alla sua sete.

Nello stesso tempo la principessa Carathis, la cui afflizione le parole non possono descrivere, invece di limitarsi a piangere e a singhiozzare, si incontrava quotidianamente col visir Morakanabad per trovare qualche cura o qualche mezzo per mitigare il male del califfo. Nella persuasione che la causa del male fosse un incantesimo, essi sfogliarono, pagina per pagina, tutti i libri di magia che potessero indicare un rimedio; e fecero ricercare dovunque con la massima diligenza l'orribile straniero che ritenevano fosse l'incantatore.

A poche miglia da Samarah si trovava un'alta montagna i cui fianchi erano coperti di timo selvatico e di basilico, sulla cui cima vi era un pianoro cosí delizioso che avrebbe potuto essere preso per il paradiso destinato ai fedeli. Vi crescevano cento arbusti di rose canine e altre piante fragranti; cento cespugli di rose intrecciati con gelsomini e caprifogli; altrettanti boschetti di aranci, cedri e limoni, le cui fronde, confuse coi rami di palma, coi tralci delle viti e con i melograni, offrivano ogni delizia che possa rendere felice la vista o il gusto. Il terreno era tappezzato di violette, campanule e viole del pensiero, fra cui ciuffi di giunchiglie, giacinti e garofani profumavano l'aria. Quattro sorgenti tanto profonde quanto limpide, e cosí ricche da dissetare dieci eserciti, sembravano scaturite lí apposta per rendere il giardino piú simile all'Eden irrigato dai quattro fiumi sacri. Qui l'usignolo cantava la nascita della rosa, sua prediletta, e insieme lamentava la sua beltà di breve vita; mentre il colombo piangeva la perdita di piaceri piú sostanziali e la mattutina allodola celebrava il sorgere del sole che ravviva l'intero creato. Qui piú che altrove le melodie confuse degli uccelli esprimevano le diverse passioni da cui sono ispirate; e i frutti squisiti che essi potevano beccare a loro piacimento, sembravano infondere nei cantori raddoppiata energia.

Su questa montagna si faceva portare spesso Vathek per respirare un'aria piú pura e soprattutto per bere a volontà alle quattro fontane. Suoi compagni erano la madre, le mogli e alcuni eunuchi che si occupavano assiduamente di riempire capaci bacini di cristallo di rocca e gareggiavano nel presentarli al califfo. Ma spesso avveniva che la sua avidità superava il loro zelo, tanto che egli giungeva a buttarsi per terra e ad abbeverarsi dell'acqua sempre insufficiente.

Un giorno, mentre l'infelice principe stava da lungo tempo in posizione cosí degradante, una voce rauca ma forte lo apostrofò in tal modo: — Perché ti rendi simile a un cane, o califfo, tu cosí orgoglioso della tua dignità e della tua potenza? — A questo richiamo egli sollevò il capo e vide lo straniero causa di tanta afflizione. Infiammato d'ira a una tal vista, esclamò: — Maledetto Giaurro, cosa vieni a fare qui? Non ti basta di aver trasformato un principe notevole per la sua agilità in un otre d'acqua? Non ti accorgi che io rischio di morire tanto di sete quanto per aver troppo bevuto?

— Bevi allora questa pozione, — disse lo straniero presentandogli una fiala piena di una mistura gialla e rossa; — e perché possa placare la sete della tua anima come quella del corpo, sappi che io sono un indiano, ma di una regione dell'India che nessuno conosce.

Il califfo, felice di vedere le sue aspirazioni in parte soddisfatte e lusingandosi con la speranza di poterle presto esaudire, senza un attimo d'esitazione ingoiò la bevanda e immediatamente sentí tornare la salute, calmarsi la sete e le membra muoversi di nuovo agili come una volta. In un trasporto di gioia egli saltò al collo dello spaventoso indiano, baciò la sua orrenda bocca e le guance cave, come se fossero state le labbra di corallo e i gigli e le rose delle sue piú leggiadre mogli.

E questi trasporti non sarebbero cessati se non fosse intervenuta a calmarli l'eloquenza di Carathis. Dopo aver convinto il figlio a tornare a Samarah, ella ordinò a un araldo di gridare il piú forte possibile: «Il portentoso straniero è ricomparso; ha guarito il califfo; ha parlato! ha parlato!»

Subito tutti gli abitanti della grande città lasciarono le loro case e corsero in folla a vedere il passaggio di Vathek e dell'indiano, che ora benedicevano quanto l'avevano prima esecrato, ripetendo continuamente: «Ha salvato il nostro sovrano; ha parlato! ha parlato!» Né queste parole furono scordate nelle feste pubbliche celebrate la stessa sera a testimonianza della gioia generale: infatti i poeti le applicavano come coro a tutti i canti composti su quell'interessante argomento.

Intanto il califfo aveva fatto aprire i palazzi dei cinque sensi e, trovandosi naturalmente disposto a visitare prima degli altri quello del gusto, ordinò subito uno splendido banchetto a cui furono invitati i grandi ufficiali e i favoriti della corte. L'indiano, che era stato messo accanto al principe, mostrava di credere che, per riconoscimento di un cosí alto privilegio, egli non dovesse aver limiti nel mangiare, né nel bere, né nel parlare. Le varie pietanze non erano ancora servite che subito sparivano con grande mortificazione di Vathek, il quale si piccava di essere il piú grande mangiatore vivente e che quella volta in particolare era aiutato da un eccellente appetito.

Il resto della compagnia si guardava in faccia stupefatto; ma l'indiano, senza mostrare di accorgersene, rovesciava grandi bicchieri alla salute di ciascuno dei presenti; cantava in uno stile del tutto stravagante; raccontava storie di cui rideva in modo sguaiato; non cessava di profondere versi estemporanei che non si sarebbero potuti dire brutti se non fosse stato per le strane boccacce da cui erano accompagnati. In una parola, la sua loquacità fu pari a quella di cento astrologi; egli mangiò come cento portieri; e bevve in proporzione.

Il califfo, nonostante che la tavola fosse stata servita trentadue volte, si sentiva infastidito dalla voracità dell'ospite il quale era sceso considerevolmente nella sua stima. Comunque, non volendo tradire una preoccupazione che difficilmente avrebbe potuto nascondere, sussurrò a Bababalouk, il capo dei suoi eunuchi: — Vedi che enormi risultati egli raggiunge in ogni campo; quali sarebbero le conseguenze se si interessasse delle mie mogli! Va', e raddoppia la tua vigilanza, e abbi cura soprattutto delle mie circasse che piú delle altre risponderebbero forse al suo gusto.

L'uccello del mattino aveva tre volte ripetuto il suo canto, quando fu annunciata l'ora del Divano. Vathek, che aveva promesso di esservi presente per gratitudine verso i suoi sudditi, immediatamente si alzò da tavola e si avviò all'udienza appoggiandosi al visir che lo reggeva appena; tanto il povero principe era stravolto dal vino che aveva bevuto e piú dalle stravaganti facezie del suo selvaggio ospite.

I visir, gli ufficiali della corona e della legge, si disposero in semicerchio intorno al sovrano e mantennero un rispettoso silenzio; mentre l'indiano, che aveva un aspetto fresco come se fosse rimasto digiuno, si sedette senza cerimonie su uno dei gradini del trono, ridendo fra sé dell'indignazione che quell'atto talmente temerario aveva suscitato fra gli astanti.

Intanto il califfo, che aveva le idee confuse e la testa pesante, cominciò ad amministrare giustizia a caso; finché il primo visir, accortosi della situazione, escogitò un improvviso espediente per interrompere l'udienza e salvare la dignità del suo padrone, sussurrandogli all'orecchio: — Signore, la principessa Carathis, che ha trascorso la notte consultando i pianeti, vi informa che essi annunziano sventura e che il pericolo è urgente. State attento che questo straniero, che voi avete cosí munificamente ricompensato per i suoi magici ninnoli, non abbia in animo qualche attentato alla vostra vita; il suo liquore, che in principio sembrava potervi curare, può essere nient'altro che un veleno di prossimo effetto. Non disprezzate questo consiglio; domandategli almeno di che cosa era composto, dove se l'è procurato; e ricordatevi le sciabole che sembrate aver dimenticato.

Vathek, per il quale l'aria insolente dello straniero diventava ogni momento piú insopportabile, fece capire al visir con un cenno d'acquiescenza che avrebbe adottato il suo consiglio; e rivolgendosi a un tratto all'indiano disse: — Alzati e dichiara in pieno Divano di che droghe era composto il liquore che mi hai fatto prendere, perché si sospetta che fosse un veleno; dammi anche quella spiegazione che io ho cosí ardentemente desiderato circa le sciabole vendute da te; cosí mostrerai la tua gratitudine per i favori di cui sei stato fatto segno.

Dopo aver pronunciato queste parole con un tono per quanto era possibile moderato, aspettò in silenzio una risposta. Ma l'indiano, restando seduto, ricominciò a ridere rumorosamente e fece le stesse smorfie che aveva fatto prima, senza concedere una parola di risposta. Vathek, che non era piú in grado di sopportare una simile insolenza, con una pedata lo buttò giù dai gradini; quindi scese dal trono, gli assestò un altro calcio e continuò con tale assiduità da indurre tutti quelli che erano presenti a seguire il suo esempio. Ogni piede si sollevò e colpí l'indiano, e non appena uno dei presenti gli aveva dato un calcio si sentiva costretto a ripetere il colpo.

Lo straniero dava a tutti un notevole incitamento perché, piccolo e grasso, si era ridotto simile a una palla e rotolava da tutte le parti sotto i calci degli assalitori, i quali si affannavano a corrergli dietro con un'assiduità incredibile e crescevano sempre di numero. La palla infatti, passando da un appartamento all'altro, si tirava dietro chiunque si trovasse sulla sua strada, tanto che l'intero palazzo fu messo a soqquadro e risonò di un tremendo clamore. Le donne dell'harem, sorprese dallo strepito, corsero alle porte per scoprirne la causa; ma appena ebbero visto il passaggio della palla, incapaci di trattenersi si liberarono dalle strette degli eunuchi, i quali invano le pizzicavano a sangue per fermarle. Essi stessi, pur tremando per la fuga delle loro pupille, non erano meno incapaci di resistere a quella forza d'attrazione.

Dopo avere traversato gli atrii, le gallerie, le camere, le cucine, i giardini e le stalle del palazzo, l'indiano continuò la sua corsa attraverso i cortili; mentre il califfo, inseguendolo piú da vicino di tutti gli altri, gli assestava quanti piú calci poteva; non senza ricevere di quando in quando quelli che i suoi competitori nella loro precipitazione destinavano alla palla.

Carathis, Morakanabad e due o tre vecchi visir la cui saggezza aveva fino allora contenuto l'impulso a correre, volendo evitare che Vathek si esponesse cosí in presenza dei sudditi, si buttarono per terra a impedire l'inseguimento; ma Vathek, noncurante degli intralci, passò sopra le loro teste e continuò come prima. Essi ordinarono allora ai muezzin di chiamare il popolo alla preghiera, se non altro per allontanare la gente e per stornare con implorazioni la calamità; ma nessuno di questi espedienti si mostrò efficace. La vista della fatale palla bastava a trascinare qualunque spettatore. Gli stessi muezzin, benché la vedessero da lontano, si precipitavano giù dai minareti e si mescolavano alla folla che cresceva in modo cosí sorprendente che in ultimo, non un solo abitante rimase a Samarah, eccetto i vecchi, i malati costretti a letto e i lattanti, le cui nutrici potevano correre piú spedite senza di loro. Anche Carathis, Morakanabad e gli altri erano ormai della partita. Gli urli acutissimi delle donne che erano fuggite dai loro appartamenti e non sapevano liberarsi dalle spinte della folla, insieme con quelli degli eunuchi che si accalcavano dietro, terrificati al pensiero di perdere di vista il loro tesoro; le maledizioni dei mariti che accorrevano e si minacciavano a vicenda; calci dati e ricevuti; inciampi e cadute a ogni passo; in una parola la confusione che universalmente si diffuse, rese Samarah simile a una città presa dal turbine o abbandonata al saccheggio. In ultimo il maledetto indiano, che manteneva la sua rotondità di figura dopo essere passato attraverso tutte le strade e le piazze pubbliche e averle lasciate vuote, rotolò verso la piana di Catoul e imboccò la vallata ai piedi della montagna delle quattro fontane.

Siccome la caduta continua dell'acqua aveva scavato nella valle una immensa voragine, chiusa alle due parti da ripide scarpate, il califfo e i suoi compagni temettero che la palla potesse andare a finire in quel baratro e per impedirlo raddoppiarono i loro sforzi; ma invano. L'indiano continuò nella folle corsa; e, come si temeva, spiccato il volo dall'orlo del precipizio con la rapidità di un fulmine, si perse nella voragine sottostante.

Vathek avrebbe seguito il perfido Giaurro se una forza invisibile non avesse arrestato la sua corsa. La folla che si spingeva dietro a lui fu di colpo fermata allo stesso modo; e istantaneamente regnò la calma. Tutti si guardarono in faccia con aria attonita; e benché i veli e i turbanti perduti, gli abiti stracciati e la polvere mista al sudore costituissero uno spettacolo dei piú comici, non si vide un sorriso. Al contrario, con sguardi di confusione e di tristezza, ritornarono tutti in silenzio a Samarah e si ritirarono nei loro appartamenti piú segreti, senza riflettere che era stato un potere invisibile a costringerli a quelle stravaganze che ora si rimproveravano. E del resto è giusto che gli uomini, i quali cosí spesso si arrogano come merito proprio un bene di cui non sono che strumenti, si attribuiscano assurdità che non è stato in loro potere evitare.