Utente:Utoutouto/Povera gente
Oh, che peste questi romanzieri! Invece di scrivere qualcosa di utile e di piacevole che ti sollevi, si danno a scovare tutti i fatterelli e le miserie della vita. Per me, gli proibirei di scrivere. Figurarsi: leggi, e tuo malgrado pensi, e ti vengono in mente ogni sorta di sciocchezze... Parola mia, gli proibirei di scrivere; proibizione assoluta.
Varvara Alekséevna mia impareggiabile!
Ieri sono stato felice, felicissimo, arcifelice! Una volta almeno, caparbietta che siete, mi avete dato retta. Verso le otto di sera, mi sveglio (voi già sapete, cara, che dopo l’ufficio mi piace schiacciare un sonnellino), prendo la bugia, preparo i miei fogliacci, tempero la penna, e così a caso alzo gli occhi... parola d’onore, il cuore mi dà un tuffo! Come avevate imbroccato il mio desiderio, il desiderio di questo mio cuoricino! Vedo alla vostra finestra una cocca della tendina ripiegata e appuntata al vaso di gelsomini, proprio come io una certa volta vi accennai; e mi sembrò anche, così tra luce e ombra, di veder balenare il vostro visino, e che voi guardaste dalla mia parte, e che pensaste a me. E che dispetto, che quel visino aggraziato non mi riuscisse di distinguerlo a dovere! Una volta, ve lo garantisco io, mia buona amica, non mi faceva difetto la vista. Brutta bestia la vecchiaia! Adesso, vedo tutto in nebbia. Basta un po’ lavorare di sera, scribacchiare due righe, ed eccoti la mattina con gli occhi rossi e lacrimosi, che è una vergogna mostrarti alla gente. Eppure, se sapeste come nella fantasia mi brillava il vostro bel visino, angioletta mia, il vostro sorriso così buono e dolce; e io mi sentivo dentro un non so che, come quella volta... vi ricordate, Vàren’ka?... quella volta che vi baciai. Mi sembrò allora che un vostro ditino mi minacciasse... Non è così, birichina?... Non vi scordate, badiamo, di descrivere tutto questo nella vostra lettera.
E dite un po’, bella pensata la nostra a proposito di quella tendina, eh? Graziosissima, non vi pare? Sia che lavori, che vada a letto o che mi svegli, so già che voi pensate a me, che di me vi ricordate, e che state bene e di buon umore. Abbassate la tendina, vuol dire: addio signor Makàr, è ora di andare a cuccia! L’alzate, vuol dire: buon giorno, signor Makàr, come avete dormito, come state? quanto a me, grazie a Dio, sana e fresca come una rosa! Niente di più spiccio e ingegnoso; e non c’è bisogno di lettere! Una pensata proprio sottile, eh? Ed è a me che è venuta in testa. In queste faccende qui, non c’è chi mi superi.
Vi faccio sapere, cara amica mia, che stanotte, contro ogni aspettativa, ho fatto una bella dormita, e ne sono contentissimo. Si sa che un alloggio nuovo non ti fa chiudere occhio: c’è tutto, ma ci manca sempre qualcosa. Stamani, comunque, mi sono alzato vegeto, arzillo come un fringuello! Che bella giornata oggi! Aperta appena la finestra, eccoti il sole, eccoti gli uccelletti che cinguettano, ecco l’aria pregna di profumi, eccoti la natura che si ravviva, e tutto il resto in corrispondenza, tutto in perfetta regola, tutto come deve essere in primavera. E quanti bei pensieri mi sono venuti, sempre, s’intende, a proposito di voi, Vàren’ka. Vi ho paragonata a un uccellino, creato apposta per la gioia degli uomini e ornamento della natura. E poi anche ho pensato che noi, sempre afflitti e tribolati, dobbiamo invidiare la sorte dei pennuti spensierati e innocenti; e poi tante altre cose simili, cioè, dico, sono andato facendo tanti di questi paragoni astratti. Io ho un libretto, Vàren’ka, dove tutto questo è stampato punto per punto. Voglio dire che i pensieri vanno e vengono e ce n’è di ogni sorta. Adesso, per esempio, siamo in primavera, la mente è più fresca, più aperta, e i pensieri sono tutti color di rosa. Perciò ho scritto questo, ma l’ho pigliato dal mio libretto, sapete. L’autore, figuratevi, esprime un suo stato d’animo in versi e dice:
Perché non nacqui uccello, uccel selvatico?
eccetera. Ci sono poi anche tante altre cose, ma lasciamole lì. Ditemi, piuttosto, dove correvate stamani, Varvara? Ancora non mi disponevo a recarmi in ufficio, e voi via dalla vostra camera, e giù attraverso il cortile, svelta e leggera proprio come uno di questi uccelletti! Che allegria solo a guardarvi! Ah, Vàren’ka, Vàren’ka! non affliggetevi mai; con le lacrime non si smorza la pena; questo io lo so, anima mia, lo so per prova. Adesso vi godete la vostra pace, e anche di salute state meglio. E che fa la vostra Fedora? Che brava, brava donna! Scrivetemi, Vàren’ka, come vi siete aggiustata con lei, se siete contenta. Fedora, sapete, è un po’ brontolona; ma voi non ci badate. Lasciate che brontoli. È tanto buona.
Della Tereza di qui vi ho già scritto: buona donna anche lei, e fidata per giunta. E io che mi davo tanta pena per le nostre lettere! Come e per chi spedirle? Ed ecco che la Provvidenza ci manda Tereza. È buona, vi dico, mite, di poche parole. Ma la nostra padrona di casa, quella sì che non ha ombra di pietà: la fa lavorare e la strapazza peggio di uno straccio.
E se vedeste, Varvara, in che stambugio sono capitato! Proprio un bell’alloggio! Prima, come sapete, vivevo da gufo; tranquillo, quieto, sentivo perfino volare una mosca. Qui invece, grida, strepiti, il finimondo! Ma già, io non v’ho detto come stanno le cose qui. Figuratevi un lungo corridoio, scuro, sudicio. A destra una parete cieca, a sinistra porte e porte, un’infilata di celle. Queste vengono prese in affitto da una persona, e anche da due e da tre. Quanto a ordine, non se ne parla: una vera arca di Noè! Brava gente, del resto, gente educata, istruita anche. C’è un tale, impiegato non so in che ufficio letterario, un dotto da sbalordire: vi discorre di Omero, di Brambeus, di tanti scrittori, e di tutto: un pozzo di scienza! Ci sono anche due ufficiali, che giocano sempre a carte. C’è poi un sottotenente di marina e un maestro. Aspettate, che vi farò ridere; ve li descriverò uno per uno nella prossima lettera, criticamente, cioè tali e quali sono, con tutti i dettagli. La padrona di casa è una vecchietta minuscola e sudicia, sempre in pantofole e veste da camera, e non fa che sgolarsi con Tereza. Io abito in cucina; cioè, per essere più preciso, lasciate che mi spieghi: accanto alla cucina c’è una camera (e la cucina a onor del vero, è pulita, luminosa), una camera non grande, un angolo, diciamo; cioè, per dir meglio, la cucina è spaziosa e ha tre finestre, e c’è da una parte come un tramezzo, tanto da formare un’altra specie di cella, un vano in più: comoda, larga, con la sua brava finestra; in una parola, non mi manca nulla. Questo qui è il mio cantuccio. Non pensate però che ci sia, non so come spiegarmi, qualcosa da nascondere o che io voglia dire e non dire. Io sì, abito proprio in cucina, dietro il tramezzo; ma questo non significa niente. Fatto sta che ho il mio posticino appartato, modesto, tranquillo. Ci ho messo il letto, il tavolino, il comò, un paio di seggiole e anche due immagini a capoletto. Capisco, ci sono alloggi migliori del mio, forse anche molto migliori, ma la comodità è quello che preme; ed è questo che mi ha fatto decidere; badiamo, questo motivo e nessunissimo altro. Ho di faccia a me la vostra finestra; non c’è di mezzo che il cortiletto; vi vedo così di sfuggita, e insomma c’è, diciamo, la consolazione degli occhi e della tasca. Altrove, la camera più meschina, vitto compreso, non costa meno di 35 rubli. Non è pane per tutti i denti. A me, il mio quartierino costa appena 7 rubli di carta alla quindicina1 e 5 in oro per il desinare; sicché mi viene 24 rubli e mezzo al mese; prima invece ne pagavo 30, e mi toccava privarmi di tante cose: non sempre bevevo il tè, mentre adesso mi riesce di avere sempre il denaro per il tè e per lo zucchero. Qui, capite, si fa una magra figura a privarsi del tè: tutta gente perbene, che ha di che spendere, sicché lo si beve, diciamo, per far piacere agli altri, per non farsi biasimare, per salvare l’apparenza: quanto a me fa lo stesso; non sono goloso io. E poi, qualche spicciolo si deve avere in tasca; e poi anche gli imprevisti, un paio di scarpe, un cencio di vestito... Tutto lo stipendio se ne va. Io però non mi lamento; mi basta e avanza. Di tanto in tanto, c’è anche qualche gratifica.
Addio, per ora, angioletto. Ho comprato due piccoli vasi, un gelsomino e un geranio: niente di caro. Ma a voi forse piace anche la reseda? Anche questa c’è, basta che me lo scriviate: scrivete tutto, punto per punto. E badiamo, eh, non andate almanaccando e non vi mettete in pensiero perché ho preso una camera come questa. No, ve l’ho già detto, solo la comodità mi ha fatto decidere, nient’altro. Faccio economie, metto da parte, e ho il mio gruzzolo. Non impressionatevi se mi vedete così melenso, piccino, che una mosca, diciamo, basterebbe a farmi del male. No, amica cara, io so il fatto mio, io ho un carattere come si conviene a una persona per bene, rispettabile. Addio di nuovo. Ho empito poco meno di due facciate, e faccio appena a tempo per l’ufficio. Vi bacio i ditini, stellina mia, e mi ripeto
Vostro umilissimo servo e fedelissimo amico
P.S. Di una cosa vi prego: scrivetemi tutto tutto, preciso. Unisco alla presente, Vàren’ka, una libbra di confetti. Mangiateli con buona salute, e per amor di Dio non state in pena per me e non mi fate il broncio. Addio per davvero, addio.
Gentilissimo signor Makàr Alekséevič!
Lo sapete sì o no che finiremo per bisticciarci sul serio? Vi giuro, mio buon amico, che mi pesa assai accettare i vostri doni. So quel che vi costano, so che vi private di tante cose indispensabili. Quante volte vi ho detto che a me non occorre niente, assolutamente niente; che io non sono in grado di mostrarmi grata per quelle cortesie di cui mi colmate? E a che mi servono questi fiori? Il gelsomino, passi; ma il geranio perché? È bastata una parola detta a caso, come, per esempio, a proposito di questo benedetto geranio, e voi subito lo comprate. Caro, non è così? Com’è fiorito, un amore! Che colori vivi! tante crocette, sembrano di fuoco, dove l’avete scovato un così bel geranio? L’ho messo nel mezzo della finestra, perché si veda bene; metterò uno sgabello a terra, e sullo sgabello altri fiori: lasciate che faccia un po’ di soldi, e poi vedrete! Fedora non sta più nei panni: la camera è proprio un paradiso, così pulita, così luminosa! E i confetti poi perché? Io ho subito indovinato dalla lettera che gatta ci covava: la primavera, i profumi, il cinguettio, gli uccellini. Che mi scriva in versi? ho pensato. Parola d’onore, non ci mancano che i versi nella vostra lettera. Le impressioni dolci, i sogni color di rosa, tutto ci avete messo! Alla tendina non ci avevo pensato; si sarà impigliata da sé, quando aggiustai i vasi sul davanzale: eccovi spiegato il mistero.
Ah, signor Makàr! Per quanto diciate, per quanto possiate magnificare le vostre entrate per darmela a intendere, per mostrarmi che spendete tutto per voi solo, non riuscite a nascondermi nulla di nulla. È chiaro che voi, per amor mio, vi private del necessario. Come vi è venuto in testa, per esempio, di affittare una camera simile? Si capisce che vi disturbano, vi danno fastidio; e poi anche l’angustia, il disagio. Voi amate la solitudine, e vi cacciate in un pandemonio. Davvero potevate trovare di meglio, dato il vostro stipendio. Fedora dice che prima stavate cento volte meglio di adesso. Possibile che abbiate vissuto sempre così, solo, privandovi di tutto, senza gioie, senza una parola amica, occupando un cantuccio in casa di estranei? Ah, mio buon amico, quanto vi compiango. Abbiatevi riguardo almeno, pensate alla vostra salute.
Dite di soffrire con gli occhi: ebbene, smettete di scrivere col lume: che bisogno c’è di scrivere di sera? Anche senza di questo, il vostro zelo dev’essere già noto ai vostri superiori.
Ancora una volta, ve ne prego, non buttate via per me tanto denaro. Lo so che mi volete bene, ma nemmeno voi nuotate nell’oro... Oggi anch’io mi sono alzata di buon umore. Mi sentivo così bene. Fedora lavorava già da un pezzo e ha dato anche a me da lavorare. Figuratevi che piacere: sono discesa un momento a comprare un po’ di seta, e poi subito all’opera. Tutta la mattinata è stata una festa, un’allegria! E adesso da capo: pensieri neri, la malinconia, il solito sconforto.
Ah, che ne sarà di me, chissà che sorte mi aspetta! Questo mi tormenta, che non ho avvenire, che non posso nemmeno indovinare il mio domani. A guardare indietro, mi prendono i brividi. Guai, sempre guai, tanto che solo al ricordo mi si spezza il cuore. Ce l’avrò sempre, sempre con quella cattiva gente che mi ha rovinata!
Si fa scuro. È ora di mettersi al lavoro. Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho tempo. Bisogna che mi sbrighi per il giorno della consegna. Bella cosa le lettere; si scaccia almeno la noia. E dite un po’, perché da noi non ci venite mai? perché, signor Makàr? Siamo a due passi, e qualche ora libera ce l’avete. Venite, fatemi il piacere! Ho veduto la vostra Tereza. Mi pare così cagionevole, poverina: le ho dato venti copechi. Ah sì, a proposito, me ne scordavo: scrivete tutto, con tutti i dettagli, di come vivete. Che persone sono quelle che vi stanno attorno? Ci andate d’accordo? Mi preme assai sapere ogni cosa per filo e per segno. Oggi appunterò apposta la tendina. Cercate di andare più presto a letto; ieri sera ho visto da voi il lume fino a mezzanotte. Addio, per ora. Che uggia stamani, che malinconia! Sarà giornata nera, vuol dire. Addio.
Vostra
Gentilissima signorina Varvara!
Sì, amica mia cara, ho avuto il fatto mio: così era scritto, si vede. Capisco, il povero vecchietto vi ha fatto ridere. Colpa mia, tutta colpa mia! Non mi fossi cacciato, alla mia età, con quattro capelli che mi avanzano, a far l’amorino e lo sdolcinato... È proprio vero, amica mia cara, l’uomo è qualche volta un animale curioso, assai curioso! A momenti, non si sa come, si lascia pigliare la mano e ne sballa di tutti i colori. E che cosa ne viene fuori? Niente di niente, anzi un pasticcio tale che il Signore ci scampi e liberi! Io non me la sono presa a male, no; solo, mi dispiace quando ci ripenso, mi dispiace quando ricordo di avervi scritto tutte quelle stupidaggini. Anche oggi, andando in ufficio, mi sentivo così svelto e leggero che nemmeno un fringuello; mi pareva di andare a nozze. Un’allegria, una festa, così, senza un motivo al mondo. E con che furia mi sono attaccato alle mie cartacce! Ma quello che ne è seguito poi, non vi so dire... Quando, tornato in me, mi sono guardato attorno, tutto come prima, tutto grigio, tutto scuro! Gli stessi sgorbi, le stesse tavole, gli stessi fogli ammonticchiati, lo stesso povero diavolaccio che sono: e allora, che ragione c’era di montare in groppa al cavallo di Pegaso? Ma come spiegarlo, dico io? Forse perché c’era un po’ di sole? forse perché era più sereno del solito? Bel gusto davvero parlare di profumi, quando nel cortile sotto le nostre finestre lo sa Dio se ce n’è per tutti i nasi! Vuol dire che ero scimunito e mi figuravo chissà che. Fatto sta che capita a tutti di sentirsi presi un bel giorno da una certa foga che ti fa scappare di bocca ogni sorta di spropositi. Questo può derivare soltanto dalla piena dei sentimenti, da una furia stupida del cuore. Sono tornato a casa mogio mogio, più strascicando che camminando; di botto, mi ha pigliato un gran mal di capo: la festa, si vede, doveva essere completa. Per giunta, ho sentito non so che freddo alla schiena. Contento come un matto che fosse venuta la primavera, mi ero alleggerito e avevo lasciato a casa il soprabito più pesante. Ma voi, anima mia, avete interpretato a rovescio quelle mie espansioni. La mia, vedete, era una tenerezza paterna, tutta paterna; perché io vi faccio le veci di padre, visto che purtroppo siete orfana: vi dico questo con tutto il cuore, con l’anima, come un parente vero e proprio. Comunque sia la cosa, anche se si tratta di parentela, diciamo così, annacquata, sempre parente vi sono, e adesso, anzi, parente prossimo e protettore; perché proprio lì dove avevate il diritto di cercare protezione e difesa, non avete trovato che perfidia e maltrattamenti. Quanto ai versi poi, vi dirò, figlia mia, che a questa età non è lecito darsi a certi esercizi. I versi sono una cosa stupida. Oggi, a scuola, anche i ragazzi ne fanno, e li sculacciano: ecco come sta la cosa, anima mia.
Ma che mi venite a dire di comodi, di quiete, e che so altro? Io, vedete, non ho pretese, mi contento subito, e non sono mai stato meglio di adesso. Come volete che faccia lo schizzinoso ora che sono vecchio? Nutrito, vestito, calzato: ci mancherebbe che mi facessi pigliare dai fumi. Non discendo da duchi o baroni io! Mio padre non era nobile, e con tutta la famiglia sulle braccia, stentava la vita peggio di me. Non sono tanto delicato, io! Però, a dire tutta la verità, nell’alloggio di prima ci stavo meglio, assai meglio: c’era più come rigirarsi, ecco. Certamente, anche quello di adesso è buono, anzi in un certo senso è anche più allegro se volete, più vario: non dico di no, ma con tutto questo, torno sempre col pensiero a quell’altro. Noi vecchi, cioè, voglio dire, noi gente attempata, ci attacchiamo alle vecchie cose come se fossero sangue nostro. L’alloggio, in sostanza, era un bugigattolo, una scatola; le pareti erano... ma a che serve parlarne?... erano come tutte le pareti, non è di questo che si tratta; è che i ricordi di allora mi mettono addosso tanta, tanta tristezza... E dire che sono ricordi piacevoli. Curioso, vero? Perfino quel che c’era di brutto, e che a momenti mi faceva arrabbiare, mi torna in mente, dirò così, pulito, allegro, simpatico. Si viveva tranquilli io e la mia padrona, buon’anima. Anche il ricordo di quella vecchietta mi fa male al cuore. Brava donna se mai ce ne fu una, e mai esosa. Da mattina a sera non faceva che coperte di tanti scampoli di roba che lavorava a maglia con certi suoi ferri lunghi quasi un metro. Dividevamo la spesa del lume, sicché si lavorava insieme alla stessa tavola. Aveva una nipotina, Maša, mi pare di vederla, sarà adesso sui tredici anni: vispa, birichina, allegra; si viveva insieme tutti e tre. D’inverno, nelle lunghe serate, ci si sedeva intorno alla tavola, si sorbiva il tè, e poi al lavoro. E la vecchietta, per non far annoiare Maša e perché non ne facesse qualcuna delle sue, raccontava tante fiabe. E che fiabe! Non solo una bambina, anche un uomo sarebbe stato lì tutt’orecchi. Io accendevo la mia pipetta, e figuratevi, mi scordavo perfino del lavoro. La bambina poi, il nostro diavoletto, diventava tutta pensosa; poggiava sulla manina la guancia color di rosa, apriva la boccuccia, e quando la storia era di quelle paurose, si stringeva forte forte alla nonna. E che piacere a guardarla! Non ci si accorgeva della candela che si struggeva, non si sentiva il maltempo di fuori e il vento che infuriava. Si stava bene vi dico, Vàren’ka; e così si passarono insieme poco meno di vent’anni. Ma che gran chiacchierone sono io, eh? Forse a voi non piace quest’argomento, e poi anche non fa piacere ricordare queste cose, specialmente adesso che si fa scuro. Tereza si dà un gran da fare, ho sempre mal di capo, e la schiena pure mi tormenta un poco... Già, anche i pensieri mi pare che si lamentino di non so che cosa. Una giornata nera, insomma. Ma che idea è la vostra, amica mia? Come volete che venga a farvi visita? E che dirà la gente? Il cortile non si può fare a meno di attraversarlo; e quindi domande, ciarle, pettegolezzi, cattivi pensieri. No, sarà meglio che vi veda domani ai vespri: è più ragionevole e nessuno ci metterà bocca. E scusatemi, vi prego, se vi ho scritto una lettera così sconclusionata: me ne accorgo ora a rileggerla. Sono vecchio, Vàren’ka, non ho istruzione. Da giovane ho studiato poco, e adesso, se mi ci mettessi, non mi entrerebbe niente in testa. Confesso, amica mia, che le descrizioni non sono il mio forte, e so benissimo da me, senza che qualcun altro me lo dica e se ne rida, che se mi salta in mente di scrivere un po’ meno alla buona, non riesco ad azzeccare due parole come si deve. Oggi vi ho veduta alla finestra, quando avete abbassato la tendina. Addio, addio, che Dio vi protegga! Addio, signorina Varvara.
Vostro sincero amico
P.S. Per oggi non scriverò satire su nessuno. Sono troppo vecchio per mostrare i denti senza ragione. E farei ridere gli altri di me. Voi sapete il proverbio: chi scava a un altro il fosso, ci casca lui per primo.
Gentilissimo signor Makàr!
Non vi vergognate, amico mio e benefattore, di farvi vincere dall’umor nero e per giunta dalle ubbie? Possibile che ve la siate presa a male? Ah, lo so, spesso sono imprudente; ma non mi figuravo che avreste preso le mie parole per uno scherzo cattivo. State sicuro che io non mi permetterò mai di ridere della vostra età e del vostro carattere. È stata leggerezza la mia, e poi anche la noia mortale che mi opprime; e allora a che non ci si appiglia? Io, poi, avevo supposto che anche voi nella vostra lettera intendeste scherzare. Se sapeste quanto mi ha fatto male sapervi in collera con me! No, mio buon amico e benefattore, sbagliate se credete di aver a che fare con una donna insensibile e ingrata. Io so apprezzare nel mio cuore tutto ciò che avete fatto per me, difendendomi da certa gente cattiva, dal loro odio e dalle loro persecuzioni. Io pregherò sempre Dio per voi, e se le mie preghiere saranno accette al cielo, non c’è dubbio che sarete felice.
Oggi non mi sento affatto bene. Ora mi sento di fuoco, ora mi piglia il freddo. Fedora è molto inquieta per me. E avete torto, signor Makàr, con le vostre paure di venire da noi. Che importa alla gente? Siete una mia conoscenza, tutto qui!...
Addio, signor Makàr. Non ho altro da scrivere, e poi non potrei: mi sento così male. Ancora una volta vi prego di non tenermi il broncio e di essere sicuro di tutto quel rispetto e quell’attaccamento, coi quali ho l’onore di ripetermi.
Vostra obbligatissima e devotissima serva
Gentilissima signorina Varvara,
ah, figliola mia cara, che ostinazione è la vostra! Non passa giorno che non mi mettiate addosso una maledetta paura. Non mi stanco di ripetervi in ogni lettera di stare attenta alla salute, di coprirvi bene, di non andare fuori col maltempo, di essere prudente, e voi niente, non mi date retta. Proprio una bambina! Voi siete delicata, debole come un giunco, io lo so. Basta un venticello a farvi ammalare. Sicché badiamo, dico, a stare in guardia, ad avere più cura, a evitare i pericoli, a non dar dispiaceri ai nostri amici.
Voi desiderate che io vi descriva per filo e per segno che vita faccio qui e tutto quel che mi circonda. Vi contento subito, amica mia. Comincerò dal principio, per dirvi le cose in ordine. Prima di tutto, le scale: quella nobile, diciamo così, è pulita, luminosa, larga, tutta ferro e noce. Non mi domandate però di quella di servizio: una misera scaletta a chiocciola, umida, sporca, scalcinata, le pareti così unte che la mano vi si attacca. A ogni pianerottolo, bauli, seggiole, stipi sgangherati, cenci appesi, vetri rotti, tinozze piene di ogni sorta di sudiciume, spazzatura, fango, gusci d’uova, interiora di pesce; un puzzo incredibile. Una brutta cosa, insomma.
Di come sono disposte le camere ve l’ho già scritto: non si può dirle scomode, no; ma pare, non so, che non vi si respiri; non già che ci sia cattivo odore, ma così, un certo che di muffito, di dolciastro, che pizzica il naso. Di primo acchito l’impressione non è favorevole, ma non vuol dire: dopo due soli minuti, tutto passa senza che nemmeno te ne avvedi, perché quel certo odore si attacca alla persona, ai panni, alle mani, a ogni cosa. Ci si fa l’abitudine, insomma. I lucarini ci muoiono. Il sottotenente di marina ne ha già comprati cinque: non è aria per loro, ecco. La cucina è spaziosa, piena di luce. La mattina, a dir la verità, c’è un po’ di fumo, quando friggono il pesce o fanno l’arrosto, e buttano acqua per terra che pare un pantano. La sera, però, si sta in paradiso. A tante corde si vedono appesi panni di ogni sorta. E siccome la camera mia è poco lontana, anzi è attaccata alla cucina, l’odore della biancheria mi dà una certa noia. Ma in fondo è cosa sopportabile: dopo un po’ di tempo si fa l’abitudine a tutto.
Appena spunta giorno, comincia qui da noi, Varvara, una vera baraonda: si alzano, vanno su e giù, battono i tacchi; tutti sono in piedi, chi per andare all’ufficio e chi no, e tutti allo stesso modo devono bere il tè. Di samovàr in casa non c’è abbondanza; sicché si fa a turno chi prima e chi dopo, e se qualcuno si presenta con la sua tazza quando non gli tocca, subito si busca una lavata di capo. La prima volta, poco mancò non ci capitassi io; ma a che serve parlarne? Fu allora che feci conoscenza con tutti. Il primo fu il sottotenente di marina; un ragazzo espansivo, chiacchierone, che lì su due piedi mi raccontò ogni sua cosa: del babbo, della mamma, della sorella maritata a un assessore, della città di Kronstadt. Mi promise ogni sorta di protezione e m’invitò subito in camera sua a bere il tè. Lo ritrovai proprio in quella camera dove di solito si gioca a carte. Mi offrirono il tè, e volevano per forza farmi partecipare a non so che gioco infernale. Se la ridevano fra loro, forse di me, non saprei; fatto sta che tutta la notte non fecero che giocare, e quando ero entrato stavano già con le carte in mano. Un fumo, un polverio di gesso per tutta la camera, che mi sentivo mangiare gli occhi. Io, naturalmente, mi scusai: dissero subito che parlavo da filosofo. Poi nessuno più mi rivolse mezza parola; e io, a dir la verità, ne fui contento. Adesso, si capisce, non ci metterò più piede: un gioco d’azzardo vero e proprio. Anche quel tale che si occupa di letteratura tiene circolo ogni sera. Ma da lui tutta gente per bene, tutto come si deve, tutto distinzione e maniere delicate, tutta finezza!
Quanto alla padrona, vi dirò così di sfuggita, Vàren’ka, che non esiste al mondo una donna più cattiva di lei. Una vera strega. Voi avete conosciuto Tereza, magra come uno stecco, malaticcia, pare un pulcino spennato. In casa non sono che in due: Tereza e Faldoni2, il servo. Non so, può anche darsi che costui abbia un altro nome, ma così lo chiamano tutti, e solo a quel nome risponde. È rosso di capelli, sudicio, guercio, sciancato, villano, con Tereza sono sempre ai ferri corti, e spesso per poco non si accapigliano. In genere, non posso proprio dire che qui io mi ci trovi d’incanto... Che la notte poi tutti dormano a una cert’ora e si chetino, questo non succede mai. Più qua o più là, o si gioca o anche qualche volta succedono cose da vergognarsi a raccontarle. Adesso ci ho fatto il callo, ma sempre mi domando come possa vivere in questa Sodoma chi si trovi ad avere famiglia. C’è per esempio un’intera famiglia di poveracci, tutti insaccati in una sola camera, non però contigua alle altre, ma separata, in un angolo. Gente tranquilla. Non si vede e non si sente. Stanno, dico, in una sola camera, divisa da un tramezzo. Lui, pare, è un impiegato senza posto, mandato via circa sette anni fa per non so che mancanza. Si chiama Gorškòv: un ometto grigio, con indosso un certo vestito unto, sdrucito, che è una passione a guardarlo: peggio, ma peggio assai del mio! Meschino, malaticcio (qualche volta ci incontriamo nel corridoio), gli tremano le ginocchia, le mani, la testa, chissà per effetto di quale malattia: timido, cammina di lato, ha paura di tutti. Io pure, a momenti, soffro dello stesso male; ma questo qui, non c’è paragone. Ha moglie e tre figli. Il più grande è tutto il padre, malaticcio allo stesso modo. La moglie, si vede, dev’essere stata niente brutta a suo tempo; porta una veste, poverina, che fa pietà. Ho inteso dire che sono indebitati con la padrona; fatto sta che questa non li guarda troppo di buon occhio. Mi hanno pure riferito di certe brutte cose, per cui questo Gorškòv perse l’impiego: non so, un processo, un giudizio, un’inchiesta, non vi posso dire con precisione. Certo è che son poveri in canna. In camera loro non si sente volare una mosca, pare che non ci sia anima viva. Nemmeno i ragazzi fiatano, né succede mai che giochino tra loro o facciano chiasso: brutto segno questo. Una sera, per caso, mi trovai a passare davanti alla loro porta; a quell’ora, contro il solito, non c’era per la casa tanto fracasso. Sento un singhiozzo, poi un mormorio, poi ancora un singhiozzo, proprio come se qualcuno piangesse, ma così piano, con tanta passione, che mi sentii stringere il cuore, e poi tutta la notte pensai a questi disgraziati e non mi riuscì di chiudere occhio.
E ora, addio, amica mia inapprezzabile. Vi ho descritto ogni cosa, come meglio ho saputo. Oggi tutto il giorno non faccio che pensare a voi. Non trovo pace. Io lo so, figliola mia, che non avete un mantello caldo. Ah, questa primavera di Pietroburgo! vento, pioggia, nevischio, una vera morte per me, una benedetta temperatura che Dio ne scampi e liberi! Non badate, amica mia, allo scritto: non c’è stile, Vàren’ka non ce n’è neppure l’ombra! Scrivo come viene, così, tanto per tenervi allegra. Se avessi studiato, capisco, sarebbe tutt’altra cosa; ma che scuola ho fatto io? Nemmeno le elementari.
Vostro sincero e costante amico
Gentilissimo signor Makàr,
oggi ho incontrato mia cugina Saša. Che cosa terribile! Anche lei, poverina, sarà rovinata. Ho anche sentito dire che Anna Fëdorovna chiede sempre notizie di me. Non cesserà mai di perseguitarmi, si vede. Dice che vuol perdonarmi, dimenticare il passato, e che senza meno verrà a trovarmi. Dice che voi non mi siete parente nemmeno alla lontana, che lei è la mia parente più stretta, che voi non avete nessun diritto di entrare nei nostri rapporti di famiglia, e che per me è una vergogna vivere di elemosina a carico vostro... dice che io mi sono scordata della sua ospitalità, che lei ci salvò forse, mia madre e me, dal morir di fame; che ci diede da mangiare, che per più di due anni e mezzo si rovinò di spese per noi, e che, oltre a tutto questo, ci condonò il debito. Nemmeno della mamma ha avuto pietà! Se avesse saputo la povera mamma quel che hanno fatto a me! Ma Dio vede tutto... Dice ancora Anna Fëdorovna che io da sciocca non seppi profittare della mia fortuna, della fortuna da lei stessa procuratami; che questa è l’unica sua colpa e che io non seppi, e forse non volli, difendere il mio onore. Ma di chi è la colpa, Dio mio? Dice che il signor Bykòv ha mille volte ragione, che non si sposa una qualunque che... ma perché parlarne? Fa male, fa proprio male sentire queste falsità! Io non so quello che ho adesso. Tremo, piango, singhiozzo: ci ho messo due ore a scrivere questa lettera. Mi aspettavo che quella donna riconoscesse almeno i suoi torti, e vedete invece quello che tira fuori! Per amor del cielo, non vi agitate, amico mio, unica persona al mondo che mi voglia bene! Fedora esagera sempre: no, io non sono ammalata. Nient’altro che un po’ di raffreddore, preso ieri andando a Vòlkovo3 per la mamma. Perché non ci siete venuto anche voi? Ve ne avevo tanto pregato. Ah, povera, povera mamma mia, se tu alzassi il capo dalla tomba, se tu sapessi, se tu vedessi quel che mi hanno fatto!...
Cara, carissima Vàren’ka mia!
Vi mando due grappoli d’uva; dicono che è salutare per una convalescente, e il dottore la raccomanda per la sete, proprio per la sete. Giorni fa, mostraste desiderio di una pianticella di rose: eccovi servita, cara. Come va l’appetito? questa, sapete, è la prima cosa. Del resto, sia lodato Iddio, tutto è passato, tutto è finito, e così pure i nostri guai. Rendiamone grazie al cielo. Quanto ai libri, finora non m’è riuscito di trovarli. C’è, dicono, un libro stupendo, scritto con uno stile magnifico; io non l’ho letto, ma qui tutti ne parlano e lo portano alle stelle. Intanto l’ho chiesto, e me l’hanno promesso. Non so però se lo leggerete. Su questo punto, siete alquanto esigente; non è facile imbroccare i vostri gusti, io vi conosco, bambina mia: scommetto che a voi piacciono le poesie, gli amori, i sospiri; ebbene vi troverò anche i versi, non dubitate; ne ho già copiato un quaderno.
Per quanto mi riguarda, me la passo benone. Non state in pena per me, ve ne prego. Alle chiacchiere di Fedora non date retta; ditele che è una bugiarda, una pettegola, diteglielo senza meno... Io non ho venduto niente affatto la mia uniforme di gala. E perché avrei dovuto venderla, fatemi il piacere? Tra poco, dicono, mi toccherà una gratifica di quaranta rubli d’argento: che bisogno c’è dunque di vendere? State tranquilla, per carità: quella benedetta donna è sospettosa, pensa sempre male. Non temete. Ci rimetteremo in gambe e ce la godremo. Badate solo a guarire, figliola mia cara, badate a guarire, non amareggiate questo povero vecchio! Chi vi ha raccontato che sono dimagrito? Calunnie, invenzioni di sana pianta! Crepo di salute, ingrasso che è una vergogna, sono sazio e contento fino alla gola: manca solo che vi sappia guarita, ecco. Addio; vi bacio le manine e mi riconfermo
Vostro inalterabile amico
P.S. Ma che tornate a scrivermi, bambina mia? Che fantasie sono le vostre! Come fare a venire da voi così spesso? come, me lo dite? Forse col favore della notte; ma adesso, in questa stagione, si può dire che non ci sia notte. Io poi, figliola cara, non mi sono quasi mai staccato da voi tutto il tempo della vostra malattia, tutto il tempo che eravate priva di sensi; io stesso non so come abbia fatto. Poi ho dovuto smettere le visite perché cominciavano già le chiacchiere e le domande. Qui, anche senza di questo, hanno già imbastito una storiella. Di Tereza mi fido; Tereza non è ciarliera; ma ad ogni modo, pensate voi stessa quel che sarà quando sapranno ogni cosa dei fatti nostri! Che penseranno allora, che diranno! Sicché, cara, fatevi animo e forza, pazientate fino a essere guarita; e allora sì, fuori di casa, ci daremo un randevù4 in qualche posto.
Gentilissimo signor Makàr,
ho tanta voglia di farvi cosa gradita per tutte le cure e i fastidi che vi prendete per me, per tutta la vostra bontà, che mi sono decisa alla fine a frugare in fondo al mio comò, e a tirarne fuori il quaderno che vi mando. Lo cominciai in un tempo ben diverso da quello di oggi. Spesso voi mi avete interrogato sulla mia vita di una volta, avete chiesto della mamma, di Pokròvskoe, della mia permanenza in casa di Anna Fëdorovna, e finalmente delle mie recenti disgrazie; ed eravate così impaziente di leggere questo quaderno, dove mi venne in testa, Dio sa perché, di notare alcuni momenti della mia vita, che sono certa, mandandovelo, di farvi un gran piacere. Mi pare di essere invecchiata del doppio da quando scrissi qui dentro l’ultima riga. È scritto a sbalzi, in varie epoche. State sano Makàr Alekséevič! Sono oppressa da una gran noia in questi giorni e per giunta tormentata dall’insonnia. Che lunga e uggiosa convalescenza!
I.
Avevo appena quattordici anni, quando morì mio padre. L’infanzia fu il periodo più felice della mia vita. Non incominciò qui, ma lontano, in provincia, tra i boschi. Il babbo era amministratore dei vasti poderi del principe P.5 nella provincia di T. Noi stavamo in uno dei villaggi del principe, e si viveva tranquilli e felici... Io ero una bimba tutta fuoco; non facevo che correre per i campi, nei boschi, nel giardino, e di me nessuno si dava pensiero. Il babbo era sempre preso dagli affari, la mamma attendeva alle faccende di casa. Non mi insegnavano nulla di nulla, e io ne ero contentissima. A volte, appena giorno, scappavo allo stagno, o nel boschetto, o dai mietitori e non mi curavo che il sole scottasse, che capitassi chissà dove lontano dal villaggio, che mi graffiassi ai pruni e mi lacerassi i vestiti. A casa mi aspettava una ramanzina, ma io non ci pensavo nemmeno.
E mi pare che così sarei stata felice, se mi fosse toccato di passare magari tutta la vita in quei posti. Invece, ancora bambina, fui costretta a lasciarli. Avevo dodici anni, quando venimmo a Pietroburgo. Ah, come mi tornano in mente i tristi preparativi della partenza! Come piansi nel separarmi da quanto avevo di più caro! Mi gettai al collo del babbo e lo supplicai con le lacrime agli occhi che ci fermassimo ancora un po’ nel villaggio. Il babbo mi sgridò; la mamma si mise a piangere; diceva che non se ne poteva fare a meno, che gli affari lo esigevano. Il vecchio principe P. era morto, gli eredi avevano preso un altro amministratore. Il babbo aveva un certo capitaluccio messo a frutto nelle mani di varie persone a Pietroburgo. Perduto il posto, sperava di provvedere alla meglio e voleva seguire da vicino i suoi interessi. Tutto ciò lo seppi dalla mamma. Venimmo a star qui, alla Peterbùrgskaja Storonà, e abitammo la stessa casa fino alla morte del babbo.
Come mi fu penoso abituarmi alla nuova vita! Partimmo in autunno. Era una giornata luminosa, tiepida: i lavori campestri erano terminati; sul granaio, colmo di enormi covoni, svolazzavano stormi garruli di uccelli; tutto era luce e allegria. Qui invece, al primo entrare in città, pioggia, brina, nevischio, mota, e una folla di visi sconosciuti, arcigni, foschi, arrabbiati. Alla meglio ci si aggiustò. Un tramestio, un arrabbattarsi per mettere ogni cosa a posto nella nuova casa. Il babbo era sempre fuori, la mamma non aveva un minuto di requie, io ero dimenticata in tutto e per tutto. Che brutto risveglio dopo la prima notte! Le nostre finestre davano sopra una palizzata giallastra. La via era sempre fangosa. Rari i passanti e tutti imbacuccati, freddolosi.
Le giornate erano così noiose che parevano eterne. Di parenti e conoscenze quasi nessuno. Con Anna Fëdorovna il babbo non si vedeva di buon occhio (aveva con lei non so che debito). Abbastanza spesso capitavano persone per affari: discussioni, strepiti, grida. Dopo ognuna di queste visite, il babbo era nervoso, di cattivo umore; per ore e ore passeggiava da un angolo all’altro della camera, accigliato, muto. La mamma non osava aprire bocca. Io mi rincantucciavo con un libro davanti, e me ne stavo mogia mogia, paurosa perfino di muovere un dito.
Tre mesi dopo il nostro arrivo a Pietroburgo fui messa in collegio. Quanto soffrii in principio a trovarmi così tra gente estranea! Tutto freddo, arido, scostante; le sorveglianti strillone, le ragazze beffarde, e io più scontrosa e selvaggia che mai. Quante esigenze poi, e che disciplina! Ore fisse, tavola comune, maestri noiosi, un martirio vero e proprio. Non mi riusciva di chiudere occhio: piangevo tutta la notte, e la notte fredda, opprimente, non finiva mai. La sera, tutte le mie compagne imparavano o ripetevano le lezioni; io me ne stavo a sedere zitta e immobile davanti al libro di lettura o a una lista di vocaboli, pensando sempre alla casa, al babbo, alla mamma, alla vecchia balia, alle sue fiabe! Ah, che pena! Anche del più piccolo, del più insignificante gingillo mi ricordavo con un piacere pieno di amarezza. Come starei bene ora a casa, pensavo; nella nostra cameretta, davanti al samovàr, con tutti i miei: tranquilli, raccolti, niente di estraneo, le solite facce, le solite cose note e care. Come abbraccerei forte forte la mamma! E pensavo, pensavo e piangevo in segreto, ingoiando le lacrime, e non mi entrava in testa nulla. Impossibile sapere la lezione per il giorno appresso. Tutta la notte non sognavo che il maestro, la direttrice, le compagne; non facevo che ripetere il compito, e la mattina non sapevo niente. Mi mettevano in ginocchio, mi davano una sola pietanza. Ero oppressa dalla malinconia. Sulle prime, tutte le ragazze mi pigliavano in giro, mi stuzzicavano, mi facevano perdere il filo quando dicevo la lezione, mi davano pizzicotti quando si andava in fila a colazione o a pranzo, mi accusavano senza un perché di fronte alla direttrice. Ma che paradiso poi il sabato sera! Veniva a prendermi la balia... E come l’abbracciavo pazza di gioia, la mia vecchietta! Mi vestiva, mi copriva ben bene, a fatica mi teneva dietro per via, e io chiacchieravo, raccontavo, la stordivo. Arrivavo a casa vispa e allegra, abbracciavo tutti, come se tornassi da un’assenza di dieci anni. Poi domande, discorsi, aneddoti, risa, corse, salti a non finire. Col babbo parlavo di cose serie, dei libri, dei professori, della lingua francese, della grammatica di Lhomond6, e tutti eravamo felici e contenti. Anche adesso, il semplice ricordo di quei momenti mi è di vero sollievo. Mi sforzavo in tutti i modi di imparare e di non dare dispiaceri al babbo. Vedevo che per me spendeva le ultime risorse, e Dio sa come riuscisse a cavarsela. Di giorno in giorno si faceva più cupo, più nervoso, più insofferente. Gli affari andavano male; era indebitato fino alla cima dei capelli. La mamma aveva perfino paura di piangere, di dire una parola, per non irritarlo. Dimagriva, dimagriva, cominciò anche a tossire. Arrivando dal collegio trovavo sempre le stesse facce scure: la mamma in lacrime, il babbo arrabbiato. Rimproveri, lamenti, rabbuffi. Il babbo diceva che non gli procuravo nessuna soddisfazione, nessuna gioia; che per me si privava di tutto, e che io non riuscivo ancora a parlare francese; in una parola, tutte le disgrazie, tutti i guai erano rovesciati su me e sulla mamma. Ma com’era possibile tormentare la povera mamma? Bastava guardarla per sentirsi spezzare il cuore: le guance infossate, appannati gli occhi, un colorito da tisica. Io ne prendevo più di tutti. Si incominciava da un nonnulla, e si arrivava Dio sa dove: spesso non capivo nemmeno di che si trattasse. Che cosa non si tirava fuori!... E la lingua francese, e che ero una sciocca, e la direttrice una donna senza cervello che non si dava pensiero della nostra educazione, e il babbo che non riusciva a trovare un posto, che la grammatica di Lomond era una porcheria e quella di Zapol’skij era cento volte migliore; che per me si buttava via un sacco di denaro; che io, evidentemente, ero insensibile, avevo un cuore di pietra; in una parola, io poveretta che giorno e notte mi affaticavo a ripetere dialoghi e vocaboli, io sola ero causa di tutti i malanni, la sola responsabile! E non che il babbo non mi volesse bene; aveva anzi per la mamma e per me un vero, un profondo affetto. Ma che farci? Era carattere.
Le cure, le amarezze, le imprese fallite, avevano fiaccato, esaurito il povero babbo; diventò diffidente, bilioso, a momenti pareva disperato; incominciò a non curare la salute, prese freddo, e d’un tratto si ammalò. Non soffrì a lungo e finì così, improvvisamente, che tutti noi per vari giorni rimanemmo storditi dal colpo. La mamma pareva impietrita: temevo per la sua ragione. Appena morto il babbo, i creditori sbucarono come di sotterra e ci furono addosso. Dovemmo dare tutto quello che avevamo. Anche la nostra casetta, che il babbo aveva comprato sei mesi dopo esserci stabiliti a Pietroburgo, fu venduta. Non so come si aggiustasse il resto, ma certo è che rimanemmo senza tetto, senza uno spicciolo, senza un punto d’appoggio che ci desse speranze. La mamma deperiva di giorno in giorno, non avevamo di che nutrirci, nessun’altra prospettiva che la rovina. Io avevo appunto compiuto i quattordici anni. Fu allora che venne a trovarci Anna Fëdorovna. Costei dice ancora di essere una proprietaria e nostra parente. Anche la mamma diceva che era una parente, ma molto alla lontana. Vivente il babbo, non si era mai presentata a casa nostra. La vedemmo arrivare con le lacrime agli occhi; ci assicurò che si interessava a noi moltissimo; si doleva della nostra perdita, del nostro stato di indigenza, e soggiunse che tutta la colpa era del babbo, che aveva condotto una vita superiore ai suoi mezzi, che si era lasciato trasportare da mire ambiziose, contando troppo sulle proprie forze. Mostrò il desiderio di conoscerci più da vicino, propose di dimenticare i reciproci dissapori; e quando la mamma le giurò di non aver mai nutrito per lei alcuna avversione, si mise a piangere, condusse la mamma in chiesa e fece dire una messa di requie per la buon’anima (così si espresse). Finita la messa, solennemente si riconciliò con la mamma.
Dopo molti preamboli e avvertimenti, Anna Fëdorovna, dipingendo a vivi colori la nostra posizione infelice, l’abbandono, lo squallore, ci invitò – furono queste le sue precise parole – a ricoverarci presso di lei. La mamma ringraziò, ma stette molto a decidersi. Visto però che non c’era altra uscita, dichiarò finalmente ad Anna Fëdorovna che accettavamo con gratitudine la sua offerta. Mi ricordo come se fosse ora la mattina che passammo dalla Peterbùrgskaja Storonà al Vasìl’evskij Òstrov7; una mattina di autunno chiara, secca, fredda. La mamma piangeva; io ero terribilmente accorata, il petto mi si spezzava, mi sentivo oppressa da un’inesplicabile angoscia. Brutto, brutto tempo fu quello.
II.
Sulle prime, finché non ci abituammo, la mamma e io, al nuovo domicilio, ci sentimmo un po’ a disagio. La casa sorgeva nella sesta via ed era di proprietà di Anna Fëdorovna. Non aveva che cinque camere: tre erano occupate da Anna Fëdorovna e da mia cugina Saša, orfana dei genitori, allevata presso di lei fin da bambina. Un’altra camera fu destinata a noi, e la quinta infine, contigua alla nostra, era tenuta in affitto da un povero studente di nome Pokrovskij. Anna Fëdorovna viveva bene, più largamente di quanto si fosse potuto supporre; ma la sua sostanza era equivoca, e così pure le sue occupazioni. Sempre in faccende, sempre preoccupata, usciva ora a piedi ora in vettura parecchie volte al giorno; ma che cosa facesse, che preoccupazioni fossero le sue, in nessun modo si poteva indovinare. Aveva molte conoscenze, le più svariate. Riceveva un sacco di gente, sempre per affari, e sempre per pochi minuti. Ad ogni scampanellata, subito la mamma mi spingeva in camera. Di ciò se ne aveva a male Anna Fëdorovna, e tutti i momenti ripeteva che noi avevamo troppa superbia, che non capiva davvero dove la fondassimo e per ore e ore non la smetteva. Io allora non capivo questi rimproveri; solo adesso sono venuta a sapere, o piuttosto ho intuito perché la mamma non si era decisa prima ad accettare l’ospitalità che le si offriva. Cattiva donna Anna Fëdorovna: era malvagia, provava gusto a tormentarci. È ancora per me un mistero per quale motivo ci volle con sé. In principio, si mostrò abbastanza amorevole; ma non tardò molto a gettare la maschera, quando si accorse che eravamo davvero prive di appoggio e non sapevamo dove sbattere la testa. In seguito, tornò a essere gentile con me, fino all’esagerazione; ma prima che questo avvenisse, mi toccò soffrire i suoi sgarbi insieme con la mamma. Non passava ora che non ci rinfacciasse i suoi benefici. Agli estranei ci presentava come due parenti povere, una vedova e un’orfana derelitta, ospitate per carità, per amor cristiano. A tavola, teneva d’occhio ogni nostro boccone: e se non mangiavamo, subito dava la stura a un’altra storia: eravamo schizzinose: scusassimo tanto; più di questo non poteva; a casa nostra, certo, saremmo state meglio. Continui i rimproveri a mio padre: aveva voluto essere più degli altri ma gli era riuscito a rovescio: aveva gettato sul lastrico la moglie e la figlia; e se non si fosse trovata una parente di cuore, un’anima cristiana, chissà che non sarebbero morte di fame in mezzo alla via. Quante, quante ne diceva! A sentirla, si provava più disgusto che amarezza. La mamma ogni minuto scoppiava in pianto. Soffriva di petto, pareva sempre più debole, e intanto stava insieme a me da mattina a sera con l’ago in mano. Si lavorava senza riposo, si pigliavano ordinazioni, con gran dispetto di Anna Fëdorovna, la quale ci ricantava su tutti i toni che la sua casa non era mica un magazzino di mode. Ma bisognava vestirsi, bisognava mettere da parte qualcosa per le spese impreviste, bisognava avere a ogni costo qualche soldo. A furia di stenti si cercava di raggranellare una sommetta, sperando un giorno o l’altro di scappare altrove. Ma la mamma, dal troppo affaticarsi, aveva perduto le ultime forze. Il male sordamente la rodeva e ne affrettava la fine. Io vedevo, notavo, mi sentivo struggere, avrei voluto negare fede all’evidenza che mi balzava agli occhi!
I giorni si seguivano e si rassomigliavano. Si viveva tranquille, ritirate, come se non si fosse in città. Anna Fëdorovna, sicura ormai del suo dominio, andò facendosi più umana. Nessuno, del resto, si era mai sognato di contraddirla. Un corridoio separava la nostra camera dalla sua, e contigua a noi, come già ho accennato, c’era quella di Pokrovskij. Questi dava lezioni a Saša di francese, di tedesco, di storia, di geografia, di tutte le scienze, secondo l’espressione di Anna Fëdorovna, e ne riceveva in compenso alloggio e vitto.
Saša era una ragazza intelligentissima, ma vivace e amante dei divertimenti: non aveva che tredici anni, dopo tutto. Anna Fëdorovna fece notare alla mamma la convenienza che mi giovassi anch’io di quell’insegnamento, visto che al collegio avevo lasciato i corsi a metà. La mamma consentì con gioia, e io per un anno intero, insieme a Saša, presi lezioni da Pokrovskij.
Pokrovskij era povero, molto povero. La salute non gli aveva permesso di frequentare assiduamente l’università, e solo per abitudine noi lo chiamavamo lo studente. Conduceva una vita uniforme, umile, raccolta, tanto che dalla nostra camera non lo si sentiva nemmeno. Aveva una strana figura; era così impacciato nel muoversi, nel salutare, discorreva in modo così curioso, che sulle prime io non potevo guardarlo senza ridere. Saša gliene faceva di tutti i colori, specialmente durante le lezioni. E lui era anche irascibile: per un nonnulla montava in bestia, gridava, ci colmava di ingiurie, ci voltava le spalle e si ritirava in camera sua. Lì se ne stava intere giornate a scartabellare libri. Ne aveva moltissimi, e tutti scelti, di pregio. Dava anche qualche altra lezione fuori di casa, riscuoteva un po’ di soldi, e subito correva a comprare altri libri.
Col tempo lo conobbi meglio e più da vicino. Era il più bravo, il più stimabile, il miglior uomo che abbia mai incontrato. La mamma lo teneva in gran conto. In seguito, divenne per me la persona più cara al mondo, beninteso dopo la mamma.
In principio, nonostante fossi grandicella, mi univo alle burle di Saša, e spesso ci spremevamo il cervello per trovare il modo di stuzzicarlo e fargli perdere la pazienza. Era così comico quando si arrabbiava, e questo ci divertiva un mondo (arrossisco solo a ricordarmene). Una volta lo facemmo quasi piangere dalla stizza, e io lo sentii che brontolava: «Cattive, cattive ragazze!». Fui presa da un improvviso turbamento, ebbi vergogna di me stessa e pietà di lui. Mi feci di fuoco fino alle orecchie e lo pregai quasi con le lacrime agli occhi di calmarsi, di non aversene a male dei nostri stupidi scherzi; ma lui chiuse il libro senza finire la lezione e ci piantò in asso. Io ero così mortificata che tutto il giorno non seppi darmi pace. Il pensiero che noi, due ragazzine, gli avevamo recato tanto dispiacere, era intollerabile. Voleva dire che noi ci trovavamo gusto, che godevamo a vederlo piangere, a farlo uscire dai gangheri, a ricordare a un infelice la sua triste posizione! Tutta la notte non feci che tormentarmi e colmarmi di rimproveri. Dicono che il pentimento sia un sollievo: al contrario. Non so come al mio dolore si mescolasse anche una punta di amor proprio. Non mi piaceva che lui mi ritenesse una bambina. Avevo allora quindici anni.
Da quel giorno cominciai a lavorare di fantasia, facendo mille piani per costringere Pokrovskij a mutare opinione sul mio conto. Ma ero naturalmente timida e riservata; incapace di prendere una decisione, mi limitavo a sognare (e Dio sa che sogni!). Smisi solo di far le burle insieme a Saša, e lui non andò più in collera. Ma questo era poco per il mio amor proprio.
Adesso dirò due parole intorno all’uomo più singolare, più curioso, più miserevole che io abbia mai visto in vita mia. Ne parlo qui, proprio a questo punto delle mie memorie, perché prima di allora non avevo quasi badato a lui; d’un tratto, invece, era divenuto per me interessantissimo tutto ciò che riguardava Pokrovskij.
Si presentava ogni tanto a casa nostra un vecchietto mal vestito, piccino, grigio, sbilenco, impacciato, in una parola un tipo inverosimile. A prima vista, pareva che si vergognasse, che si sentisse colpevole di qualche mancanza. Si rannicchiava, si contorceva, faceva certi gesti, certe smorfie da far pensare, senza paura di sbagliarsi, che non avesse il cervello a posto. Arrivava, si fermava dietro la porta vetrata dell’anticamera, non osava fare un passo avanti. Chiunque si trovasse a passare – io o Saša o uno della servitù che gli paresse più benevolo – subito con la mano lo chiamava, faceva tante di quelle smorfie, e solo quando si vedeva rispondere con un cenno affermativo del capo – segno convenuto che in casa non c’erano estranei e che era padronissimo di entrare – solo allora il vecchietto spingeva piano la porta, sorrideva, si fregava le mani dalla contentezza e in punta di piedi se ne andava difilato alla camera dello studente. Era suo padre.
Seppi in seguito tutta la storia di questo povero vecchio. Un tempo aveva servito in un pubblico ufficio, ma privo di qualsiasi attitudine, vi occupava un posto infimo, insignificante. Mortagli la prima moglie (madre dello studente Pokrovskij), gli venne in testa di prenderne una seconda, e sposò una borghese. Con costei tutta la casa andò a soqquadro. Era una donna terribile, non dava pace ad anima viva, comandava a bacchetta. Lo studente Pokrovskij aveva appena dieci anni. La matrigna lo detestava, ma la sorte gli venne in aiuto. Un certo signor Bykòv, proprietario, amico e anche benefattore del vecchio Pokrovskij, prese a proteggere il piccino e lo mise a scuola. Si interessava a lui, perché ne aveva conosciuto la povera madre, la quale da ragazza era anche stata nelle grazie di Anna Fëdorovna e da questa data in moglie a Pokrovskij. Il signor Bykòv, intimo di Anna Fëdorovna, mosso da un senso di generosità, aveva voluto dare alla sposa una dote di cinquemila rubli. Dove siano andati a finire questi soldi non si sa. Tutto ciò mi fu raccontato da Anna Fëdorovna: lo studente non amava parlare dei suoi affari di famiglia. La madre, dicevano, era stata molto bella, e a me pare strano che facesse un matrimonio così infelice.... Morì giovanissima, quattro anni dopo le nozze.
Dalla scuola elementare il piccolo Pokrovskij passò al ginnasio e poi all’università. Il signor Bykòv, che veniva spesso a Pietroburgo, continuò a proteggerlo. Cagionevole com’era, il giovane non poté frequentare i corsi, e il signor Bykòv lo presentò ad Anna Fëdorovna, glielo raccomandò, e fu così che lo studente ebbe alloggio e vitto, a condizione di insegnare a Saša tutto ciò che si ritenesse opportuno.
Il vecchio Pokrovskij, tormentato da quella megera di sua moglie, si diede all’alcol, e quasi sempre era ubriaco. La moglie lo batteva, lo rinchiudeva in cucina, lo ridusse a tal punto che alla fine il disgraziato si abituò alle botte e ai maltrattamenti e non fiatò più. Non era ancora molto vecchio, ma il vizio l’aveva reso poco meno che idiota. Unico indizio in lui di sentimento umano era lo sconfinato amore che nutriva per il figlio. Dicevano che il giovane Pokrovskij rassomigliasse come una goccia d’acqua alla madre morta. Chissà che il ricordo della prima e buona moglie non avesse svegliato quell’amore nel cuore del povero vecchio! Fatto sta che di altro non sapeva parlare che del figlio, e immancabilmente veniva a trovarlo due volte la settimana. Non osava presentarsi più spesso, perché il giovane mal sopportava quelle visite. Di tutti i suoi difetti il primo e più grave era la disistima verso il padre. Del resto, anche il vecchio era in certi momenti la più insopportabile creatura del mondo. In primo luogo, era di una curiosità eccessiva; in secondo, con i suoi discorsi e le sue sciocche domande impediva al figlio di lavorare; e poi si presentava qualche volta in completo stato di ubriachezza. A poco a poco il figlio riuscì a distoglierlo dal vizio, a moderarne la curiosità e la parlantina, fino al punto che il vecchietto lo consultava in tutto come un oracolo e non osava aprire bocca senza averne avuto il permesso.
Il povero vecchio non si saziava di ammirare, anzi di adorare come una divinità il suo Pèten’ka (così lo chiamava). Quando veniva a fargli visita, aveva sempre un aspetto preoccupato, timido, non sapendo come sarebbe stato accolto; non si decideva a entrare, e se per caso si imbatteva in me, mi tratteneva venti minuti colmandomi di domande: come stava Pèten’ka? bene? di che umore? occupato in cose importanti? e che cosa faceva? scriveva? pensava?... Rassicurato dalle mie parole, si faceva animo e veniva avanti; spingeva pian pianino la porta con la massima cautela, sporgeva dentro il capo, e se vedeva che il figlio, invece di irritarsi, gli faceva un cenno di saluto, entrava con passo riguardoso, senza far rumore, si toglieva il cappotto, il cappello sempre gualcito, sforacchiato, dalle falde strappate, appendeva tutto a un gancio, sceglieva un posticino per mettersi a sedere, e di là teneva gli occhi inchiodati sul figlio, ne coglieva tutti i movimenti, cercando di indovinare l’umore del suo Pèten’ka. Per poco che lo vedesse rannuvolato, subito si alzava, e spiegava che «Io così, sono venuto solo per un minuto. Mi sono trovato a passare, sono entrato per riposarmi un momento». E poi muto, sottomesso, riprendeva i suoi indumenti, apriva di nuovo la porta e sgusciava fuori, sforzandosi di sorridere, per soffocare il dolore e far sì che il figlio non se ne accorgesse.
Ma quando accadeva che il figlio gli faceva buona cera, il vecchio non stava più nei panni. L’allegria gli raggiava dal viso, dai gesti, da tutta la persona. Se il figlio gli rivolgeva la parola, lui si sollevava un po’ sulla sedia, e rispondeva sottovoce, commosso, quasi con venerazione, ingegnandosi di adoperare i termini più scelti, cioè i più buffi che si potessero mai immaginare. Ma purtroppo il dono della parola gli era negato. Si perdeva d’animo, s’impappinava, non sapeva che farsene delle mani, avrebbe voluto sprofondare, e solo dopo un pezzo riusciva a masticare due o tre parole, come per correggersi e scusarsi. Se poi gli capitava di rispondere a tono, si raddrizzava, si aggiustava il panciotto, la cravatta, il vestito, assumeva un aspetto dignitoso. Certe volte, anzi, pigliava tanto coraggio, diveniva così ardito e perfino temerario, che si alzava, si avvicinava allo scaffale, ne toglieva a caso un libro e si metteva a sfogliarlo e leggiucchiarlo. Tutto ciò con aria indifferente, con disinvoltura, come per mostrare che poteva servirsi di quei libri come voleva, e che la benevolenza del figlio era per lui una cosa naturalissima, abituale. Ma un giorno mi accadde di vedere quanta paura lo prendesse, quando Pokrovskij lo pregò di non toccare i libri. Si confuse, si affrettò a rimettere il libro a posto, lo voltò sottosopra, lo riaggiustò col taglio in fuori, sorrise, si fece rosso, non sapeva come cancellare il suo delitto. Con i consigli e le ammonizioni, Pokrovskij aveva in parte corretto le cattive inclinazioni del padre; e quando lo vedeva sobrio per tre volte di fila, gli dava nell’accomiatarlo un mezzo rublo o anche di più. Di tanto in tanto gli comprava un paio di scarpe, una cravatta, un panciotto. Così rimesso a nuovo, il vecchietto si ringalluzziva e pareva un altro. Spesso faceva anche una capatina in camera nostra. Portava a me e a Saša dei cavallini di pan pepato o delle mele, e non faceva che parlarci di Pèten’ka. Ci esortava all’applicazione, all’obbedienza; diceva che era un buon figlio, il modello dei figli, e per giunta un figlio istruito. E per dar forza alla lode, strizzava l’occhio sinistro, e faceva certe sue boccacce, che noi non resistevamo e scoppiavamo a ridere. La mamma gli voleva un gran bene. Ma il vecchio non poteva soffrire Anna Fëdorovna, benché in presenza di lei si facesse più piccino e umile del solito.
Di lì a non molto smisi di studiare con Pokrovskij. Lui mi considerava sempre una bambina maleducata come Saša, e questo mi addolorava assai, perché facevo di tutto per fargli dimenticare il mio contegno sconveniente e le mie scapataggini. Ma lui non mi badava, il che contribuiva a irritarmi ancora di più. Con Pokrovskij, al di fuori delle lezioni, non parlavo quasi mai né potevo parlare. Arrossivo, balbettavo, e poi, in un cantuccio, sfogavo in pianto il mio dispetto.
Non so come tutto questo sarebbe finito, se un singolare incidente non avesse contribuito ad avvicinarci. Una sera, mentre la mamma stava da Anna Fëdorovna, entrai di soppiatto nella camera di Pokrovskij. Sapevo che era fuori casa, e davvero non posso dire come mi venisse la fantasia di quella visita clandestina. In camera sua non avevo mai messo piede, benché da più di un anno fossimo vicini. Il cuore mi batteva così forte, così forte, che pareva volesse saltar fuori dal petto. Guardai tutt’intorno con una curiosità acuta. La camera, assai poveramente arredata, non brillava per ordine. Sul tavolo e sulle seggiole, carte e libri. Uno strano pensiero mi venne, e al tempo stesso un ingrato senso di dispetto. Mi sembrava che, a lui, nulla dovesse premere della mia amicizia, per calda che fosse. Lui era dotto, io una sciocca che non sapeva niente, niente aveva letto, nemmeno un solo libro... E qui fissai uno sguardo di invidia sui lunghi scaffali che si curvavano sotto il peso dei volumi. Fui presa da una voglia pazza, rabbiosa, da una specie di furore. Dovevo leggere tutti i suoi libri, tutti, dal primo all’ultimo, e al più presto possibile. Chissà, mi pareva forse che imparando tutto quello che lui sapeva, sarei divenuta più degna della sua amicizia. Mi lanciai verso uno degli scaffali, e senza pensarci su due volte, afferrai il primo libro che mi venne per le mani, un libro vecchio, polveroso, e facendomi ora pallida ora di brace, tremando dall’emozione e dalla paura scappai via col corpo del delitto, decisa a leggerlo al lume della lampada da notte, quando la mamma si fosse addormentata.
Ma quale non fu il mio disappunto quando, arrivata in camera e aperto in fretta il grosso in folio, mi vidi sotto gli occhi le pagine ingiallite, tarlate, di un’opera latina. Senza perder tempo, tornai indietro. Ma nel momento stesso in cui mi accostavo allo scaffale, udii nel corridoio un rumore di passi. In fretta e furia feci per rimettere il libro a posto; ma era così fitta la fila di quei maledetti volumi che, tirandone fuori uno, tutti gli altri si erano slargati da sé, non lasciando più spazio per il compagno. A rimetterlo dentro a forza non ero capace. Feci a ogni modo il possibile, spingendo e premendo. Un chiodo arrugginito, che sosteneva da una parte lo scaffale e che, si vede, aspettava questo momento per rompersi, si ruppe. Lo scaffale si rovesciò tutto la un lato. I libri, con uno strepito terribile, si sparsero per terra. La porta si aprì e Pokrovskij entrò in camera.
Bisogna notare che quel ragazzo non poteva soffrire che qualcuno mettesse le mani nella sua roba. Guai a toccare la libreria! Figurarsi dunque il mio sgomento, quando tutti quanti i volumi, grossi e piccini, rilegati o no, di ogni formato, rotolarono dallo scaffale, si squadernarono, saltarono sotto il tavolino, sotto le seggiole, per tutta la camera. Volevo fuggire, ma era tardi. È finita, pensai, è finita! Sono rovinata, perduta! Io faccio chiasso, io gioco come una bambina di dieci anni! Sono una sciocca, sono una bestia!... Pokrovskij montò su tutte le furie. «Anche questa ci mancava!», gridò. «E voi, voi, dico, non vi vergognate di queste bambinate!... Metterete una buona volta giudizio, sì o no?», e così dicendo si mise a raccattare i volumi sparsi. Io feci atto di chinarmi per aiutarlo. «Non serve, non serve!», tornò a gridare più forte. «Fareste meglio a non cacciarvi dove non siete invitata.» Ma poi, ammansito dalla mia sottomissione, seguitò, con voce meno alta e in tono di ammonizione, valendosi del recente diritto di precettore: «Sentiamo, quand’è che diverrete più seria? quando rientrerete in voi? Ma guardatevi! non siete più una bambina, avete già i vostri quindici anni!». E qui, forse per accertarsi che non ero infatti una bambina, mi gettò un’occhiata e arrossì fino alla punta delle orecchie. Io non capivo: gli stavo davanti e lo guardavo sbalordita. Si raddrizzò, mi si avvicinò turbato in viso, balbettò qualche frase, mi parve anzi che si scusasse di non aver notato prima che ero già una signorina. Alla fine, capii. Non ricordo quel che accadde in me; mi confusi, mi feci più rossa di lui, mi nascosi la faccia fra le mani e scappai fuori dalla camera.
Non sapevo che fare, dove nascondermi. Il solo fatto di essermi lasciata cogliere in camera sua!... Per tre giorni di fila non osai guardarlo. Diventavo di fuoco, mi venivano le lacrime agli occhi. Le idee più terribili e più ridicole mi turbinavano nella testa. Fra le altre, volevo correre da lui, spiegarmi, confessargli ogni cosa, raccontargli tutto per filo e per segno, assicurarlo che non avevo agito da ragazza sventata, ma con le più buone intenzioni. Mi ero quasi decisa, ma, grazie a Dio, mi mancò il coraggio. Chissà che avrei fatto! Solo a ricordarmi di tutto questo, mi sento morire dalla vergogna!
Poco tempo dopo, la mamma si ammalò gravemente. Era già a letto da due giorni, e la sera del terzo fu colta dalla febbre e dal delirio. Io naturalmente vegliavo tutta la notte al suo capezzale, per darle ogni tanto da bere e somministrarle le medicine alle ore fissate. La seconda notte ero addirittura spossata. Il sonno mi vinceva, vedevo tutto confuso, la testa mi girava, e ogni momento mi sentivo cadere dalla stanchezza; ma i fiochi lamenti della mamma mi riscuotevano con un sussulto; aprivo gli occhi un momento, cercavo di calmarla, ma subito mi riprendeva il sopore. Era una tortura indescrivibile. Non so, non mi ricordo; ma durante quella lotta angosciosa tra il sonno e la veglia ebbi un sogno o piuttosto una visione che mi fece gelare il sangue. Mi svegliai tremando come una foglia. Tutto era buio; la lampada si andava spegnendo, qualche improvvisa striscia di luce guizzava nella camera, tremolava sulle pareti, spariva. Fui presa da un terrore indefinito, da un’oppressione intollerabile... Balzai dalla sedia e involontariamente gridai. In quel punto la porta si aprì e Pokrovskij comparve.
Ricordo solo che rinvenni fra le sue braccia. Con la massima sollecitudine mi adagiò in una poltrona, mi porse un bicchier d’acqua, mi fece mille domande. Cosa gli risposi non lo so. «Siete malata, molto malata», disse prendendomi per mano; «voi avete la febbre, vi rovinate, non curate la vostra salute... Calmatevi, mettetevi a letto, dormite. Vi sveglierò io stesso da qui a due ore... Riposatevi un po’... Su, mettetevi a letto, ve ne prego...» Non mi permise di oppormi con una sola parola. La stanchezza mi aveva tolto le ultime forze; gli occhi mi si chiudevano. Mi sdraiai sulla poltrona, decisa a non dormire più di mezz’ora, e dormii invece fino al mattino. Pokrovskij mi svegliò solo quando bisognò dare la medicina alla mamma.
La sera seguente, alle undici, quando io, riposatami un po’ durante il giorno, mi disponevo al mio ufficio notturno di infermiera, risoluta questa volta a non farmi vincere dal sonno, Pokrovskij bussò alla nostra porta. Gli aprii. «Certo», mi disse «vi annoiate, così tutta sola. Eccovi un libro. Prendete. Vi terrà compagnia.» Io lo presi. Non so più che libro fosse; lo guardai appena, benché tutta la notte non chiudessi occhio. Una strana commozione mi teneva sveglia; non potevo star ferma in nessun posto; mi alzavo dalla poltrona, camminavo per la camera. Una contentezza intima si diffondeva per tutto il mio essere. Ero così felice dell’attenzione di Pokrovskij, così orgogliosa delle sue sollecitudini e dei suoi timori per me! Non feci che pensare e fantasticare fino a giorno chiaro. Pokrovskij non venne più; sapevo che non sarebbe venuto, e già lo vedevo arrivare e me lo figuravo la sera successiva.
Il giorno mi parve più lungo del solito; la notte avanzava con una lentezza disperante. Finalmente, quando già tutti in casa riposavano, Pokrovskij aprì la sua porta, e fermo sulla soglia, prese a discorrere con me. Non potrei ridire una sola delle parole che ci scambiammo; ero timida, confusa, irritata contro me stessa, non vedevo l’ora che il colloquio finisse, benché tutto il giorno l’avessi sognato, preparando le mie domande e le risposte. Quella sera fu il primo anello della nostra amicizia. Durante la malattia della mamma, tutte le notti passammo qualche ora insieme. A poco a poco riuscii a dominare la mia ritrosia, quantunque dopo ogni colloquio avessi sempre motivo di essere scontenta e di rimproverarmi qualcosa. Notavo però con intima gioia e con orgoglio che lui trascurava per me i suoi insopportabili libri. Casualmente e per scherzo, una notte il discorso cadde sulla famosa catastrofe dello scaffale. Fu per me un momento di crisi: divenni d’un tratto troppo sincera, troppo ingenua; un ardore insolito, un entusiasmo irrefrenabile mi trasportarono, e io gli confessai tutto... che volevo imparare, sapere qualcosa, che mi faceva rabbia esser trattata da bambina... Ero, ripeto, in una disposizione particolare di spirito: il cuore mi batteva con dolcezza, gli occhi mi si empivano di lacrime... Nulla nascosi, gli dissi tutto, dell’amicizia che nutrivo per lui, del desiderio di amarlo, di unire i nostri cuori, di essere il suo sostegno, il suo conforto. Lui mi fissò con uno sguardo dubbioso, stupito, e non disse una parola. Un gran dolore, uno scoraggiamento mi invasero di colpo. Mi sembrò che non volesse capirmi, che forse ridesse di me. Scoppiai in un pianto dirotto, davvero come una bambina, non potevo trattenere i singhiozzi, tremavo tutta in un accesso convulso. Lui mi afferrò le mani, me le baciò, se le strinse al petto, cercò di persuadermi, di calmarmi; era profondamente commosso. Non ricordo quello che mi disse, ma io piangevo e ridevo insieme, e poi tornavo a piangere, arrossivo, mi sentivo soffocare dalla gioia. Non mi sfuggì però, nella mia agitazione, che lui era sempre un po’ stordito e riservato. Forse non si saziava di ammirare il mio entusiasmo, l’impeto del mio cuore, l’ardente e improvvisa amicizia. O anche, sulle prime, la curiosità lo teneva in forse. In seguito però quella sua incertezza si dileguò, e con un sentimento non meno schietto e semplice del mio, accettò il mio attaccamento, le mie espansioni, la mia incondizionata devozione, e vi rispose con lo stesso calore, come un vero amico, come un fratello. Che felicità calma era la mia, come mi batteva il cuore di serena letizia! Non dissimulavo, non mi nascondevo, mi lasciavo leggere nell’anima; e lui vedeva tutto questo, e di giorno in giorno mi si affezionava più tenacemente.
Di che non si discorreva in quelle ore tormentose e dolci dei nostri colloqui, di notte, al lume tremolante della lampada, quasi accanto al letto della povera mamma ammalata!... Di tutto ciò che ci veniva in testa, che erompeva dal cuore, che si era impazienti di dire ed eravamo quasi felici... Oh, fu quello un tempo di angoscia e di gioia, e anche ora, rievocandolo con la memoria, provo una malinconia soave e quasi gioconda. I ricordi, dolci o amari che siano, sono sempre tormentosi: almeno così è per me; ma quel loro tormento è anche un balsamo. E quando l’anima è oppressa, ferita, vinta dallo sconforto, allora i ricordi le sono vita e refrigerio, allo stesso modo che le gocce della rugiada nella tiepida sera che tiene dietro a un giorno canicolare, rinfrescano e ravvivano il povero fiorellino bruciato dai raggi ardenti del sole.
La mamma entrò in convalescenza, ma io seguitai a passare le notti al suo capezzale. Pokrovskij mi dava spesso dei libri. Sulle prime, lessi per pigliar sonno, poi con più attenzione, poi con avidità: mi si svelavano tante cose fino allora ignorate, tanti misteri pieni di interesse. Nuove idee, nuove impressioni, come un impetuoso torrente mi investirono, mi travolsero in una vita di sogno mai prima vissuta. E quanto più mi costavano di commozione e di fatica, tanto più mi erano care, con tanto maggior dolcezza mi parlavano la loro lingua ignota. Mi assalivano, mi incalzavano, mi confondevano, non mi davano tregua. Tutto il mio essere ne era sconvolto. Ma lo sforzo della mente non poté farmi perdere l’equilibrio morale e la padronanza di me stessa. Ero troppo sognatrice, e questo mi salvò.
Guarita la mamma, ebbero termine i nostri lunghi colloqui notturni. Ci accadeva di tanto in tanto di scambiare poche frasi, spesso vuote e di semplice convenienza, ma io godevo nel dare a ogni cosa un significato speciale, un valore, un sottinteso. Non avevo più nulla da chiedere alla vita, ero felice, tranquilla, guardavo con occhio sereno all’avvenire. Così passarono alcune settimane.
Un giorno, come al solito, arrivò il vecchio Pokrovskij. Si fermò a lungo da noi. Era allegro, vivace, espansivo; rideva, motteggiava, strizzava l’occhio sinistro, non riusciva a star fermo. Pareva fuori di sé. Alla fine ci spiegò l’enigma di quella sua esaltazione, annunciandoci che di lì a una settimana cadeva il compleanno di Pèten’ka, e che in quell’occasione, immancabilmente, sarebbe venuto a trovare il figlio; che avrebbe indossato un panciotto nuovo di zecca e che la moglie aveva promesso di comprargli un paio di scarpe. In una parola, il vecchio era al colmo della contentezza e chiacchierava senza posa di tutto ciò che gli passava per il capo.
Il suo compleanno! Quella data mi stava fitta in mente e non mi dava pace. Bisognava dare a Pokrovskij un attestato qualunque della mia amicizia, regalandogli qualcosa. Ma che cosa?... Dei libri, ovviamente. Sapevo che desiderava avere l’ultima edizione delle opere complete di Puškin, e decisi di acquistarla. Di mio possedevo non meno di trenta rubli, guadagnati con il lavoro di cucito. Li avevo messi da parte per farmi un vestito nuovo. Senza perder tempo, mandai Matrëna, la cuoca, a informarsi del prezzo dell’opera. Ahimè! Gli undici volumi, rilegati, venivano a costare sessanta rubli. Dove prendere quella somma? Per quanto mi spremessi il cervello, non trovavo soluzioni. Rivolgermi alla mamma non volevo. La mamma, certo, non mi avrebbe detto di no; ma allora tutti in casa avrebbero saputo del dono, senza contare che la cosa avrebbe assunto un certo significato di gratitudine e quasi di compenso per un anno di lezioni che Pokrovskij ci aveva dato. Volevo io sola essere la donatrice, senza partecipazione di altri. E quanto alla pena che s’era dato di istruirmi, volevo essergli in eterno obbligata, senz’altro pagamento che la mia amicizia. Trovai alla fine come cavarmi d’impaccio.
Sapevo che dai librai del Gostinyj Dvor8 si poteva talvolta, mercanteggiando, comprare a metà prezzo libri poco usati, anzi quasi nuovi. Decisi dunque di tentare l’impresa. La sorte mi favorì. Il giorno appresso bisognò fare delle spese per la mamma e per Anna Fëdorovna. La mamma si sentiva poco bene; Anna Fëdorovna, per buona sorte, aveva poca voglia di muoversi, sicché dovettero incaricare me, e io mi avviai allegramente in compagnia di Matrëna.
Fortuna volle che subito mi capitasse sott’occhio un Puškin completo, e anche molto ben rilegato. Cominciai a contrattare. Sulle prime mi chiesero più che se fosse stato nuovo; ma poi, non senza fatica, facendo parecchie volte finta di andar via, indussi a miglior consiglio il libraio, il quale limitò le sue pretese a dieci rubli d’argento. Che gusto a mercanteggiare! La povera Matrëna non capiva quel che avessi e perché mi fosse saltato in testa di comprare tanti libri. Ma purtroppo tutto il mio gruzzolo ammontava a trenta rubli di carta, e il libraio era irremovibile e rifiutava qualsiasi altro ribasso. Alla fine, a furia di preghiere e di insistenze, mi riuscì di muoverlo a pietà. Calò ancora il prezzo, ma solo di due rubli e mezzo, giurando che lo faceva solo per me, perché ero una così buona ragazza, e che per un altro non avrebbe mai e poi mai ceduto. Mi mancavano dunque due rubli e mezzo. Stavo per piangere dal dispetto. Ma qui uno strano caso venne improvvisamente in mio soccorso. Non lontano da me, davanti a un altro banco di libri, vidi il vecchio Pokrovskij. Quattro o cinque librai gli si attaccavano ai panni, assordandolo e quasi facendolo ammattire. Non c’era libro che non gli offrissero, non c’era libro che lui non volesse comprare. Il povero vecchio stava in mezzo a loro come uno scimunito, e non sapeva fra tante offerte a che partito appigliarsi. Io mi accostai e gli domandai che facesse. Il vecchio si rianimò nel vedermi: mi voleva un gran bene, non meno forse che al suo Pèten’ka.
«Come vedete, signorina Varvara, acquisto libri», mi rispose; «compro libri, dico, per lui, per Pèten’ka. La festa è vicina, i libri sono la sua passione, quindi capite, compro libri...» Si esprimeva sempre in una maniera tutta sua, e adesso per giunta era in un tremendo imbarazzo. Dovunque si accostasse, si trattava sempre di uno, di due, di tre rubli d’argento. Ai libri vistosi già non pensava più; solo li sbirciava con occhio avido, ne sfogliava le pagine, se li rigirava fra le mani, li rimetteva a posto. «No, no, troppo caro», bisbigliava, «di qua forse potrò scegliere...», e prendeva a frugare tra i volumi più modesti, raccolte di canzoni, almanacchi, tutta roba molto a buon mercato. «Ma che ne fate di questa roba?», gli dissi, «sono sciocchezze terribili.» «Ah no», rispose, «no! vedete qui che bei libretti: carini, eh? graziosi, eh?», e strascicava le parole come se stesse per piangere, come se si domandasse perché mai i buoni libri dovessero costare così cari. Poco mancava che una lacrima non gli scorresse sulle guance rugose e sul naso arrossito. «Ma quanto denaro avete?», gli domandai. «Eccolo qui il denaro», e il pover’uomo tirò fuori il suo tesoro avvolto in un pezzo unto di giornale. «Ecco un mezzo rublo, venti copechi d’argento, e altri venti copechi di rame.» Subito me lo tirai dietro verso il mio libraio. «Vedete, questi undici volumi costano trentadue rubli e mezzo; io ne ho solo trenta; aggiungete voi due rubli e mezzo, così li compriamo in società e li regaliamo insieme.» Il vecchio fu per uscire di sé dalla gioia, mi versò in mano tutta la sua ricchezza, e il libraio lo caricò della nostra comune biblioteca. Lui si ficcò parte dei volumi nelle tasche, parte li afferrò con le due mani, altri se li mise sotto le ascelle, e via di buon passo verso casa sua, assicurandomi che l’indomani me li avrebbe riportati di nascosto.
Venne infatti il giorno appresso a trovare il figlio, si trattenne con lui un’oretta, poi entrò da noi e si mise a sedere vicino a me con un’aria di mistero che più comica non si potrebbe immaginare. Con un sorriso significativo e una fregatina di mani, tutto superbo di essere depositario di un segreto, mi rivelò che i libri, dal primo all’ultimo, erano già a posto, al sicuro, in un angolo della cucina, sotto la vigile protezione di Matrëna. Si passò poi, naturalmente, a parlare della festa imminente; poi ancora si mise a escogitare in che modo si dovesse presentare il dono: tanto più si addentrava nell’argomento, tanto più chiaro appariva che rimuginava qualcosa, qualcosa che non poteva, che non osava dire, che gli scottava la lingua. Io aspettavo e tacevo. La gioia intima, la soddisfazione che si rivelava nei suoi gesti bisbetici, nelle smorfie, nelle strizzatine dell’occhio sinistro sparirono di botto. Di momento in momento, diveniva più inquieto e depresso. Alla fine, non resse più.
«Sentite», cominciò in tono umile e a mezza voce, «sentite, Varvara Alekséevna... sapete una cosa, eh?... (si confondeva, cercava le parole). Voi, date retta, quando sarà il momento, prendete dieci di quei volumi e portateli a lui di persona, voi stessa, cioè, dico, da parte vostra, a vostro nome... Io poi piglierò l’undicesimo e glielo porterò da me, per mio conto, come cosa mia insomma. Sicché, vedete, voi avrete qualcosa da regalargli, e io anche qualcosa da regalargli: tutti e due avremo qualcosa da regalargli.»
Qui s’imbrogliò peggio di prima, e tacque. Aspettava rassegnato e quasi tremante la mia sentenza. «Ma perché non volete che si faccia insieme il dono?» «Ma... così, signorina Varvara, così... dico... io... voi mi capite...» In una parola, il vecchio si ingarbugliò nella sua frase e non riuscì più ad andare avanti.
«Ecco qua, vedete», cercò alla fine di spiegarsi. «Io, signorina Varvara, mi do qualche volta buon tempo... voglio cioè farvi capire che quasi sempre io mi do buon tempo... mi lascio pigliare la mano... cioè, sapete, tante volte fa di quel freddo, o anche vi vengono addosso di quei guai, o per un motivo o per l’altro vi prende il malumore, o vi succede una cosa qualunque spiacevole... allora è che non so resistere io, e mi do buon tempo, e spesso alzo un po’ troppo il gomito. Questo a Pèten’ka dispiace assai... Va in collera, arriva anche a strapazzarmi, mi fa delle prediche. Sicché, vedete, gli vorrei ora mostrare col mio regalo che ho messo giudizio, che comincio a condurmi come si deve, che ho saputo risparmiare per comprargli un libro,... per molto tempo ho messo da parte, perché di denaro non ne ho quasi mai, tranne, mettiamo, quando lo stesso Pèten’ka mi dà qualche spicciolo. Questo lui lo sa. Di conseguenza, avrà le prove, toccherà con mano come io spendo ora il denaro, e capirà che lo faccio per lui, solo per lui...»
Quanta pietà mi faceva il povero vecchio! Stetti a lungo pensosa. Lui mi fissava inquieto. «Ebbene», gli dissi, «regalategli voi tutti e undici i volumi.» «Tutti? come tutti?... tutti i libri, volete dire?» «Sì, tutti i volumi.» «A nome mio?» «A nome vostro» «Solo a nome mio? esclusivamente?» «Ma sì, solo a nome vostro.» Più chiaro di così non era possibile spiegarsi, ma ci volle un bel pezzo perché mi capisse.
«Sì, sì», disse alla fine dopo averci molto pensato, «sì... Bella idea, bellissima idea; ma voi, signorina Varvara?» «Io? io non gli farò nessun regalo.» «Come!», gridò quasi spaventato, «Nessun regalo! Non volete regalargli nulla?...» Pareva quasi pronto a rinunciare alla sua prima proposta, affinché io potessi fare un dono al figlio. Che brav’uomo! Lo assicurai che sarei stata lieta di presentare un mio dono, ma non volevo privare lui di un piacere. «Se vostro figlio sarà contento», soggiunsi, «se voi sarete contento, anch’io ne godrò, perché nel mio segreto, nel mio cuore, mi parrà di aver fatto io stessa il regalo.»
A queste parole il vecchio si calmò del tutto. Si trattenne da noi ancora due ore; ma non poté star fermo un momento: si alzava, girava per la camera, rideva, scherzava con Saša, mi dava un bacio di sfuggita, mi pizzicava il braccio, faceva delle smorfie alle spalle di Anna Fëdorovna, che alla fine, lo scacciò. In una parola, l’entusiasmo lo aveva reso più ubriaco di quanto mai fosse stato.
Il giorno dopo si presentò alle undici precise, appena udita la messa, in soprabito ben rattoppato e veramente in panciotto nuovo e scarpe nuove. Portava in ciascuna mano un pacco di libri. Noi eravamo tutti in camera di Anna Fëdorovna a sorbire il caffè. Era di domenica. Il vecchietto cominciò il suo discorso, tessendo l’elogio di Puškin, che chiamò un bravo autore di versi; poi si imbrogliò e uscì a dire di punto in bianco che bisogna condursi bene, e che se uno non si conduce bene vuol dire che si è dato allo stravizio; che le cattive inclinazioni portano un uomo alla rovina e alla distruzione; enumerò anzi parecchi casi tragici di intemperanza, e concluse che da un pezzo in qua lui si manteneva sobrio, che teneva una buona condotta, una condotta esemplare; che anche prima e sempre aveva sentito quanto fossero giuste le ammonizioni del figlio, e ne aveva fatto tesoro in fondo al cuore; ma che adesso si era emendato per davvero e sul serio; e a prova di ciò presentava quei libri da lui comprati col danaro pazientemente raggranellato nel corso di un tempo non breve.
Io non potei trattenere le lacrime e il riso, udendo il povero vecchio: come sapeva mentire quando ce n’era bisogno! I libri furono portati in camera di Pokrovskij e collocati sopra uno degli scaffali. Pokrovskij subodorò presto la verità. Il vecchio fu pregato di rimanere a pranzo. Quel giorno l’allegria fu generale. Dopo pranzo si giocò alle carte; Saša faceva chiasso e io con lei. Pokrovskij fu con me pieno di attenzioni, e cercava continuamente il destro per parlarmi da solo, ma io non mi lasciavo cogliere. Fu quello il più bel giorno degli ultimi miei quattro anni di vita.
E adesso vengono ben altri ricordi, incomincia una storia scura, tutta dolori. Ecco forse perché la mia penna si muove più lenta, quasi rifiutando di scrivere oltre. Ecco forse perché con tanto trasporto, con tanto amore ho richiamato alla mente i minimi particolari della mia prima età felice. Furono così brevi quei giorni; a essi subentrò il dolore, un dolore che Dio solo sa quando avrà fine.
Le mie sventure cominciarono con la malattia e la morte di Pokrovskij.
Si ammalò due mesi dopo gli ultimi avvenimenti che ho descritto. In quei due mesi si era dato da fare affannosamente per trovare da vivere, sapendo di non avere una situazione assodata e sicura. Come accade a tutti i tisici, fino all’ultimo minuto conservò la speranza di vivere a lungo. Trovò un bel giorno un posto da insegnante; ma questo mestiere non gli piaceva né punto né poco. Un qualunque ufficio pubblico non era fatto per lui, così cagionevole com’era, senza dire che bisognava passare un noviziato non breve prima di cominciare a percepire uno stipendio. Insomma, tutte le porte gli si chiudevano in faccia, e questo contribuì non poco a irritarlo e ad agire perniciosamente sulla sua debole costituzione. Arrivò l’autunno. Tutti i giorni, con indosso il suo soprabituccio leggero, andava fuori e si dava alla vana, faticosa, e qualche volta umiliante, ricerca di un posto. Si bagnava i piedi, tornava a casa fradicio fino al midollo; alla fine decise di mettersi a letto e da allora non si alzò più... Morì nel cuore dell’autunno, alla fine di ottobre.
Io non lasciai quasi mai il suo capezzale durante il corso della malattia: lo accudivo, gli tenevo compagnia, cercavo con ogni mezzo di alleviargli le sofferenze. Spesso non dormivo tutta la notte. Di rado era in sé; più spesso delirava: discorreva Dio sa di che, del posto, dei libri, di me, del padre... e fu allora che venni a sapere molti particolari della sua vita, che non avrei nemmeno sognato. Nel primo periodo del male, in casa non mi vennero risparmiate occhiate lunghe ed equivoche; ma io guardavo tutti negli occhi, a fronte alta, e allora nessuno mi condannò più per l’interesse che portavo all’infermo, la mamma per prima.
Qualche volta, ma assai di rado, Pokrovskij mi riconosceva. Qualche altra volta, in parole tronche e confuse discorreva per ore e ore con qualcuno, e la sua voce roca risuonava fra le anguste pareti come in una bara. Allora mi prendeva un brivido di terrore. L’ultima notte specialmente, il malato fu quasi frenetico: soffriva atrocemente, si lamentava, e quei suoi lamenti mi laceravano l’anima. Tutti in casa erano come atterriti. Anna Fëdorovna pregava con fervore che il Signore se lo pigliasse presto. Venne chiamato un dottore: disse che l’infermo senza meno sarebbe morto all’alba.
Tutta quella notte il vecchio Pokrovskij la passò nel corridoio, senza allontanarsi dalla porta della camera. Gli prepararono alla meglio una branda, perché potesse riposare. A ogni momento si mostrava sulla soglia, guardava dentro: a vederlo, faceva paura. Era così accasciato, che pareva scimunito e insensibile. La testa gli tremava. Tremava in tutte le membra, e senza posa andava balbettando e ragionando tra sé e sé. Sembrava che lo strazio lo facesse impazzire.
Prima dell’alba, sfinito da quella tensione di spirito, si abbandonò addormentato come un morto sulla sua branda. Alle otto il figlio entrò in agonia e io svegliai il vecchio. Il morente aveva per un momento riacquistato i sensi e si accomiatò da ciascuno di noi. Io non potevo piangere, mi sentivo nel petto come una mano che mi lacerasse.
Ma più di tutto mi straziarono gli ultimi momenti. Con la lingua torpida, indurita, il ragazzo chiedeva ostinatamente qualcosa, ma io non riuscivo a comprendere. Mi disperavo. Era agitato, gemeva, si sforzava di fare dei cenni con le mani già fredde, e di nuovo cominciava a supplicare, a insistere con voce sempre più soffocata; ma le sue parole non erano che suoni inarticolati, incomprensibili. Gli condussi una per una tutte le persone di casa, gli porsi da bere, ma lui non faceva che scuotere tristemente la testa. Alla fine capii. Pregava che si rimuovesse la tenda della finestra e si aprissero le imposte. Forse voleva guardare un’ultima volta il giorno, la luce, il sole. Tirai la tenda; ma anche il giorno era triste come la povera vita che si stava spegnendo. Non c’era sole. Le nuvole coprivano il cielo di una cortina grigia; il tempo era piovoso, cupo, malinconico. Una pioggerella sottile batteva sui vetri e vi colava sopra in tanti ruscelletti di acqua torbida. La luce fosca del mattino penetrava quasi paurosa nella camera e non faceva nemmeno impallidire la lampada accesa davanti a un’immagine. Il morente mi volse uno sguardo doloroso e crollò la testa. Un minuto dopo spirò.
Anna Fëdorovna s’incaricò lei dei funerali. Comprò una cassa delle più rozze e noleggiò un carro di piazza. Per coprire le spese, Anna Fëdorovna mise le mani sui libri e gli effetti del defunto. Il vecchio prese a litigare con lei, strepitò, le strappò quanti più libri poté, se ne empì le tasche, ne ficcò nel cappello, dovunque potesse, se li portò attorno per tutti e tre quei giorni, e non se ne separò nemmeno quando si dovette recare in chiesa. Durante quei tre giorni era come instupidito, astratto, e si dava un gran da fare intorno alla bara: ora aggiustava la corona sul cadavere, ora accendeva le candele, ora le smoccolava. I suoi pensieri, si vede, non potevano fissarsi su niente. Alla chiesa, per assistere alle esequie, non vennero né la mamma né Anna Fëdorovna. La mamma non si sentiva bene, e quanto ad Anna Fëdorovna, era già pronta ad accompagnarci, quando attaccò lite col vecchio e non si mosse più di casa. Eravamo in due, il vecchio e io. Durante il servizio religioso, fui presa da un terrore indefinito, quasi da un presentimento dell’avvenire. Mi ressi a stento fino all’ultimo. Alla fine, la cassa fu chiusa, inchiodata, posta sul carro e portata via. Io l’accompagnai solo fino alla cantonata. Il cavallo andava al trotto. Il vecchio correva dietro piangendo forte, e il pianto sussultava e scoppiava a sbalzi, per l’affanno del correre. Gli era caduto il cappello e non lo aveva raccattato. Aveva la testa inzuppata dalla pioggia; tirava vento; il nevischio gli pungeva e tagliava la faccia. Ma lui non sentiva niente, e non faceva che correre gemendo di qua e di là dal carro. Le falde del soprabito sdrucito gli sventolavano dietro come due ali. Da tutte le tasche gli sbucavano libri; teneva stretto in mano un grosso volume. I passanti si cavavano il cappello e si facevano il segno della croce. Qualcuno si arrestava a guardare stupito quella strana figura. Ogni tanto qualche libro gli cadeva dalle tasche nel fango. Lo fermavano, lo avvertivano della perdita: lui raccoglieva il libro e si rimetteva a correre dietro la bara. Lungo la via si unì a lui e seguì il feretro una vecchia mendicante. Il carro voltò finalmente la cantonata e mi si nascose. Tornai a casa. Mi gettai al collo della mamma in preda a un’angoscia orribile. La coprii di baci, singhiozzando disperata, me la strinsi forte con un tremore pauroso, quasi volessi imprigionare e trattenere fra le braccia l’ultima persona amica, perché la morte non me la strappasse... Ma la morte incombeva sulla povera mamma!
Come vi sono riconoscente, signor Makàr, della passeggiata di ieri sulle isole! Che frescura, che verde, e come si stava bene! Era tanto che non vedevo il verde; durante la malattia, mi pareva sempre che dovessi morire e che certamente sarei morta: figuratevi dunque quel che ho provato ieri, quel che ho dovuto sentire! Non siate in collera con me, non accusatemi di essere stata di cattivo umore; ero invece contenta, quasi allegra, ma il fatto è che per me i migliori momenti hanno un non so che di triste. Piangevo, sì, ma questo non vuol dire; non capisco io stessa perché mi vengano sempre le lacrime. Sono afflitta da una sensibilità morbosa, irritabile; le mie emozioni sono per lo più dolorose. Un cielo pallido e senza nubi, un tramonto, la calma della sera, non so come dire... certo è che ieri ero disposta a soffrire a ogni minima impressione: il cuore mi traboccava, mi veniva da piangere. Ma perché vi scrivo tutto questo? Sono cose che è difficile spiegare a se stessi e ancor più difficile spiegare agli altri. Ma voi forse mi capite. Si è allegri e tristi al tempo stesso. E che bontà è la vostra, signor Makàr! Come mi guardavate negli occhi per leggermi nell’anima, come eravate lieto del mio entusiasmo! Bastava un cespuglio, un sentiero, uno specchio d’acqua, e voi subito mi volgevate uno sguardo di trionfo, quasi mi andaste mostrando il vostro regno. Questo prova che avete un cuore d’oro. Ed è per questo che vi voglio bene. Addio, addio. Oggi sono di nuovo ammalata. L’umidità di ieri mi ha fatto infreddare. Anche Fedora è sofferente, sicché siamo in due a doverci riguardare. Non mi dimenticate. Venite più spesso. Vostra
Carissima Varvara, amica mia,
io mi aspettavo, povero me, una descrizione in versi di tutta la giornata di ieri, e voi non mi scrivete che un mezzo foglietto. Voglio dire che sebbene poco o niente mi abbiate descritto, la vostra letterina è comunque una descrizione coi fiocchi. La natura, i quadri campestri, i sentimenti, niente manca, e meglio di così non si poteva descrivere ogni cosa. Io invece questo talento non ce l’ho. Anche a imbrattare dieci pagine, non vengo a capo di niente. Mi ci sono già provato. Voi mi dite che sono un brav’uomo, senza cattiveria, incapace di fare male al prossimo, che vedo e capisco la bontà di Dio in tutte le bellezze della natura, e insomma mi colmate di elogi. Tutto vero, verissimo: così sono fatto, e lo so da me; ma a vederlo scritto a quel modo, di mano vostra, mi sento quasi venir meno, e poi subito dopo mi assalgono tanti altri pensieri cupi, che non vi vorrei dire. Non importa, state un po’ a sentire, vi racconterò anch’io qualche cosa, bambina mia cara.
Comincerò da questo: avevo diciassette anni, quando ottenni l’impiego, e saranno fra poco trent’anni che presto servizio. Ne ho consumate di uniformi! Divenni uomo, misi giudizio, conobbi gente, vissi, diciamo così, nel mondo, tanto che una volta, figuratevi, volevano perfino mettermi in lista per una decorazione. Voi forse non mi crederete, ma io, parola d’onore, non vi dico bugie. Ebbene, ecco saltar fuori i maligni a guastare la baracca! E io vi assicuro, figliola mia, sarò ignorante, stupido se vogliamo, ma ho un cuore come chiunque altro. Sapete voi che tiro mi giocò un brutto tipo? Mi vergogno perfino a dirlo, quel che mi fece; e perché poi, chiederete voi? Perché io mi faccio i fatti miei, perché me ne sto cheto nel mio cantuccio, perché sono una buona pasta! Non gli ero simpatico, ecco, e perciò dàlli al povero Makàr. Si cominciò con cose come: «Signor Makàr, date retta, vi sembra il modo questo, eh?». E poi dopo: «Lasciatelo andare quel Makàr, non serve sprecare il fiato con lui». E adesso finalmente: «Oh, si sa, questa non può averla combinata che Makàr Alekséevič!». Ecco, figlia mia, a che siamo: tutti addosso a Makàr; e tanto fecero e dissero, che il signor Makàr è diventato la favola di tutto il dipartimento. E questo è niente: del mio nome hanno fatto un proverbio e quasi una parolaccia; no, s’attaccano anche alle scarpe, all’uniforme, ai capelli, alla faccia: niente va loro a genio, tutto bisognerebbe mutare! E questa storia da tempo immemorabile si ripete tutti i santi giorni. Ormai non ci bado più, ci ho fatto il callo perché io mi abituo a tutto, perché non fiato, perché sono un povero diavolo; ma, dico, perché tutto questo? A chi ho fatto del male? Ho forse rubato il grado a qualcuno? Ho messo qualche compagno in cattiva luce presso i superiori? Ho brigato gratifiche e sussidi? Ho commesso qualche cattiva azione?... Solo a pensarlo, anima mia, cadreste in peccato mortale. Sicché, qual è il motivo, sentiamo un po’? Vi pare a voi che io sia un uomo doppio? ambizioso? capace di perfidie? E perché dunque pigliarsela con me, Signore Iddio? Voi intanto mi ritenete una persona degna, e voi li valete mille volte tutti quanti sono. E qual è poi la prima virtù di un galantuomo? Giorni fa Evstafij Ivànovič disse in una conversazione che la prima virtù di un galantuomo sta nel risparmio, cioè che sappia mettere insieme un gruzzolo; e soggiunse, celiando (io capii subito la celia), che non bisogna essere a carico degli altri; e io non sono a carico di nessuno, io! Un tozzo di pane ce l’ho, nient’altro che un tozzo, ne convengo, e qualche volta anche stantio; ma in tutti i modi, ce l’ho e me lo guadagno con le mie fatiche, e ne faccio un uso legittimo e onesto. Che si vuole da me insomma? Non è gran cosa, lo so, copiar carte; ma io me ne vanto, io sudo, io sgobbo. E che significa in fin dei conti che sono copista? È forse un delitto essere copista? «Eccolo lì il copiacarte!» Ma che c’è di disonesto, dico io? Una bella calligrafia, tonda, chiara, che fa piacere a guardarla, e Sua Eccellenza non ci trova da ridire. A me si danno da copiare le pratiche più riservate. Non ho stile, signorsì, non l’ho mai avuto quello stile maledetto; ed è per questo che sono rimasto indietro, e anche adesso vi scrivo alla buona, come mi suggerisce il cuore, senza pretese. Tutto questo lo so; ma d’altra parte, se tutti fossero scrittori, chi copierebbe? Ecco quel che dico io, e fatemi voi la finezza di rispondere alla mia domanda. Io ho la coscienza di essere necessario, indispensabile, e non c’è gusto ad avvilire un uomo senza un perché. Sarò un topo, ammettiamolo pure, visto che hanno trovato a chi rassomiglio! Ma questo topo serve, ma questo topo è utile, ma a questo topo voi ci tenete, ma questo topo intasca pure la sua brava gratifica, ecco com’è fatto questo topo! Del resto, basta così; non è di questo che volevo parlarvi, ma mi sono lasciato trasportare. Fa bene di tanto in tanto rendersi un po’ di giustizia. Addio, anima mia, consolatrice mia buona e cara! Passerò da voi, passerò, verrò senza meno. Intanto state allegra. Vi porterò un bel libriccino. Addio, che il cielo vi mandi ogni bene.
Vostro affettuoso amico
Signor Makàr gentilissimo,
due parole in fretta; sto terminando un lavoro che devo consegnare presto. Ecco di che si tratta: c’è un buon acquisto da fare. Dice Fedora che un suo conoscente vende un’uniforme nuova fiammante, calzoni, panciotto, berretto, e molto a buon mercato, dicono. Non vi lasciate sfuggire l’occasione. Adesso non siete in angustie, denari ne avete: voi stesso me l’avete detto. Lasciate un po’ stare i risparmi: si tratta di cose che servono. Guardatevi nello specchio... È una vergogna! Portate un vestito tutto rattoppato. Un altro nuovo non l’avete, lo so di sicuro, anche se mi giurate il contrario. Dio sa come e quando ve ne siete disfatto. Perciò, date retta a me, decidetevi a fare questa spesa. Fatelo per amor mio, ve ne prego.
Mi avete mandato della biancheria in dono; ma sentite, signor Makàr, voi vi rovinate. Quanto, quanto denaro avete buttato via per me! Che scialacquatore siete! A me quella biancheria non serve; è superflua, ve l’assicuro. Lo so che mi volete bene, non lo metto in dubbio, né c’è proprio bisogno dei vostri regali per provarmelo; a me poi dispiace assai di riceverli da voi, perché so quel che vi costano. Quindi, punto e basta, sia detto una volta per sempre, avete capito? Ve ne prego, ve ne scongiuro. Mi domandate il seguito dei miei ricordi, vorreste che io li finissi. Non so davvero come feci a scrivere quel tanto che vi mandai. Ma adesso non ho il coraggio di risvegliare il mio passato; cerco perfino di non pensarci: quei ricordi mi fanno male. Parlare poi della povera mamma, che lasciò l’unica figlia tra le unghie di quei mostri, mi darebbe una pena insopportabile. Solo a ricordarmene il cuore mi sanguina. Il colpo è troppo recente; ne sono ancora stordita, benché sia passato più di un anno. Ma voi già sapete tutto.
Vi ho accennato alle fantasie di Anna Fëdorovna. Mi accusa di ingratitudine, nega ogni complicità col signor Bykòv! Mi vorrebbe a casa sua; dice che io faccio la mendicante, che mi sono messa su una cattiva strada. Dice che se torno da lei, sarà sua cura aggiustare ogni cosa col signor Bykòv, facendo in modo che ripari a tutti i suoi torti verso di me. Dice che il signor Bykòv vuol farmi il corredo. Che Dio li perdoni! Sto tanto bene qui con voi, con la brava Fedora, così affezionata, che mi ricorda la buon’anima della mia balia! Voi, anche se solo lontano parente, mi difendete con il vostro nome. Io non li conosco quelli là, farò di tutto per scordarmene. Ma che altro vogliono da me? Fedora dice che son chiacchiere, pettegolezzi, e che finiranno per lasciarmi in pace. Dio lo voglia!
Varvara mia carissima, piccina adorata,
voglio scrivere, e non so da che parte iniziare. Com’è strano, quando ci penso, che voi e io si viva, adesso, a questo modo! Voglio dire che non ho mai passato giorni più felici di questi. Mi pare che il Signore, nella Sua misericordia, mi abbia dato né più né meno una casettina e una famigliola. Ma che discorsi mi fate, figlia mia cara! Le quattro camicie che vi ho mandato vi occorrevano, l’ho saputo da Fedora. E per me, poi, tenetelo bene a mente, è una vera gioia accontentarvi: lasciatemi stare, non mi fate arrabbiare: questa è la mia soddisfazione, il mio piacere: non mi contraddite, non mi contrariate. Mai, mai, bambina mia, mi è successo quel che adesso mi succede. Ora sì posso dire che comincio a vivere in società, che mi lancio nel gran mondo. In primo luogo, conduco una doppia vita, perché voi, per mia consolazione, siete a due passi da me; e poi stamani mi ha invitato a bere il tè un nostro inquilino, il mio vicino Ratazjaev, quel tale che tiene delle serate letterarie. Proprio oggi c’è riunione: si leggerà qualcosa. Che ne dite, eh? siamo o non siamo?... Addio. Ho scritto così, per niente, cioè solo per farvi sapere come me la godo. Mi avete fatto dir da Tereza che avete bisogno di seta colorata da ricamo; ve la comprerò. Domani sarete servita a puntino. So dove si vende. Per ora, mi ripeto
Vostro sincero amico
Vi metto a parte, Varvara mia, di un tristissimo caso capitato qui da noi, un caso degno veramente di pietà. Stamani alle cinque, è morto uno dei piccini di Gorškòv. Scarlattina, o morbillo o altro, non so. Sono stato a far loro visita. Che miseria, anima mia, che squallore! e che disordine anche! Del resto, è naturale: tutta la famiglia è insaccata in una camera sola, divisa da paraventi per riguardo alla decenza. C’era già la piccola cassa, una cassa semplice, sì, ma buonina, acconcia; l’hanno comprata bell’e fatta; il ragazzo non aveva che nove anni, e dava molte speranze. Non si può dire che pena a guardarli! La madre non piange, ma è così afflitta, così prostrata. Forse e senza forse, si sentiranno più sollevati ad avere una bocca di meno; gliene son rimasti due, un bambino lattante e una ragazzina di poco più di sei anni. Che bel gusto davvero veder patire una povera creatura, e non avere mezzi per aiutarla! Il padre, nel suo vecchio soprabito bisunto, se ne stava muto e cheto sopra una seggiola spagliata. Gli scorrevano le lacrime, forse non per il dolore, ma così, come al solito, avrà gli occhi che gli colano. Che tipo! Si fa rosso appena gli si parla, non sa che rispondere. La piccina si appoggiava alla cassa, seria seria, con gli occhietti spalancati, e pareva che pensasse. Brutto segno, Vàren’ka, brutto assai a quell’età! Fa male guardare un bambino che pensa. Per terra, accanto a lei, c’era una bambola fatta di cenci, ma lei niente, non ci giocava; teneva un ditino sulle labbra, non si muoveva, pareva di pietra. La padrona di casa le ha dato un confetto; l’ha preso ma non l’ha messo in bocca. Che tristezza, eh, Vàren’ka?
Caro Makàr Alekséevič,
vi restituisco il vostro libretto. È una tale robaccia, che vien voglia di buttarlo via. Dove l’avete scovato questo tesoro? Senza scherzi, possibile che vi piacciano libri simili? Fra giorni, me l’hanno promesso, avrò qualcosa di buono da leggere. Lo passerò anche a voi, se volete. Arrivederci. Non ho proprio tempo di scrivervi di più.
Cara Vàren’ka,
quel libriccino, per dirvi la verità, io l’avevo appena sfogliato. Mi accorsi subito che si trattava di una bazzecola, di una cosetta scritta per far ridere; dev’essere allegro, pensai; chissà che non piaccia a Varvara, e così ve lo mandai.
Ratazjaev intanto mi ha promesso di prestarmi qualcosa di veramente letterario, sicché i libri per voi ci saranno. Ratazjaev se n’intende lui, ha buon naso; è anche scrittore, e che scrittore! Una penna coi fiocchi, uno stile che pare impossibile, cioè, vedete, in ogni parola c’è un non so che; nelle parole più vuote, nelle più comuni, nelle più volgari, che a me stesso, poniamo, escono di bocca discorrendo con Faldoni o con Tereza, anche in quelle lui ci mette lo stile. Adesso non manco mai alle sue serate. Lui legge, legge tante volte fino alle cinque, e noi si fuma e si sta a sentire. Altro che letteratura, è un manicaretto da leccarsi le dita! Che incantesimo, che galanteria! Fiori! di ogni pagina puoi farne un mazzolino. È buono poi, affabile, senza superbia. E che sono io in confronto a lui? Niente. Lui si è fatto un nome, e io? Io non esisto nemmeno; eppure bisogna vedere quante attenzioni ha per me. Io gli copio qualche cosetta. Ma badiamo, eh! non è per questo che mi accarezza; l’interesse non c’entra. Non credete alle chiacchiere, Varvara; i pettegolezzi sono sempre pettegolezzi. No, io lo faccio per conto mio, di mia spontanea volontà, perché a copiare ci trovo gusto, e se lui mi tratta con tanta buona grazia, è perché sa di farmi piacere. È una perla d’uomo, vi dico, uno scrittore impareggiabile.
E la letteratura, Vàren’ka mia, è una gran bella cosa, una cosa bellissima; questo l’ho imparato da loro l’altro ieri. Una cosa profonda, istruttiva, una cosa che fa bene al cuore, e... tante altre cose come sta scritto in un libro che hanno lì. Un libro magnifico! La letteratura è, diciamo così, un quadro, cioè in un certo senso un quadro e uno specchio: passione, espressione, critica, e poi edificazione, documento. Tutto questo l’ho sentito parola per parola, e non mi è uscito di mente. Francamente vi dico che quando ti trovi da loro, te ne stai tutt’orecchi, magari fumando la pipa come fa lui, e non appena cominciano a disputare e a discutere di una cosa e dell’altra, allora acqua in bocca, Makàr, e toccherebbe lo stesso anche a voi. Si resta lì come intontiti, ci si vergogna, si va cercando tutta la sera una mezza parola per prendere parte alla conversazione, ma si ha un bel cercare, la mezza parola non viene e non viene. E allora, Varvara, ti vien pietà di te stesso, ti fai piccino piccino, senti che sei venuto su come la mala erba che cresce presto e non giova. E infatti, come passo io il tempo, quando non ho da fare? Dormo come un ceppo. Ma invece di quel sonno che non serve a niente, potrei occuparmi di una qualunque altra cosa più conveniente: pigliare la penna, diciamo, e scrivere. Farebbe bene a me e piacere agli altri. Ma pensate un poco, anima mia, a quel che questa gente guadagna, Dio li perdoni! Ratazjaev, per esempio. Che ci mette lui a riempire un foglio di carta? Figuratevi che certe volte ne scrive fino a cinque in un giorno, e per ogni foglio, dice, gli danno trecento rubli. Butta giù un fatterello, un ghiribizzo: toh, piglia, se ti fa gola, da’ qui cinquecento rubli; se no, un’altra volta ne snocciolerai mille. Eh, che vi pare? Adesso, mi ha fatto vedere, ha un suo quadernetto di versi – certi versiciattoli così corti che si leggono d’un fiato – e ne vuole settemila rubli, capite? Ma è lo stesso, dico io, che possedere un terreno, una casa! Dice che gliene hanno offerti cinquemila, ma lui duro. Io faccio di tutto per persuaderlo: prendeteli, dico, prendete i cinquemila rubli e mandateli al diavolo; sono soldi, sapete! No, dice, o settemila o niente. Furbo, eh? furbo e cocciuto.
E poiché ci siamo, adesso vi trascrivo qui un certo passo delle Passioni italiane9. È una sua opera, intitolata così. Leggete, Varvara, e giudicate voi stessa.
«... Vladimir trasalì: la passione ribollì in lui furibonda e il sangue gli corse per le vene come lava incandescente. “Contessa”, proruppe, “contessa! Sapete voi quanto sia terribile il mio amore, quanto sia sconfinata la mia follia? No, non m’ingannarono i sogni! Io amo, amo fino all’estasi, fino al furore, fino al delirio! Tutto il sangue di vostro marito non varrà a spegnere l’incendio che divampa in quest’anima! Dei miserabili ostacoli non potranno arginare il fuoco irrompente, infernale, che mi solca il petto. O Zinaida, o Zinaida!”
“Vladimir!...”, balbettò fuori di sé la contessa, abbandonandosi sulla spalla dell’amante.
“Zinaida!...”, esclamò Smel’skij rapito.
Un sospiro gli si sprigionò dal petto. L’incendio divampò impetuoso sull’ara di Amore e arse con le ignee sue lingue le membra degli infelici martiri del cuore.
“Vladimir!...”, sussurrò inebriata la contessa.
Il seno le si gonfiava, le guance le si imporporavano, gli occhi mandavano scintille...
Il nuovo, il terribile imeneo si compì!...
Di lì a mezz’ora, il vecchio conte entrò nel boudoir della moglie.
“Che ne dici, cuor mio? Vogliamo offrire il tè al nostro ospite diletto?”, disse, carezzandole la guancia...»
Che bellezza, eh, Varvara? È un po’ licenzioso, ne convengo, ma meglio di così non si può scrivere. Ed eccovi qua un altro brano, che piglio dalla novella Ermàk e Zjulejka.
Premetto che il cosacco Ermàk, il selvaggio e feroce conquistatore della Siberia, è innamorato di Zjulejka, sua prigioniera, che è figlia di Kučum, zar di quei paesi. Come vedete, il fatto rimonta all’epoca di Ivan il Terribile. State un po’ a sentire il dialogo tra il cosacco e la fanciulla.
«“Tu m’ami, Zjulejka? Oh, ripetilo, ripetilo!”
“Io ti amo, Ermàk!”, balbettò Zjulejka.
“Cielo e terra, vi ringrazio! Io sono felice!... Voi tutto mi deste, tutto ciò cui fin dall’alba della vita anelò l’anima mia! Ecco dunque dove tu mi guidasti, o stella del mio destino, ecco dunque perché qui mi spingesti, oltre la nevosa catena degli Urali! Io mostrerò a tutto il mondo la mia Zjulejka, e gli uomini, mostri che la rabbia consuma, non oseranno incolparmi. Oh, se essi potessero comprendere gli arcani affanni dell’angelica anima tua, se fossero capaci da vedere tutto un poema in una sola lacrima della mia Zjulejka! Oh, fa’ che quella lacrima io l’asciughi con i miei baci, fa’ ch’io la beva quella lacrima celeste, non terrena!”
“Ermàk”, disse Zjulejka “il mondo è malvagio e gli uomini sono ingiusti. Io sarò condannata, perseguitata, o mio diletto Ermàk. Che potrà fare una povera fanciulla, cresciuta fra i ghiacci natii della Siberia sotto la jurta10 paterna, nel vostro mondo gelido, snaturato, egoista? Io vivrò incompresa, o amor mio, sospiro mio!”
“Allora la sciabola cosacca sibilerà sulla testa degli scellerati!”, urlò Ermàk, roteando ferocemente gli occhi.»
Figuratevi, Varvara, il furore di Ermàk, quando viene a sapere che hanno ucciso la sua Zjulejka. Il vecchio e cieco Kučum, col favore della notte, in assenza di Ermàk, si era insinuato nella sua tenda e aveva trucidato la propria figlia, volendo infliggere un colpo mortale a colui che gli aveva usurpato la corona e lo scettro.
«“Come mi suona armonioso lo stridore del ferro!”, gridò Ermàk, furibondo, arrotando il suo coltello sulla magica pietra.
“Io ho sete del loro sangue, io ne ho sete! Io ne straccerò, ne segherò, ne sbranerò le membra aborrite!”»
Dopo di che, non avendo la forza di sopravvivere alla sua Zjulejka, Ermàk si getta nell’Irtyš11, e così finisce la storia.
Quest’altro poi è un piccolo brano, di genere ameno, scritto apposta per far ridere.
«Conoscete Ivàn Prokòf’evič Žëltopùz? Quel tale, sapete, che appiccò un morso alla gamba di Prokofij Ivànovič. È certo un uomo di pessimo carattere, ma dotato in compenso di squisite virtù. Prokofij Ivànovič invece è ghiotto di squisiti bocconi. Quando era in relazione con Pelageja Antònovna... La conoscete Pelageja? Quella signora che si mette sempre le sottane a rovescio...»
Uno spasso, Varvara, un vero spasso! Ci tenevamo i fianchi dal ridere, quando ce l’ha letto. Che ingegno, eh? Un po’ caricato, se vogliamo, un po’ troppo umoristico, ma senz’ombra di male, castigato, benpensante, niente scappate liberali. Ratazjaev, badate, serba una condotta esemplare, e perciò è un autore di prim’ordine, che non ha niente a che vedere con certi altri scrittori.
E che sarebbe, dico... qualche volta questo pensiero mi viene in testa... che effetto farebbe se scrivessi anch’io qualcosa? Supponiamo così, per esempio, che un bel giorno, senza preavviso, venisse fuori un libro intitolato Versi di Makàr Dèvuškin! Come la prendereste voi? che ne pensereste?... Quanto a me, vi giuro, bambina mia, che appena stampato il libro, non avrei più il coraggio di mostrarmi per via. Eccolo là l’autore, il letterato, ecco il poeta Dèvuškin, proprio lui, guardatelo! E tutti gli occhi a squadrarmi... E io, pover’uomo, che farei allora con le mie scarpe? Io, sia detto fra noi, le ho quasi sempre rappezzate, e le suole, purtroppo, beccheggiano spesso in modo molto sconveniente. Ebbene, che succederebbe allora, quando tutti venissero a sapere che lo scrittore Dèvuškin ha le scarpe rotte? Che direbbe una di quelle contesse o duchesse... Mettiamo pure che non se ne accorga; perché, mi figuro io, le contesse non si occupano di scarpe, e per giunta delle scarpe di uno scrivano (c’è scarpa e scarpa s’intende), ma gli amici mi tradirebbero e le racconterebbero ogni cosa. Ratazjaev, per primo, mi tradirebbe. Frequenta la casa della contessa V; dice che ci va sempre, così, alla buona. E dice che la contessa è un bocconcino di donnina, istruita, galante, gran dama. Una vera forca quel Ratazjaev!
Ma basta con questo argomento; scherzo, sapete, tanto per tenervi allegra. Addio, anima. Vi ho scritto una filastrocca di lettera, ma è che oggi sono di un umore eccellente. Siamo tutti stati a pranzo da Ratazjaev e hanno tirato fuori (sono capi ameni dal primo all’ultimo!) una certa storiella... Ma a che serve parlarvene! Badate solo a non fare arzigogoli sul mio conto, Varvara. Io, così, niente di male... si ammazza il tempo. Vi manderò i libri, non dubitate. Qui si passano di mano in mano un romanzo di Paul de Kock; ma voi no, Paul de Kock12 non l’avrete... No, cara, non è roba per voi Paul de Kock. Dicono che ha fatto andare in visibilio tutti i critici di Pietroburgo. Vi mando una libbra di confetti, li ho comprati apposta per voi. Ogni volta che ne mettete uno in bocca, ricordatevi di me. Badate a non rosicchiare lo zucchero candito, succhiatelo solo, altrimenti vi fa male ai dentini. Ma forse vi piacciono anche i canditi? Scrivetemelo. Dio vi conservi, figliola cara, per consolazione e gioia del
Vostro amico fedelissimo
Caro signor Makàr,
Fedora dice che, se io volessi, ci sono delle persone che volentieri si interesserebbero della mia posizione, e mi procaccerebbero in una famiglia un posto di governante. Che ve ne pare, amico mio? accetto o no? Certo, non vi sarei più a carico, perché il posto è vantaggioso; ma d’altra parte mi fa un certo effetto entrare in una casa estranea. Si tratta di benestanti, piccoli proprietari. Naturalmente prenderanno informazioni, mi faranno domande, vorranno sapere, e che dirò allora? Io poi sono così poco socievole, così selvaggia; mi affeziono al mio vecchio cantuccio, e ci vivrei in eterno. Ci si fa l’abitudine, capite: per angusto e disagiato che sia, ci si sta meglio che altrove. Aggiungeteci il viaggio; e poi chissà che specie di servizio pretenderanno; si tratterà forse di badare ai ragazzi. Gente difficile, a quanto pare: in due anni, è già la terza governante che cambiano. Consigliatemi dunque, signor Makàr, vado o non vado? Ma come mai diventate prezioso? È una fortuna se ogni cent’anni fate una capatina qui da me. Quasi quasi non ci vediamo che alla messa la domenica. Anche voi misantropo, come me: si vede proprio che una parentela c’è. Però voi non mi volete bene, signor Makàr: se sapeste come mi abbatte certi momenti non vedermi vicino un’anima pietosa! Specialmente all’imbrunire, mi sento più sola che mai; Fedora va fuori per qualche faccenda; io penso, penso, mi ricordo di tutto il passato, mi scorrono davanti agli occhi e le gioie e i dolori come se uscissero da una nebbia. Rivedo persone note, proprio le rivedo vive... più spesso di tutte la mamma... E che sogni, che sogni la notte! Purtroppo, la mia salute non è più quella di una volta: sono così debole! Stamani, ad esempio, alzandomi dal letto, mi sono sentita male. Per giunta, anche la tosse non mi dà pace, una brutta tosse. Ho il presentimento che morirò presto... Chi mi seppellirà? chi verrà dietro al mio feretro? chi mi piangerà?... E mi toccherà forse di morire lontana dal mio paese, fra gente sconosciuta, in una casa estranea!... Dio mio, com’è triste la vita, signor Makàr! Ma che vi salta in testa, amico mio, a volermi sempre nutrire di confetti? Io non so davvero dove li pigliate tanti soldi. Ah, amico mio, teneteli da conto, badate al risparmio, per amor di Dio! Fedora ha trovato da vendere il tappeto che ho ricamato: ne danno cinquanta rubli di carta. Un buon prezzo; credevo di ricavarne meno. A Fedora darò tre rubli, e mi farò un vestito, un vestitino semplice, un po’ più caldo. Per voi ci sarà un panciotto: lo farò con le mie mani, penserò io a scegliere una buona stoffa.
Fedora mi ha procurato un libro, I racconti di Belkin13. Ve lo manderò, se vorrete leggerlo. State però attento che non si sciupi e restituitemelo presto: il libro non è mio. È un’opera di Puškin: due anni fa leggevamo queste novelle insieme, la mamma e io; ora mi ha fatto tanta impressione rileggerle! Se avete anche voi qualche libro, mandatemelo; che non sia però un libro di Ratazjaev. Vi darebbe certo della roba sua, se qualcosa ha stampato. Ma mi dite un po’ perché vi piacciono quei suoi scritti? Che scempiaggini!... Basta così per oggi. Quanto ho chiacchierato! Quando sono presa dalla mia malinconia, mi piace discorrere di una cosa e dell’altra. È una medicina; mi sento subito sollevata, specialmente se mi sfogo, se dico tutto quel che ho nel cuore. Addio, addio, amico mio!
Vostra
Carissima Varvara Alekséevna,
via, via, smettiamola, non affliggiamoci più! Vergognatevi, figliola mia cara! E che pensieri vi vengono in capo! Voi ammalata? Nemmeno per sogno; siete più fresca di una rosa; un po’ palliduccia, se vogliamo, ma sempre una rosa. E da che visioni, da che incubi vi lasciate prendere! Via, dico, non fatelo più, e ridetevela di questi sognacci. Perché dormo bene io? perché a me non mi succede come a voi? specchiatevi in me, figliola mia. Vivacchio alla meglio, riposo tranquillo, sto ritto e sano come un giovanotto: fa piacere guardarmi. Smettetela, vi ripeto, vergognatevi. Guarirete. Io la conosco la vostra testolina: basta un niente, e voi subito a fantasticare, a tormentarvi non si sa di che cosa. Finitela, dico, fatelo per amor mio. Voi governante? voi? Mai, mai e poi mai! Ma com’è che vi saltano certi grilli? E poi, anche un viaggio! Ma no, bambina mia, non ve lo permetto, mi oppongo con tutte le mie forze contro una tale pazzia. Venderò il mio vecchio soprabito, girerò in camicia per le vie, ma voi qui non mancherete di niente. No, Varvara, no: io vi conosco. La vostra è una follia bella e buona! Questo solo è certo: tutta la colpa è di quella stupida di Fedora che vi ha montato la testa. Ma voi non datele retta. Scommetto che non sapete neppure tutto, voi. Fedora non ha un’oncia di sale in zucca, è ciarliera, mettimale, un demonio; è stata lei a mandare all’altro mondo il suo povero marito. Che non sia proprio lei che vi ha fatto arrabbiare? No, no, Varvara, no, per nulla al mondo! E che farei io, ci pensate sì o no? come resterei? No, via, levatevi questi capricci dalla testa. Che vi manca qui? Siete la nostra gioia e voi pure ci volete bene: vivete dunque zitta e cheta nel vostro cantuccio e non se ne parli più: cucite, leggete, o anche non cucite, fa lo stesso, purché ve ne restiate con noi. Ma pensateci, ma ditelo anche voi: una stravaganza, una cosa inconcepibile, inaudita... Vi troverò intanto i libri, e poi, magari, andremo qua o là a far due passi. Vi ripeto però, lasciate là le fantasie, mettete giudizio, non farneticate per dei nonnulla! Verrò a trovarvi, e presto anche, ma voi scusate, permettete che vi dica in tutta franchezza come la penso: non sta bene, bella mia, non sta affatto bene!... Io sono un ignorante, lo so, io non ho studiato, ma questo non c’entra, perché non è di me che si tratta; io, dite quel che volete, io piglio le difese di Ratazjaev. È mio amico, che diamine! Per me, Ratazjaev scrive bene, benissimo, arcibenissimo. Non sono e non posso essere d’accordo con voi. Uno stile colorito, caldo, tutto figure, pieno di tanti pensieri, una meraviglia! Voi forse, Varvara, avrete letto sbadatamente o eravate di malumore, o magari Fedora vi aveva fatto arrabbiare. Dovete leggere quei passi con sentimento, con attenzione, in un momento buono, diciamo così, per esempio, quando avete un confetto in bocca; allora sì, leggete. Ci saranno, non dico di no, scrittori più bravi di Ratazjaev, anche molto più bravi: ma se loro sono buoni, pure Ratazjaev è buono; loro scrivono bene, e pure Ratazjaev scrive bene. Lui sta per proprio conto, scrive da sé e per sé, e fa benissimo a scrivere. E ora tocca a me smettere: bisogna che corra in ufficio. Calmatevi, mi raccomando, calmatevi, tesoro mio, e che il Signore vi protegga.
Vostro fedele amico
P.S. Grazie del libro. Leggeremo anche Puškin. Stasera, appena scuro, passerò da voi senza meno.
Caro signor Makàr,
no, amico mio, no, non posso vivere qui in mezzo a voi. Ci ho ripensato, e trovo adesso che farei malissimo a rifiutare un posto così ben retribuito. Avrò almeno assicurato un boccone: ce la metterò tutta per ingraziarmi quella gente, mi sforzerò perfino, se occorre, di mutare carattere. Non nego che mi sarà assai penoso vivere fra estranei, sollecitarne la benevolenza, dissimulare, far forza a me stessa, ma Dio mi aiuterà. Non è detto che debba rimanere in eterno isolata e selvaggia. Non è la prima volta che questo mi accade. Ricordo come fosse ora i giorni del collegio. La domenica, a casa, saltavo, cantavo, ne facevo di tutti i colori, e qualche volta anche la mamma mi sgridava; ma io, niente, ero allegra lo stesso, avevo il cuore in festa. Venuta la sera mi piombava addosso una malinconia mortale: alle nove precise bisognava tornare al collegio, dove tutto era estraneo, freddo, severo: le sorveglianti erano così irritabili il lunedì; il cuore mi si stringeva, mi veniva da piangere; mi ritiravo in un angolo, cercavo di ingoiare le lacrime. Mi accusavano di essere svogliata; ma io non piangevo per la lezione da imparare, no. Eppure mi adattai a poco a poco. E poi, quando lasciai il collegio, piansi anche allora, dicendo addio alle compagne. E ora, vi pare una bella cosa che io viva a carico di voi due? Questo solo pensiero è già una tortura per me. Vi dico tutto questo francamente, perché sono abituata con voi a essere sincera. Non vedo forse come Fedora si alza ogni mattina all’alba e lava e spazza, e lavora fino a tarda notte?... Eppure le vecchie ossa amano il riposo. Non vedo forse che per me vi rovinate, che lesinate l’ultimo spicciolo per farmi contenta? E col lauto stipendio che riscuotete! Voi scrivete che vi ridurreste con la sola camicia purché io non manchi di niente. Vi credo, amico mio, credo al vostro buon cuore, ma questo voi lo dite adesso, adesso che avete denaro, che avete ricevuto una gratifica. Ma poi? Lo sapete che io sono sempre ammalata; non mi riesce di lavorare come voi, anche se sarei felice di farlo, né il lavoro si trova sempre. Che mi rimane dunque? Struggermi di crepacuore guardando voi due poveretti. Che servizio vi rendo io? E perché, amico mio, vi sono così indispensabile? Che bene vi ho fatto? Sono, sì, affezionata a voi con tutto il mio cuore, vi voglio un gran bene, un monte di bene, ma purtroppo, così vuole la mia malasorte, io so amare, sono capace di amare, ma nient’altro: non vi sono utile in niente, non posso ricompensarvi di tutto quello che fate per me. Dunque non mi trattenete più, pensateci meglio e ditemi la vostra ultima parola: attendo con impazienza.
Vostra affezionatissima
Pazzie, Vàren’ka, nient’altro che pazzie! A lasciarvi fare, Dio sa che fisime vi verrebbero in testa. Questo mi va, quest’altro non mi va... E io vedo chiaro, adesso, che son tutte storie. Ma che vi manca qui, mi fate il piacere di dirlo? Vi vogliamo bene, ci volete bene, siamo tutti felici e contenti: che si può pretendere di più? Che farete invece in casa di estranei? Voi non sapete che significhi un estraneo. Domandatelo a me, che ve lo spiego. Io li conosco bene; ho mangiato il loro pane. Sono cattivi, prima di tutto, cattivi al punto che un bel giorno non ti trovi più il cuore a posto, tanto ti hanno angariato a furia di rimproveri, di pretese, di occhiate di traverso. Qui vi trovate che meglio non potreste: così aggiustata al calduccio nel vostro nido. E noi? ci pianterete così in asso? E che faremo? che farò io, povero vecchio? Non ci siete necessaria, voi? Non ci siete utile?... Come, non ci siete utile? No, bambina mia, no, dite un po’ voi stessa com’è che non siete utile. Voi mi siete molto, molto utile, Varvara. Voi fate il bene, e non lo sapete... Adesso, per esempio, penso a voi e mi sento non so che allegria... Vi scrivo ogni tanto una lettera, ci metto dentro tutti i miei sentimenti, voi mi rispondete punto per punto... Vi ho rimesso un po’ a nuovo il guardaroba, vi ho comprato un cappello, voi mi date una commissione, e io subito ve la sbrigo... No, com’è che non siete utile? E che me ne farò io di questi pochi anni che mi avanzano? a che sarò buono? Forse voi, Varvara, a questo non ci avete pensato; pensateci, ve ne prego, pensate proprio a questo che vi dico: a che sarà buono Makàr senza di me?... Mi sono abituato a voi, figlia mia. Che faccio senza di voi? Mi butto nella Nevà, e salute a chi resta. Ve lo giuro, Varvara, perché infatti non vedo altra uscita, non la vedo. Ah, cattiva che siete, avete voglia che mi portino al cimitero, che una qualunque vecchia mendicante accompagni il carretto a nolo con la bara, che mi buttino addosso quattro palate di terra e se ne vadano per i fatti loro, lasciandomi a marcire come un cane. È un peccato il vostro, un grosso peccato, Varvara! Per quanto è vero Dio, è un peccato! Vi rimando il libro, amica mia, e se vi preme sapere quel che ne penso di un libro come questo, vi dirò che in vita mia non mi è mai successo di leggerne uno così bello. Io non so come abbia potuto campare tanti anni, rimanendo quel babbuino che sono. Che ho fatto io? da quali boschi sono sbucato? Non so niente, amica mia, il puro niente! Non ho istruzione, già ve l’ho detto e lo sapete; ho letto poco, pochissimo, una miseria. Ho letto Il quadro della vita umana, un’opera molto seria e sensata; ho letto Il monello che suona tante canzoni con i campanelli; ho letto Le gru di Ibico15, ecco tutto quel che ho letto. Adesso nel vostro libro ho letto Il mastro di posta16... Ma sapete una cosa, Varvara? Succede alle volte di vivere anni e anni senza accorgersi di avere sottomano un libro dove tutta quanta la tua vita è descritta dall’a fino alla zeta. E quel che prima non sospettavi nemmeno dei fatti tuoi, appena cominci a leggere là dentro, a poco a poco ti viene in mente, e tu vedi, sbrogli, capisci. E finalmente, ecco un altro motivo del piacere che ho provato: succede a volte che pigli un altro libro qualsiasi, leggi, rileggi, ti rompi il capo, e non ne capisci un’acca. Io, per esempio, sono uno stupido, sono nato stupido, sicché le opere serie non sono fatte per me; ma questa, tu la leggi, e ti pare di averla scritta tu stesso, come se, poniamo, l’autore avesse preso il mio cuore così come sta, e l’avesse tirato fuori, frugato e sminuzzato, come fosse il suo! Ma non ci vuol nulla, Dio mio: è la cosa più semplice di questo mondo. Parola d’onore, l’avrei scritto anch’io, e perché no? Io sento precisamente così, proprio com’è stampato, e certe volte mi sono trovato nelle stesse congiunture di quel poveraccio di Samsòn Vyrin! E quanti ce ne sono al mondo di questi Samsòn Vyrin! E con che bravura è descritta ogni cosa! Poco mancò che mi mettessi a piangere, quando lessi che quel disgraziato aveva perduto la memoria dal gran bere, che non aveva più bene, che dormiva tutto il santo giorno sotto una pelle di pecora, che affogava le pene nel ponce e si asciugava le lacrime con la falda unta del vestito, ogni volta che si ricordava della sua agnelletta smarrita, della figliola Dunjaša! No, è tutto, tutto vero! È una cosa viva. Una cosa che io stesso ho visto, che mi sta vicina... Tereza, per esempio, e anche Gorškòv, quel nostro povero impiegato, forse anche lui è un Samsòn Vyrin, soltanto che ha un altro cognome. È una cosa di tutti insomma, che può succedere anche a voi e a me. E anche al conte che ha il suo palazzo al Nevskij, anche a lui può succedere, ma in altro modo s’intende, perché quella gente lì fa tutto a modo suo, alla grande; ma ripeto può succedere anche a lui, tutto gli può succedere, come a me tale e quale. Ecco come sta il fatto, Varvara mia; e voi intanto pensate di lasciarci; ma tenete bene a mente che a me può capitare un guaio serio. Voi rischiate di rovinarvi, e di rovinare me. Ah, bambina mia cara, scacciatele una volta per sempre queste idee bislacche e non mi tormentate senza ragione. Ma dove, ma come, voi, debole come un uccellino che non ha messo le penne, come farete a nutrirvi, a scansare i pericoli, a difendervi dalla gente cattiva? Rientrate in voi, Varvara; non date retta ai consigli sciocchi e alle ciarle, e rileggete intanto il vostro libro; rileggetelo con attenzione: vi farà bene.
Ho parlato a Ratazjaev del Mastro di posta. Mi ha detto che è scuola vecchia, che oggi sono in voga i libri illustrati, le situazioni, l’effetto: per dirvi la verità, non ho capito troppo. Ha concluso alla fine, che Puškin è un buon autore, che la Russia se ne gloria, e altre cose simili. Sì, Varvara, è un bel libro, vi ripeto, un libro bellissimo: rileggetelo con attenzione, seguite i miei consigli, fatemi contento, siate docile. E lo stesso Dio ne terrà conto, figlia mia, non ne dubitate.
Vostro sincero amico
Caro signor Makàr,
Fedora mi ha portato stamani quindici rubli d’argento. Che allegria, poveretta, quando si è vista mettere in mano tre rubli! Vi scrivo in fretta. Vi sto tagliando il panciotto, una stoffa magnifica: gialla a fiorellini. Vi mando un libro di novelle; ce n’è di interessanti: leggete quella intitolata Il cappotto18. Voi volete in tutti i modi che si vada insieme a teatro: ma, e la spesa dei biglietti? Si potrebbe prendere due posticini in loggione. È tanto che non vado a teatro, quasi non me ne ricordo. Ho paura però, vi ripeto, che il capriccio ci costi caro. Fedora non fa che scuotere la testa. Dice che voi vi siete dato allo spreco; e nemmeno io sono cieca: quanto denaro avete buttato via solo per me! Badate, amico mio, a non combinare dei guai. Ho saputo da Fedora di certe voci a proposito di un vostro battibecco con la padrona di casa per certe mesate arretrate. Sono in grande apprensione per voi. Addio, faccio punto. Ho da cambiare i nastri a un cappello.
P.S. Sapete, se andremo a teatro, mi metterò senza meno il cappellino nuovo e la mantiglia nera. Che ne dite? starò bene?
Amica mia,
...sempre a proposito di ieri sera. Sì, anch’io un tempo ho corso la cavallina. Per quell’attrice pigliai una cotta, ma di quelle grosse. E questo sarebbe niente; il curioso è che quasi non l’avevo vista e che a teatro ci ero stato una volta sola. Eppure la cotta la pigliai. Abitavo porta a porta con cinque giovanotti, capiscarichi e scavezzacolli di prima forza. Naturalmente facemmo lega, benché mi tenessi sempre alla debita distanza. D’altra parte, per non parere troppo scontroso, li lasciavo dire e li stavo a sentire. Quante me ne raccontarono di quell’attrice! Ogni sera tutti e cinque a teatro – e dire che non avevano mai uno spicciolo per le cose indispensabili – tutti in loggione, e lì a battere le mani, a sgolarsi, a fare i diavoli a quattro. Tornati a casa, non mi facevano chiudere occhio; la notte intera a empirmi la testa della loro Glaša; tutti e cinque n’erano innamorati, tutti e cinque sospiravano per lo stesso passerotto. Dàlli e dàlli, mi stuzzicarono, e non so davvero come, una bella sera mi trovai con loro a teatro, in loggione. Quanto a vedere non vedevo che un angolo del sipario; sentivo, però. Una vocetta insinuante, armoniosa, dolce: un usignolo. Ci rompemmo le mani a furia di batterle, e fu tale il baccano che uno di noi fu messo alla porta. Tornai da teatro che mi pareva di essere ubriaco. Non mi avanzava che un rublo in tasca e ci volevano ancora dieci giorni per riscuotere lo stipendio. Ebbene lo credereste? Il giorno appresso, prima dell’ufficio, entro da un profumiere francese e spendo tutto il mio capitale in essenze e saponi odorosi. Perché lo facessi, non so. Invece che a casa mangiavo in trattoria, mi mettevo a passeggiare sotto le finestre della cantante. Abitava a un quarto piano. Scappavo un momento a casa, mi riposavo un’oretta, e di nuovo sotto le finestre. La storia durò così un mese e mezzo: tutti i momenti montavo su una carrozza di piazza con il cavallino più brioso che ci fosse, a scarrozzare su e giù per quella via. Spesi come un pazzo: m’indebitai fino alla cima dei capelli, e poi di colpo non ci pensai più: m’ero stufato. Vedete un po’ quel che può fare una cantante di un povero galantuomo! Del resto, ero giovane allora, giovane di primo pelo...
Gentilissima signorina Varvara,
vi rendo il libro da voi ricevuto il 6 corrente, e al tempo stesso mi affretto con la presente a spiegarmi con voi. Sta male, Varvara, molto male che mi abbiate costretto a questo. Scusate, amica mia: ogni condizione è data in sorte al genere umano, è distribuita secondo la volontà dell’Altissimo. Uno è destinato a portar le spalline di generale, un altro è consigliere titolare: questo è destinato a comandare, quest’altro a obbedire e sottomettersi senza mormorare. La distribuzione è calcolata e misurata secondo le capacità di ciascuno: c’è chi è buono per una cosa e chi per un’altra; e le capacità sono assegnate dallo stesso Dio. Io servo ormai da circa trent’anni: osservazioni non ne ho mai meritate; tengo una buona condotta, non mi si può accusare di aver partecipato a disordini. Come cittadino, ho la coscienza, non dico di no, di avere i miei difetti, ma anche le mie qualità. I superiori mi stimano; Sua Eccellenza stessa è contento di me; e benché fino a oggi non mi abbia favorito di un attestato speciale della sua benevolenza, io so che è contento. La mia calligrafia è abbastanza chiara e fa bella figura, così, né troppo grossa, né troppo minuta, piuttosto corsivo che tondo, ma in tutti i casi soddisfacente: da noi forse solo Ivàn Prokòf’evič scrive così, pressappoco. Ho fatto i capelli grigi e non ho sulla coscienza nessun grosso peccato.
Qualcuno piccolo sì, ma chi non ne ha? Tutti siamo peccatori, anche voi, figliola mia, anche voi! Ma quanto a trascorsi seri, a spirito sedizioso, o avere trasgredito i regolamenti, o attentato alla pubblica tranquillità, questo mai e poi mai, nemmeno per sbaglio: mi era perfino toccata una piccola decorazione, ma lasciamo andare!... Tutto questo voi dovreste saperlo, e lui pure, l’autore della novella: visto che s’è messo a fare un ritratto, bisognava che ne conoscesse l’originale. No, Vàren’ka, no: questo da voi non me l’aspettavo davvero!
Come! Non sarà più possibile dunque vivere tranquilli nel proprio cantuccio, quale che sia, vivere, come si suol dire, senza pescar nel torbido, senza toccare nessuno, col santo timor di Dio, senza che gli altri tocchino te, senza che si ficchino nel tuo bugigattolo e si mettano lì a spiare come, diciamo, vai vestito per casa, se hai, per esempio, una buona giacca, se ti manca la biancheria, se hai scarpe o no, e come sono fatte le suole, e poi quel che mangi, quel che bevi, quel che ricopi? E che c’è di male se un uomo, se io, poniamo, dove vedo che il lastrico è cattivo, tengo conto delle mie scarpe e cammino in punta di piedi? Che bisogno c’è di stampare che il tal dei tali si trova qualche volta in angustie e non beve il tè? Forse è obbligatorio bere il tè? Ma che forse io guardo in bocca alla gente per vedere che sorta di bocconi va masticando? C’è qualcuno che si possa lagnare di questo con me? No, figlia mia, no: perché offendere gli altri, quando gli altri non ti toccano? Bel gusto davvero! Tu presti servizio per tanti anni di fila, sgobbi, ti consumi, fai l’impossibile, i superiori ti stimano (comunque stiano le cose, ti stimano), ed ecco ti salta fuori un tizio qualunque, e senza un motivo al mondo ti squaderna sul muso una caricatura del genere. Lo ammetto sì, accade a volte che ti rifai qualche capo di vestiario, e allora sei contento come una pasqua, non chiudi occhio, ti senti felice, per esempio, di calzare un paio di scarpe nuove: sì, questo è vero, questo l’ho provato io pure, perché è un piacere vedersi al piede una scarpa fine e ben fatta, questo, dico, è descritto appuntino! E a ogni modo, io non capisco come Fëdor Fëdorovič abbia lasciato passare inosservato un libriciattolo simile senza risentirsi, senza difendersi. È vero che, per l’alto posto che occupa, è ancora giovane, e gli piace spesso alzar la voce; ma perché non alzarla? Perché risparmiare una buona strigliata al subordinato, se costui se la merita? Mettiamo pure che lo faccia per darsi un tono; e sia, anche il tono ci vuole; ci vuole l’avvertimento, la lezione, magari, la lavata di capo; poiché – cara Varvara, sia detto qui fra noi – ci sono quelli che solo a furia di spintoni si muovono; e ciascuno s’ingegna per farsi avanti, per mettersi in evidenza, per dire: presto servizio qui, presto servizio là!, poi quando ci sono le pratiche da sbrigare, non ci si pensa più che tanto. E siccome ci sono varie cariche, e ciascuna va trattata e messa a posto secondo la gerarchia, è naturale che le lavate di capo debbano essere di varie di qualità: questo è nell’ordine delle cose. In fondo, figliola mia, è così che il mondo si regge, che tutti noi ci diamo il nostro tono l’uno verso l’altro, che ciascuno di noi ha un altro sotto di sé da sgridare. Senza questa regola prudente, addio baracca! Stupisco davvero come Fëdor Fëdorovič abbia ingoiato in pace un’offesa di questo genere.
E perché poi scrivere di queste cose? e a che servono? Forse per questo qualcuno dei lettori mi farà fare un cappotto? O mi comprerà un paio di scarpe? No, Varvara, leggerà tutta la storia, ne vorrà anche la continuazione e basta lì. Ti rannicchi, talvolta, ti nascondi, ti piglia quasi un tremore per una colpa che non hai commesso, non metti fuori nemmeno la punta del naso perché le ciarle ti fanno venire la febbre, perché si cerca il pelo nell’uovo per esporti alla berlina, ed ecco che tutta la tua vita pubblica e domestica diventa letteratura, e si stampa, si legge, si condanna, se ne fanno le grasse risate! Di questo passo nemmeno sulla via ci si potrà più mostrare: i connotati sono così precisi, che ti si riconosce subito alla semplice camminata. Magari, si fosse corretto alla fine, l’autore, avesse addolcito qualche tinta, avesse detto per esempio, dopo quel punto dei coriandoli in testa, avesse detto, che nonostante tutto il pover’uomo era un cittadino virtuoso, rispettabile, che non meritava le beffe dei colleghi d’ufficio, che si mostrava ossequiente verso i superiori (e qui si poteva recare un esempio qualunque), che non voleva male a nessuno, che credeva in Dio, e che dopo morto (se era proprio indispensabile farlo morire) era stato rimpianto. Meglio però lasciarlo vivere quel disgraziato, fargli ritrovare il cappotto e che Fëdor Fëdorovič (parlo in persona mia, parlo, e voi mi capite!), che quell’alto personaggio, informato delle sue condizioni, lo facesse chiamare nel suo gabinetto, gli annunciasse una promozione, gli fissasse un buono stipendio. Vedete che lieto fine si sarebbe avuto: la punizione del male, il trionfo della virtù, e tutti i colleghi scrivani sarebbero rimasti con un palmo di naso. Per me, così avrei fatto. Ma che c’è di speciale, di bello in questo libro? Un fatto insignificante, volgare, della vita di tutti i giorni. Ma come vi è venuto in testa di mandarmi un libercolo simile?... un libro maligno, una storia dell’altro mondo, perché non può essere che sia mai esistito un impiegato come quello lì. No, Varvara, no, io sporgerò querela in piena regola e forma.
Vostro umilissimo servo
Caro signor Makàr Alekséevič,
gli ultimi avvenimenti e le vostre lettere mi hanno atterrita: non sapevo che cosa pensare, ma Fedora poi mi ha fatto capire ogni cosa. Ma perché disperarsi tanto e cadere nell’abisso in cui siete caduto? Le vostre spiegazioni non mi hanno per nulla soddisfatta. Lo vedete ora se avevo ragione ostinandomi ad accettare il posto che mi offrivano? Aggiungete che il mio caso recente mi spaventa sul serio. Voi dite di avermi nascosto la verità per l’amore che mi portate. Ma io già vedevo quanto vi ero obbligata, fin da quando giuravate di spender per me i vostri risparmi depositati per ogni evenienza. Adesso poi, quando ho saputo che denaro non ne avevate affatto, e che, informato casualmente delle mie angustie, vi decideste a farvi anticipare lo stipendio e vendeste perfino il vostro soprabito durante la mia malattia, adesso mi trovo in una condizione così penosa, che non so a che santo votarmi. Ah, signor Makàr!, avreste dovuto fermarvi ai primi benefici dettati dalla pietà e dall’affetto di parente, e non dissipare gli ultimi vostri soldi in cose inutili. Voi avete tradito la nostra amicizia, perché non siete stato sincero con me; e ora, quando so e penso che quei poveri soldi sono andati via in fronzoli, confetti, passeggiate, teatri e libri, sento che pago assai caro il mio benessere con l’amara coscienza di un’imperdonabile leggerezza (poiché da voi accettavo tutto a occhi chiusi, non curandomi di voi); e i vostri sacrifici per vedermi contenta mi danno oggi un vero spasimo, si lasciano dietro un vano rimorso. Non mi era sfuggita la vostra preoccupazione degli ultimi tempi, e benché temessi qualche brutta cosa, non potevo nemmeno immaginare quel che oggi accade. Possibile, signor Makàr, che voi siate andato giù a tal punto! Ma che penseranno di voi, che diranno quelli che vi conoscono? Voi, che tutti stimavano per bontà di cuore, per giudizio, per compostezza, voi farvi prendere da un vizio così disgustoso, del quale nessuno vi avrebbe potuto mai accusare! Che impressione ho provato, quando Fedora mi raccontò che vi avevano trovato per via ubriaco fradicio e che le guardie vi avevano ricondotto a casa! Mi sembrò di morire, credetemi, sebbene mi aspettassi qualcosa di anormale, perché da quattro giorni eravate fuori di voi. Ma avete pensato, signor Makàr, a quello che diranno i vostri superiori venendo a sapere il vero motivo della vostra assenza? Mi dite che tutti ridono di voi, che per nessuno è più un mistero la nostra relazione, che nei loro motteggi i vostri colleghi fanno anche il mio nome. Non ci badate, signor Makàr, e calmatevi, per amor di Dio. Mi tiene anche in apprensione la vostra storia con quegli ufficiali: ne ho solo sentito un accenno confuso. Spiegatemi voi, di che si tratta di preciso? che è successo? Mi dite pure che non avete avuto il coraggio di aprirvi con me; temevate di perdere la mia amicizia, eravate disperato non sapendo come venirmi in aiuto nella mia malattia; vendeste ogni cosa per mantenermi e non farmi andare all’ospedale, impegnaste tutto il possibile, e ogni giorno avevate dei litigi con la padrona di casa; ma l’avermi nascosto tutto questo non è servito a niente e il rimedio è risultato peggio del male. Fatto sta che adesso so tutto. Per risparmiarmi il rimorso di essere io la causa dei vostri guai, mi avete dato un doppio dolore con un silenzio niente affatto scusabile. Che colpo ho avuto, amico mio! Ah, la sventura è una malattia contagiosa. Agli infelici, ai poveri occorre tenersi lontani perché il contagio non si aggravi. Che tormenti vi sono costata, quante disgrazie mai provate prima nella vostra vita modesta e solitaria! Questo pensiero mi tortura e mi uccide.
Scrivetemi subito: ditemi francamente quel che vi accade e com’è che vi siete deciso a un tale passo. Tranquillizzatemi, se è possibile. Non è per egoismo che vi parlo della mia tranquillità, ma per l’amicizia sincera che vi porto, e che non si cancellerà mai dal mio cuore. Addio; aspetto con impazienza la vostra risposta. Mi avete mal giudicata, signor Makàr.
Vostra affezionatissima
Varvara mia inapprezzabile,
ebbene, visto che ora tutto è passato e tutto a poco a poco ritorna allo stato normale, lasciate che vi spieghi, amica mia: voi siete in pena per quel che si penserà di me, e io rispondo e dico che più di ogni cosa mi preme la mia reputazione. Perciò, mentre vi rendo partecipe delle mie disgrazie e di tutti quei tali disordini, sappiate pure che dei superiori nessuno ancora sa niente, e niente saprà; sicché, quanto a stima, seguiteranno a stimarmi come prima. Di una cosa ho paura; ho paura delle chiacchiere, dei pettegolezzi. Da noi, la padrona non faceva che gridare, ma ora, dopo che con l’aiuto dei vostri dieci rubli le ho saldato parte del debito, brontola e basta. E per concludere le mie spiegazioni, vi dirò che la vostra stima è per me la cosa più preziosa al mondo, il mio unico conforto nelle presenti malaugurate congiunture. Grazie a Dio, il primo colpo, la prima batosta è passata, tanto più che voi avete preso la cosa per il verso migliore e non mi avete giudicato un amico infedele ed egoista, solo perché vi avevo nascosto la situazione, e credetti bene di ingannarvi, non avendo la forza di vedervi partire e portandovi lo stesso amore che al mio angelo custode. Adesso ho ripreso a lavorare con zelo e adempio puntualmente ai miei doveri di ufficio. Evstafij Ivànovič non ha detto nemmeno una parola, quando ieri gli sono passato davanti. Non vi nascondo, cara amica, che i debiti e lo stato pietoso del mio guardaroba mi uccidono; ma, ripeto, è niente, e anche per questo vi prego di non agitarvi. Mi mandate ancora un mezzo rublo: questo mezzo rublo mi ha trapassato il cuore. Ecco dunque a che siamo, ecco come stanno le cose. Non sono io, vecchio imbecille, che aiuto voi, ma voi, povera orfanella, che aiutate me! Ha fatto bene Fedora a trovare del denaro. Io per il momento non ho nessunissima speranza di procurarmene, e se mai, ve ne informerò subito e dettagliatamente. Ma le ciarle, le ciarle, mi fanno una paura maledetta. Addio, tesoro mio. Vi bacio le mani, e vi prego di guarire. Scrivo poco, perché corro in ufficio, volendo con la diligenza e l’assiduità cancellare tutte le mie mancanze passate. Rimando a stasera la continuazione degli altri fatti e dell’incidente con gli ufficiali. Con perfetta stima e cordialissimo affetto
Ah, Varvara, Varvara, stavolta il torto è dalla vostra parte, siete voi adesso ad avere un peccato sulla coscienza! La vostra letterina mi ha sbalordito, mi ha fatto addirittura perdere la testa, e solo oggi, guardando a mio agio nell’interno del mio cuore, mi sono accorto che avevo ragione, mille volte ragione. Non parlo della mia sbornia, che il diavolo se la pigli!, parlo del bene che vi voglio, che non è niente affatto irragionevole. Voi, mia cara, non sapete niente; ma se sapeste, non dico altro, come stanno le cose, se sapeste perché io debbo volervi bene, non parlereste così. Già: voi certe cose le dite con la testa, ma scommetto che avete tutt’altro nel cuore.
Io non so davvero, figliola mia, non mi ricordo quel che mi è successo con gli ufficiali. Bisogna prima di tutto tener conto che mi trovavo allora in un’agitazione mai provata prima. Figuratevi che da più di un mese mi reggevo, diciamo così, attaccato a un filo. Una miseria spaventosa. Con voi non fiatavo, e a casa nemmeno; ma la padrona faceva l’inferno. Per me, poco o nulla mi premeva. Si sgolasse pure la brutta strega... Ma lo scandalo, capite: e poi, Dio sa come, aveva saputo della nostra corrispondenza, e ne andava spettegolando per tutta la casa, tanto che io mi sentivo avvilito e mi turavo le orecchie. Gli altri però non se le turavano, anzi le aprivano più che mai. Anche adesso, figlia mia cara, non so in che buco nascondermi.
E fu proprio questo che colmò la misura; questo rovescio di malanni mi diede il colpo di grazia. A un tratto sento da Fedora certe notizie dell’altro mondo; sento che a casa vostra si era presentato un indegno aspirante e vi aveva offesa con una ancor più indegna proposta. Che vi avesse offesa, e profondamente offesa, lo giudico da me, perché l’offesa l’ho sentita anch’io. Allora, che volete?, sono uscito dai gangheri; persi la testa e mi rovinai completamente. Scappai come un invasato, volevo correre da lui, da quel farabutto; non sapevo che cosa volessi fare, perché io non tollero, no, che vi si torca un capello! Che pena era la mia! A farlo apposta, una giornataccia: pioggia, nevischio, un’ira di Dio! Mi voltai per tornare indietro... E qui fu che caddi in trappola. Incontrai Emèlja, un certo Emel’jàn19 Il’ič, un impiegato dei nostri, cioè ex impiegato, adesso non lo è più, perché lo hanno buttato fuori. Non so cosa faccia ora e come se la cavi. Fatto sta che ci siamo fatti compagnia, e via. Poi... ma che serve, Varvara, raccontarvi tutto per filo e per segno... Bel gusto per voi leggere le disgrazie del vostro amico e la storia delle sue tentazioni! Il terzo giorno che ci trovavamo la sera, questo Emèlja tante me ne disse che andai da lui, da quel tale ufficiale. L’indirizzo lo chiesi al nostro portinaio. Io, cara mia, visto che stiamo mettendo le carte in tavola, da un pezzo lo tenevo d’occhio quel giovanotto, fin da quando era nostro vicino. Adesso vedo, capisco di averla fatta grossa: non ero in me, quando annunciarono la mia visita. Io, parola d’onore, non mi ricordo di niente: solo che c’erano da lui un sacco di ufficiali, o forse, chissà, gli occhi miei vedevano doppio. Nemmeno ricordo quello che dissi, so però che, irritato com’ero, mi uscì di bocca un diluvio di parole. Ebbene, mi misero alla porta, mi diedero uno spintone, mi fecero ruzzolare per le scale, cioè avrebbero voluto farmi ruzzolare, ma lo spintone, quello lì l’ho sentito. Voi già sapete, Varvara, in che stato tornai... Ecco detta ogni cosa. È stato uno scorno, questo sì, ci ho scapitato di dignità, ma nessuno lo sa, nessun estraneo, meno voi beninteso, così è come se niente fosse successo. Non vi pare, Varvara? non è così? Da noi, l’anno passato Aksèntij Òsipovič ingiuriò allo stesso modo Pëtr Petrovič, ma in segreto, senza far chiasso. Se lo fece venire in portineria – io vidi tutta la scena da una fessura – e là aggiustò per bene i suoi conti, ma così, a quattr’occhi, correttamente, perché non c’erano testimoni eccetto me. E io niente, cioè, voglio dire, non fiatai con anima viva. Ebbene, dopo di questo, nulla di mutato fra loro. Pëtr Petrovič è un uomo tutto superbia, non ha raccontato niente a nessuno, così adesso si salutano e si stringono la mano. Io non nego, Vàren’ka, non oso negarvi, che sono caduto molto in basso, e quel ch’è peggio, sono scaduto io per primo nella stima di me stesso; ma vuol dire che così era scritto, vuol dire che è il destino, e dal destino non si scappa, voi lo sapete. Eccovi dunque la spiegazione minuta e fedele delle mie disgrazie, che a non leggerle sarebbe tanto di guadagnato. Non mi sento affatto bene, figliola mia, e ho perduto tutta la vivacità di prima. Intanto, attestandovi tutta la mia devozione, la stima e l’affetto, mi riconfermo
Vostro servo umilissimo
Gentilissimo signor Makàr,
le vostre due lettere mi hanno strappato un grido! Sentite, amico mio, o voi mi nascondete qualcosa, o mi avete informata solo in parte dei vostri travagli, o... in verità, signor Makàr, le vostre lettere fanno sospettare non so che disordini... Venite da me, per amor di Dio, venite oggi stesso; ma sapete, così, apertamente, venite addirittura a desinare. Che vita fate là? Come vi siete accordato con la padrona? Di tutto questo non mi dite una parola e mi pare che lo facciate apposta. Arrivederci dunque; venite oggi senza meno; già sarebbe meglio che tutti i giorni si pranzasse qui insieme. Fedora è una cuoca eccellente.
Vostra
Mia cara amica,
siete contenta che Dio vi abbia offerto il destro di rendere bene per bene e di sdebitarvi con me. Io vi credo, Varvara, credo alla bontà angelica del vostro cuore, ma, e non lo dico per farvi un rimprovero, non mi accusate, vi prego, come un’altra volta, di essermi dato a scialacquare nella vecchiaia. Ho sbagliato, ammettiamolo pure, ma che farci? Avrò peccato, se così volete per forza; ma a sentirmelo dire da voi, amica mia, non potete figurarvi quanto mi addolora. E voi non ve l’abbiate a male, se parlo così: se sapeste a che punto sono avvilito, disfatto! La povera gente è fatta così per natura; ha i suoi capricci. Questo io l’avevo già provato. Il povero, vedete, è meticoloso, suscettibile; vede le cose a modo suo, si guarda attorno pieno d’apprensione, sbircia chiunque gli passa vicino, cerca di cogliere ogni parola... Che laggiù non parlino proprio di lui? Certamente dicono: ma perché è così male in arnese? E che pensa? E che sente? Lo voltano di qua e di là; com’è fatto da questo lato, com’è fatto da quest’altro? E tutti sanno, Varvara, che un pover’uomo è peggio di uno strofinaccio e non può pretendere nessunissimo riguardo da chicchessia, nonostante quello che si sbracciano a stampare nei libri. Hanno un bel fare certi scribacchini: il pover’uomo di domani sarà sempre lo stesso pover’uomo di oggi! E perché?... perché, secondo loro, il povero diavolo dev’esser tutto rovesciato come un guanto: niente di suo, di sacro, di riservato, tutto in piazza, e Dio guardi a mettere avanti la sua dignità personale. Giorni fa Emèlja mi raccontava di una colletta fatta in suo favore non so più dove; ebbene, lo credereste? per ogni spicciolo, un interrogatorio. Dare quegli spiccioli per niente? signora no! li sborsavano invece perché si desse loro lo spettacolo del pover’uomo. Oggi, figliola mia, anche le beneficenze si fanno in un certo modo curioso; e può anche darsi che sia stato sempre così, chi lo sa! Una delle due: o non le sanno fare o le fanno con un secondo fine. Voi forse questo non lo sapevate; ebbene, eccovi servita. In qualunque altra materia noi non si può mettere bocca, ma in questa qui siamo maestri! E perché il pover’uomo sa e pensa tutto questo? Perché?... perché l’ha provato; perché sa, per esempio, che quel signore che se ne va a pranzo in trattoria, borbotta sotto il naso: «Vedi, veh, quel misero impiegatuccio, chissà che mangerà oggi? Io mi leccherò le dita con una bella soté-papiliot20 e lui forse ingollerà quattro cucchiaiate di kaša21 senza burro». E che importa a lui se io mangio la kaša senza burro? Ce n’è, Varvara, di questa gente, ce n’è... E tu te li vedi girare intorno, questi caricaturisti screanzati, e aprire tanto d’occhi per spiare se posi a terra tutta la pianta del piede o se cammini sulle punte; se a quel certo impiegato, di quel tal dicastero, sbucano le dita dal rotto della scarpa o ha le maniche logore, e poi subito, penna e carta, ti stampano ogni sorta di sudicerie... Ma che importa a te se io ho i gomiti sdruciti? E io, Varvara, se mi consentite un paragone un po’ sconveniente, io vi dirò che su queste faccende qui il pover’uomo ha lo stesso pudore, diciamo così, di una vergine. Voi certo non vi spogliereste nuda, con rispetto parlando, davanti alla gente; e precisamente così al pover’uomo non piace che si guardi nel suo canile, e se ne osservi la vita, la famiglia, e via discorrendo. Perché dunque farmi quest’offesa, Varvara, d’accordo con i miei nemici che attentano all’onore e alla dignità di un galantuomo?
Oggi, in ufficio, me ne stavo rannicchiato, mi facevo piccino come un passerotto spennato, che per poco non morivo dalla vergogna. Che vergogna, amica mia! Ed è naturale, quando le maniche mostrano il lucido dell’ordito e i bottoni oscillano attaccati appena a un filo. E io, come a farlo apposta, ero così malvestito che facevo pietà a me stesso. Chi è che non si sarebbe perduto di coraggio? E figuratevi: eccoti che Stepàn22 Kàrlovič viene a parlarmi di una pratica in corso. Parlava, parlava, e poi di botto, quasi senza volerlo: «Ehi, signor Makàr, ma voi...» e non ha finito di dire quel che aveva in mente, ma io l’ho indovinato e mi son fatto rosso fino alla calvizie. In sostanza, capisco, è un’inezia; ma in tutti i modi non è allegra e ti dà tanti brutti pensieri. Chissà che non abbiano subodorato qualche cosa? Dio liberi!... Ma se davvero fossero informati di tutto? Io sospetto molto, lo confesso, di un certo individuo... Non hanno nessun riguardo questi bricconi! Ti mettono in piazza in quattro e quattr’otto, te e tutti i fatti tuoi. Non c’è più nulla di sacro, oggi!
Adesso so chi mi ha giocato il tiro. Dev’essere stato Ratazjaev. Conosce qualcuno del mio ufficio, e così, parlando, gli avrà raccontato la storiella, aggiungendoci qualche ricamo: o forse anche avrà chiacchierato nell’ufficio suo e di là il pettegolezzo si sarà fatto strada fino a noi. Già in casa, dal primo all’ultimo, tutti ne sono al corrente e accennano col dito alla vostra finestra: questo lo so di sicuro. E quando ieri venni a pranzo da voi, tutti in finestra a metter fuori il naso, tutti a spenzolarsi, e la padrona disse che il diavolo aveva fatto le nozze con la zitellina, e a voi poi vi nominò con una parola indecente. Ma tutto questo è niente, perché, figuratevi, Ratazjaev ha la bassa intenzione di ficcare voi e me nella sua letteratura e descriverci tutti e due in una bella satira. L’ha detto proprio lui, e certa buona gente di qua me l’ha riferito. Io non so che pensare o che cosa decidere. Si vede che abbiamo fatto andare in collera il Signore. Volevate mandarmi un libro per farmi passare la noia. Eh via, al diavolo i libri! Che è poi un libro? Una sciocchezza, un fatto inventato con tanti fantocci che fanno la commedia. Anche il romanzo è una sciocchezza, buttata giù per la gente oziosa: credete a me, figlia mia, credete alla mia esperienza di tanti anni. E se vi vengono a dire che c’è un certo Shakespeare e che nella letteratura c’entra anche lui, ebbene anche Shakespeare è una sciocchezza, una sciocchezza bella e buona, scritta apposta per ridere alle spalle del prossimo.
Vostro
Amico mio, Makàr Alekséevič,
rassicuratevi; con l’aiuto di Dio, tutto si aggiusterà. Fedora ha trovato per sé e per me un sacco di commissioni, e già ci siamo messe al lavoro. Può darsi che riusciremo a riparare. Secondo lei, in tutte le mie ultime sventure c’è la mano di Anna Fëdorovna; ma adesso non mi importa più. Mi sento così allegra oggi. Volete prendere denaro in prestito: Dio liberi! Alla scadenza, vi trovereste da capo nell’impiccio. Meglio che ve la facciate con noi da buon vicino, che ci si veda più spesso, senza dare retta alla vostra padrona. Quanto agli altri che vi vogliono male, sono sicura che lavorate troppo di fantasia e vi angustiate a torto. Badate, vi ho avvertito l’ultima volta che il vostro stile è molto, molto ineguale: si capisce subito che avete la testa ad altro. Arrivederci presto: vi aspetto. Vostra
Varvara, mia cara, conforto mio!
Mi affretto a comunicarvi che mi par di avere qualche speranza. Mi scrivete di non far debiti, ma scusate eh, come volete che non cerchi denaro in prestito? Ma è impossibile, figliola mia, impossibile. Il mio stato, non serve parlarne; il vostro, non si sa mai quel che può capitare. Voi siete debolina. Dunque è indispensabile provvedere come dico io. E adesso, andiamo avanti.
Sappiate, Varvara, che il mio posto all’ufficio è a fianco di Emel’jàn Ivànovič. Non è, beninteso, quell’Emel’jàn di cui vi ho parlato. Questo qui è consigliere titolare, come me, e lui e io, in tutto quanto il dipartimento, siamo forse i più vecchi, quelli che contiamo più anni di servizio. Brav’uomo, disinteressato, ma di poche parole; pare un orso. Lavoratore però, bella calligrafia inglese, e per dir la verità, non scrive peggio di me... Una persona come si deve, insomma. Non avevamo mai fatto grande amicizia, ma così, per abitudine, buon giorno, buona sera, e se a volte mi serviva un temperino, «Scusate, Emel’jàn Ivànovič, mi favorite il vostro temperino?», in una parola, solite relazioni di vicinanza. Ed ecco, lui mi dice di punto in bianco: «Che è, signor Makàr, che vi vedo così rannuvolato?». Io mi sono accorto che parlava a fin di bene, e gli ho fatto la confidenza: le cose, signore caro, stanno in questi termini... Non gli ho detto tutto però, Dio liberi!, me ne mancherebbe il coraggio, ma così, un tocca e passa, un piccolo cenno: che non mi trovavo, diciamo così, sopra un letto di rose, che ero un po’ angustiato, e via discorrendo. «E perché, caro collega», dice lui, «perché non fate un debito?... Da Pëtr Petrovič, per esempio. Dà denari a interesse. Io pure una volta sono ricorso a lui. Un interesse discreto, piuttosto leggero.» Immaginate, Varvara, se mi si è allargato il cuore. Penso e ripenso: chissà che il Signore non lo illumini e non lo induca a concedermi un prestito. E lì per lì, faccio i miei conti: pago la padrona, mando a voi una sommetta; io stesso, poi, sono ridotto così malandato che non so come rivoltarmi in ufficio per non farmi vedere, senza dire che non mi sfuggono certi sogghigni, per poco che me ne importi. E poi anche Sua Eccellenza passa qualche volta per la nostra stanza; e non voglia Iddio che getti un’occhiata dalla mia parte e si accorga dei miei cenci! Per Sua Eccellenza la prima cosa è la nettezza, la decenza. Capisco, forse non direbbe niente, ma io mi sentirei morire... Sicché, fattomi animo e messa in tasca la vergogna, mi sono avviato da Pëtr Petrovič, pieno di speranza e di paura, più morto che vivo. Ebbene, devo dirvelo, Vàren’ka? tutto si è risolto in fumo! L’ho trovato che discorreva con Fedoséj Ivànovič. Mi sono accostato di fianco, l’ho tirato per una manica: «Ehi, Pëtr Petrovič, dico a voi, Pëtr Petrovič!». Si volta – l’altro se ne era andato – e io tutto d’un fiato: «Ecco qua, Pëtr Petrovič, così e così, una trentina di rubli, ecc. ecc.». Sulle prime m’è parso che non capisse; poi, quando mi sono spiegato meglio ha fatto una risatina, e zitto. Torno a ribattere il chiodo, e lui mi domanda: «Avete il pegno?» e rificca il naso nei suoi fogliacci, e scrive, scrive, e non alza gli occhi. Io, un po’ interdetto, «No», dico, «il pegno non ce l’ho». E gli spiego che, appena riscosso lo stipendio, riavrà subito il fatto suo, senza meno, e che per me il debito è sacro. Qui qualcuno lo ha chiamato. Torna, io non m’ero mosso, e si mette a temperare la penna: di me neppure si accorge, come se non esistessi. E io da capo, «Eh, Pëtr Petrovič? non si potrebbe in qualche modo?...» Lui seguita a fare il sordo, io insisto, mi sfiato, e poi penso, «Tentiamo l’ultima volta», e lo tiro per la manica. Niente: non si scuote; muto come un pesce. Finisce di temperare la penna e torna a scrivere. E io l’ho lasciato perdere. Vedete, figliola mia, tutti brava gente, non dico di no; ma si danno le loro arie, ti guardano dall’alto in basso. Vi pare che possano badare a noialtri? Ed è perciò che vi ho scritto come è andata. Emel’jàn Ivànovič s’è messo a ridere anche lui, e ha scosso la testa; ma ha cercato, pover’uomo, di farmi animo. Mi ha promesso di raccomandarmi a un altro; un tale che sta di casa alla Vyborgskaja e presta pure a interesse. Credo che sia cancelliere di collegio. Emel’jàn mi dà quasi per certo che non si negherà. Ci andrò domani. Eh? che ne dite? Sarebbe una vera disdetta se non riuscissi. La padrona poco ci manca che non mi cacci di casa, e non vuol darmi più da pranzo. E se vedeste che scarpe porto ai piedi, e i bottoni mancanti, e cento altre cose... Povero me, se qualcuno dei superiori se ne accorgesse... Sono guai, Vàren’ka, sono guai!
Amico mio,
per amor di Dio, trovate al più presto possibile un po’ di denaro; per nulla al mondo ricorrerei a voi nelle vostre angustie presenti, ma se sapeste che posizione è la mia! In questa casa qui è impossibile rimanere. Ho sofferto quanto mai si può soffrire, e non vi so dire come sono agitata. Figuratevi, amico mio: stamani ci si presenta uno sconosciuto, anziano, quasi vecchio, decorato. Io mi sono confusa, non riuscendo a capire che cosa potesse volere da noi. Fedora era fuori per faccende. Lo sconosciuto ha incominciato con l’informarsi sulla vita che conduco, a chiedere che cosa faccio... e senza aspettare risposta, mi ha dichiarato di essere zio di quel tale ufficiale; che era arrabbiatissimo contro il nipote per la sua cattiva azione e per averci rese la favola di tutta la casa; ha detto che il nipote era un ragazzaccio senza cervello, e che lui, lo zio, era disposto a prendermi sotto la sua protezione; mi ha ammonita di non dare retta ai giovani, e ha soggiunto di interessarsi a me come un padre, di nutrire per me sentimenti paterni, e che in qualunque modo era pronto ad aiutarmi. Io mi son fatta di fuoco, non sapevo che pensare, ma non l’ho ringraziato. Allora mi ha preso per la mano, mi ha accarezzato la guancia, ha detto che ero carina, e che gli piacevano tanto le fossette che ho sul mento (Dio sa quante ne ha dette!) e, alla fine, ha fatto per darmi un bacio, dicendo che era vecchio... (Che schifo!) A questo punto è tornata Fedora. Lui si è un po’ sconcertato, ha rinnovato le sue proteste di stima per il mio contegno modesto e ha espresso il desiderio che non lo trattassi da estraneo. Poi ha chiamato in disparte Fedora e sotto non so quale strano pretesto le voleva dare del denaro. Naturalmente Fedora non l’ha preso. Avviandosi per uscire, ha ripetuto le sue assicurazioni, ha detto che sarebbe tornato e mi avrebbe portato un paio di orecchini (pareva lui stesso molto turbato); mi ha suggerito di cambiare casa e mi ha raccomandato un appartamento bellissimo, che teneva d’occhio da non so quanto e che non mi sarebbe costato nulla; ha assicurato pure di volermi un gran bene per avermi conosciuta giovane, onesta e bene educata, mi ha di nuovo avvertita di stare in guardia contro i giovinastri scapestrati, e ha conchiuso dichiarandosi amico di Anna Fëdorovna, la quale mi faceva sapere che a giorni sarebbe venuta a vedermi. Allora ho capito tutto. Non posso dire quel che m’ha preso; era la prima volta in vita che mi succedeva una cosa simile. Ho perso il dominio di me stessa: gliene ho cantate di tutti i colori. Fedora mi ha dato man forte e quasi lo ha spinto fuori dalla porta. Ci siamo convinte che sono tutti maneggi di Anna Fëdorovna; e da chi altri se non da lei avrebbe potuto sapere di noi?
Adesso, signor Makàr, mi rivolgo a voi, e vi scongiuro di aiutarmi. Non mi lasciate, per amor del cielo, in un momento come questo. A qualunque costo, fate in modo di trovare una sommetta, tanto che si possa lasciare la casa. Qui non si può più stare: così dice anche Fedora. Ci vogliono almeno venticinque rubli; ve li renderò, non dubitate, li guadagnerò; Fedora fra giorni mi procurerà dell’altro lavoro; sicché non vi spaventate dell’interesse: per scandaloso che sia, consentite a tutto. Vi renderò fino all’ultimo spicciolo, ma per carità non mi abbandonate. Mi rincresce tanto di disturbarvi proprio adesso, ma in voi solo è tutta la speranza mia. Addio, signor Makàr, pensate a me, e che Dio vi faccia riuscire!
Cara Varvara mia,
tutti questi colpi inaspettati mi annientano! Questi terribili guai mi uccidono! Non basta che una frotta di fannulloni e di sozzi vecchiacci vi stia addosso per ridurvi sopra un letto di morte, anche me vogliono rovinare questi svergognati. E mi rovineranno, ci gioco la testa che mi rovineranno! Adesso, vedete, darei pure il sangue per aiutarvi. Se non vi aiuto, Vàren’ka mia, è la mia morte, la morte vera e propria; ma se poi vi aiuto, povero me, mi scappate via come un uccellino dal nido che quei brutti gufi, quegli uccellacci da rapina si preparano a farne un boccone. Ecco quel che mi rode, figliola mia. E voi pure siete crudele. Ma come vi salta in testa? Vi tormentano, vi insultano, vi fanno soffrire, e voi vi affliggete per giunta di dover disturbare me; e promettete di rendermi il denaro col vostro lavoro, cioè, in altri termini, di uccidervi, con la poca salute che ci avete, per farmi essere puntuale alla scadenza. Ma pensateci un po’, Varvara, a quel che vi esce di bocca! Ma perché cucire, perché lavorare, perché smidollarsi, e sciuparsi gli occhi, e pigliarsi una malattia? Ah, Varvara, Varvara! Vedete, bambina mia cara, io non sono buono a nulla, lo so da me, ma vi farò vedere io se riuscirò a combinare qualcosa di positivo! Farò il diavolo a quattro, troverò altro lavoro, copierò fogli su fogli per gli scrittori, andrò da loro, andrò di persona, pregherò, insisterò che mi diano da copiare, perché gli scrittori, bambina mia, vanno in cerca di buoni copisti, io lo so, e non permetterò che vi rompiate la schiena. Non dubitate; avrò il denaro a prestito, piuttosto morire che non averlo. Mi scrivete di non spaventarmi dell’interesse: no, non mi spavento io, adesso non mi spavento più di niente. Chiederò quaranta rubli di carta: non è gran cosa, vi pare? Si può così, sulla parola, farmi buono per quaranta rubli? Cioè, voglio dire, mi credete voi capace di ispirare, di primo acchito, una certa fiducia? A prima vista mi si può pigliare per un galantuomo?... Ricordatevi bene: ho una faccia, una presenza da far buona impressione? Qual è, sentiamo, la vostra idea? Sapete, si prova una paura maledetta, si ha la febbre addosso, addirittura la febbre! Sui quaranta rubli, venticinque ne metto da parte per voi; due rubli d’argento alla padrona di casa, e il resto lo spendo per uso mio personale. Alla padrona, in verità, andrebbe dato di più, sarebbe anzi indispensabile dare di più; ma voi, figlia mia, considerate bene la cosa, passate in rassegna tutti i miei bisogni, e vedrete allora che non si può assolutamente darle di più, sicché non serve parlarne, non ci pensiamo. Con un rublo d’argento mi compro le scarpe: non so nemmeno se con queste vecchie che ho sarò in grado domani di presentarmi in ufficio. Ci vorrebbe anche un fazzoletto da collo, perché tra poco questo che porto conterà un anno di servizio; ma siccome mi avete promesso di tagliarmi non solo un fazzoletto da collo ma anche un petto di camicia dal vostro vecchio grembiule, scartiamo il fazzoletto. Abbiamo dunque fazzoletto e scarpe. Adesso vengono i bottoni. Voi certo converrete che i bottoni mi ci vogliono... L’orlo della mia uniforme è sfilacciato che pare una frangia. Io tremo al solo pensiero che Sua Eccellenza possa notare un tale disordine, e dire... ma che dire e dire! Io non sentirò nemmeno mezza parola, perché morirò, morirò sul posto, morirò di vergogna, mi piglierà un accidente alla sola idea! Ah, figlia, figlia mia!... Così, in fin dei conti, provveduto al necessario, avanzano tre rubli, e questi serviranno per campare alla meno peggio e per una mezza libra di tabacco, perché io, figliola mia, non posso vivere senza tabacco, e son già nove giorni che non accosto la bocca al cannello della pipa. A dir la verità, l’avrei comprato lo stesso, senza farvelo sapere, ma mi è parso brutto verso di voi. Vi so nei guai, voi vi private di tutto e io qui me la godo e faccio il signore: ecco perché vi ho detto la cosa tale e quale, per star tranquillo di coscienza. Vi confesso francamente, Varvara, che per il momento sono più tribolato che mai, una miseria da far paura: una cosa simile non l’avevo mai provata. La padrona mi disprezza, nessun riguardo da nessuno, cento cose mi mancano, debiti su debiti, e all’ufficio, dove anche prima d’ora non era per me una festa, figuratevi adesso! Mi nascondo, non fiato, cerco di sparire, ed entro quasi di soppiatto, di sbieco, e me ne sto raggomitolato nel mio cantuccio, che nessuno mi veda. A voi sola ho il coraggio di dire le cose come stanno, a voi sola... E se mi negheranno il prestito? No, Varvara, è meglio non pensarci, sennò ci si ammazza prima del tempo. Vi scrivo questo, per avvertirvi che nemmeno voi ci pensiate, che non vi struggiate con queste apprensioni. Ah Dio mio! Che ne sarebbe di voi, povera creatura!... è anche vero però che allora non andreste via, e io resterei vicino a voi, ma no, no, perché allora non potrei tornar qui, andrei a marcire e a finirla chissà dove. Vi ho scritto una filastrocca senza capo né coda; e dire che ho da farmi la barba. La decenza prima di tutto; e poi una faccia ben rasata è come una lettera di raccomandazione. Dio voglia che io riesca! Dirò una preghiera, e subito per la strada.
Carissimo signor Makàr,
per carità, non vi lasciate abbattere: ce n’è già d’avanzo di guai. Vi mando trenta copechi d’argento: impossibile mandarvi di più. Compratevi le cose più urgenti, tanto da tirare avanti per un’altra giornata. Noi pure siamo quasi rimaste all’asciutto, e non so quel che sarà domani. Che tristezza, signor Makàr! Non vi affliggete però. Non c’è rimedio? Pazienza! Vuol dire che si è fatto un buco nell’acqua. Fedora dice che non è poi gran danno, che si può rimanere qui ancora un po’: anche se traslocassimo, non faticherebbero molto a scovarci. Vero è che dopo quanto è accaduto non è piacevole vedersi in questa casa... Se non fossi così giù di spirito vi avrei scritto tante altre cose più allegre.
Ma che strano carattere è il vostro, signor Makàr! Voi prendete tutto troppo a cuore, per questo non sarete mai felice. Io leggo attentamente tutte le vostre lettere, e trovo sempre che vi prendete molta cura, vi date tanta pena per me, come non avete mai fatto per voi stesso. Tutti certo diranno che avete un cuor d’oro, ma io vi dico che il troppo stroppia. Date retta alla vostra amica, signor Makàr: io vi sono grata, molto grata di quanto avete fatto e fate per me, sono più che sensibile a tanta bontà; dunque pensate un po’ quel che devo provare, vedendo che voi anche adesso, dopo tutte le privazioni delle quali sono stata io la causa involontaria, anche adesso voi vivete della mia vita, delle mie gioie, dei miei dolori, del mio cuore! Se ci si dà tanta pena per gli interessi altrui, se ci si dà tanto da fare per il nostro prossimo, ci si fabbrica con le nostre mani un’infelicità vera e propria. Oggi, quando siete venuto da me dopo l’ufficio, mi sono spaventata a vedervi. Eravate così pallido, smarrito, disperato, disfatto; e tutto questo perché? perché non avreste voluto raccontarmi del tentativo andato a male, perché avevate paura di amareggiarmi; ma poi, accortovi che me la pigliavo quasi allegramente, siete come risorto. Via, non vi affliggete, fatevi animo, abbiate giudizio, ve ne prego, ve ne scongiuro! Vedrete che tutto si aggiusterà, tutto andrà per il meglio; sennò, caro amico, a voler sempre angustiarsi per i dolori altrui, la vita diventa un peso intollerabile. Addio. Vi prego ancora una volta, non vi date pena per me.
Vàren’ka mia cara,
sta bene, figlia mia, sta bene! Non è un gran guaio, dite voi, che io non abbia trovato il denaro. Sta bene, sono tranquillo, sono felice per voi. Sono anzi contento che non lasciate questo povero vecchio e che rimaniate nella vostra casa. E se devo dirvi tutto, sappiate che mi son sentito traboccare il cuore quando ho visto che nella vostra letterina scrivevate tante belle cose di me e lodavate i miei sentimenti. Non dico questo per orgoglio, ma perché vedo quanta affezione avete per me, mostrandovi così premurosa della tranquillità del mio cuore. Sta bene, sì, non se ne parli più: mettiamo il mio cuore da parte. Il cuore è un conto, e questo è un altro, quando voi mi avvertite di non perdermi di coraggio. Sì, figlia mia, ne convengo, il coraggio non è mai troppo; ma con tutto questo, pensate voi stessa con che sorta di scarpe mi toccherà presentarmi in ufficio domani! Ecco dove sta il busillis, bambina cara; e voi capite che una preoccupazione come questa è più che sufficiente a distruggere un uomo. E badate, non è per me che sto in pena, non è per me che soffro; per me fa lo stesso; anche se dovessi uscire senza cappotto e senza scarpe con un freddo da tagliare la faccia, io lo affronto, lo sopporto, non mi fa niente. Io sono un uomo alla buona, un uomo insignificante: ma che dirà la gente? Che diranno i nemici, le male lingue, vedendoti così alla leggera, che non hai nemmeno uno straccio di cappotto? È per gli altri che tu porti un cappotto, è per gli altri che non puoi fare a meno delle scarpe. Le scarpe, figliola mia, in questo caso, mi occorrono per salvare la dignità e il buon nome: con le scarpe rotte, addio l’una e l’altro. Credete alla mia esperienza, alla mia pratica di anni e anni, date retta a me che conosco il mondo e gli uomini, e non già a quattro imbrattacarte che non sanno quel che dicono.
Ma io non vi ho ancora raccontato con precisione la storia di oggi. Ho sopportato passione e morte, ho patito in una sola mattinata più di quanto chiunque altro in un anno. Ecco com’è andata: prima di tutto, mi son messo in cammino presto presto per trovare lui in casa e fare in tempo per l’ufficio. Che pioggia stamani, che nevischio! Mi avvolgo ben bene nel soprabito, cammino, cammino, e penso strada facendo: «Dio mio, rimettimi i miei peccati ed esaudisci i miei voti!». Passo davanti a una chiesa, mi faccio la croce, recito l’atto di contrizione, ma poi mi ricordo che non è lecito venire a patti con il Signore. Mi chiudo allora in me stesso, non guardo in faccia nessuno, non vedo dove metto i piedi, vado avanti. Le vie erano deserte, e quei pochi che si incontravano tutti affaccendati, preoccupati. Si capisce: quell’ora e quel tempaccio non erano fatti per una passeggiata. Una frotta di operai sudici e inzaccherati mi passa vicino e mi dà un urtone. Mi sentivo avvilito, oppresso, neppure al denaro riuscivo più a pensare, sarà quel che sarà! Arrivato al ponte Voskresenskij, mi si stacca la suola di una scarpa, sicché non so io stesso con che e come seguito a camminare. E proprio qui mi vedo di faccia il nostro usciere Ermolaev. Si ferma, si mette sull’attenti, mi segue con gli occhi, pare che stia lì lì per domandarmi una mancia: eh, eh! penso io, stai fresco, amico, altro che mancia! Non ne potevo più, mi fermo, riprendo fiato, e avanti sempre. Cercavo in tutti i modi di attaccarmi col pensiero a qualcosa, di distrarmi, di farmi animo, ma niente; avevo la testa vuota, nemmeno mezzo pensiero a pagarlo un occhio, e per giunta ero infangato che facevo pietà a me stesso. Alla fine, vedo di lontano una casa gialla di legno, con un mezzanino a belvedere; eccola, dico, proprio come me l’ha descritta Emel’jàn Ivànovič, ecco la casa di Màrkov (così si chiama quell’uomo che presta a interesse). Senza volerlo, quantunque fossi sicuro che la casa era quella, domando a una guardia: «Dite un po’, brav’uomo, di chi è quella casa?». La guardia mi sbircia di traverso, pare che ce l’abbia con qualcuno, e risponde burbero e di mala voglia, masticando le parole, che signorsì, quella è la casa di Màrkov. Tutte così queste guardie, gente senza sentimento, tagliata con l’accetta. Ma che poteva importarmi della guardia? L’impressione però, capite, tutto sta nell’impressione, e l’impressione è stata brutta, spiacevole: è sempre la stessa musica, in ogni cosa trovi sempre una certa somiglianza con quel che hai in corpo: non so se mi spiego. Passo e ripasso tre volte davanti alla casa, e a ogni voltata mi martella in capo: «Non mi darà niente, niente, niente! Non mi conosce, si tratta di un affare poco sicuro, la mia figura non si raccomanda granché... Ebbene sarà come vuole la sorte, tutto sta a non pentirsi dopo; non vorrà certo mangiarmi», e così pian pianino spingo il cancello. E qui un altro malanno: mi si attacca ai panni uno stupido cagnaccio, e salta e abbaia come una intera muta. Sono queste miserie, questi incidenti da nulla che ti smontano, ti mettono addosso la tremarella, e distruggono tutta la risolutezza di cui ti eri armato... Così entro in casa più morto che vivo; entro, ed ecco, me ne capita un’altra: non distinguo bene, nella penombra, quel che c’è sulla porta, urto una donna e la donna stava versando il latte da un secchio in una mezzina... Figuratevi! Tutto il latte per terra. Grida, strilli che arrivano al cielo. «Diavolo che ti pigli! dove ti ficchi? che vai cercando?» e qui lamenti, bestemmie, il finimondo. Noto il fatto, perché mi succede immancabilmente lo stesso negli affari di questo genere: inciampo sempre in qualche cosa: vuol dire che così è scritto. Allo strepito, vien fuori una vecchia strega; doveva essere la padrona; subito le domando: «Sta qui di casa Màrkov?»; «No», risponde subito. Sta ferma, mi squadra da capo a piedi. «E che avete da fare con lui?» Io le spiego alla meglio, così e così, Emel’jàn Ivànovič, e tutto il resto, un piccolo affare, dico. La vecchia chiama la figlia gridando non so che nome. Arriva la figlia, una ragazzotta già grande, scalza e scapigliata. «Fa’ venire il babbo; sta dagli inquilini di sopra... Favorite.» Entro. Una camera come tutte le altre, quadri alle pareti, ritratti di non so che generali, un canapé, un tavolino tondo, vasetti di reseda, gelsomini... Che faccio? Non è meglio fare marcia indietro? vado via o resto?... Il fatto è che volevo scappare per davvero. Meglio tornare domani, penso, il tempo sarà più cristiano, ancora un po’ di pazienza e poi mi sarò preparato meglio. Oggi invece ho fatto versare il latte, e quei benedetti generali mi fanno certi occhiacci... Stavo già sulla porta, quando eccoti lui in persona... Un tipo così così, né brutto né bello, capelli grigi, occhi volpini, una veste da camera tutta macchie di unto, allacciata con una funicella. Si informa del più e del meno, e io da capo con la mia tiritera... Emel’jàn Ivànovič, quaranta rubli, si tratta di... E non finisco di dire. Gli leggo negli occhi che la partita è persa. «No», dice, «non ho denaro... Ma forse voi avete qualche pegno, eh?» Io gli faccio capire che pegni non ce ne ho, ma che Emel’jàn Ivànovič... insomma, gli spiego più chiaro in che termini sta la faccenda. Mi guarda fisso e mi lascia parlare. «No», ripete, «no; che c’entra Emel’jàn! Non ho denaro, ecco tutto.» Ebbene, penso io, sempre, sempre così! Lo sapevo prima, ne avevo il presentimento: vi assicuro, Varvara, avrei preferito che la terra mi si aprisse sotto i piedi; le gambe mi si piegavano, mi pigliava un gran freddo, mi sentivo un formicolio nella schiena. Io guardo lui, lui me, e pare proprio che mi dica: vattene, amico, qui non hai che fare... In qualunque altro caso, avrei subito voltato le spalle. «Ma insomma», dice, «perché vi servono questi soldi?» Vedete un po’ che razza di domanda! Io stavo lì lì per aprire bocca, tanto per non perdere tempo, ma lui senza darmi più retta: «No», dice, «non ho denaro; sennò col massimo piacere...». Io torno alla carica, gli faccio capire di che si tratta, una bazzecola, e poi beninteso sarò puntuale, non guardo all’interesse, fissatelo voi, la restituzione è sicura. In quel momento, figlia mia, mi stavate voi davanti agli occhi, mi son ricordato di tutti i vostri guai, del vostro mezzo rublo. «Ma no», risponde, «che serve parlar di interessi? Se ci fosse un pegno... Ve l’ho già detto, denaro non ne ho, parola d’onore che non ne ho...» Anche la parola d’onore, il brigante!
E qui non mi ricordo più di niente. Non mi ricordo come uscii, come infilai la Vyborgskaja, come traversai il ponte Voskresenskij sfinito, assiderato, battendo i denti, e prima delle dieci non mi riuscì di arrivare all’ufficio. Volevo pulirmi dal fango i calzoni, ma Snegirëv, il custode, signornò, mi ha detto sul muso, si sciupa la spazzola, e la spazzola, caro voi, è roba del governo. Ecco a che siamo, figliola mia, mi trattano peggio dello straccio dove si strofinano i piedi... Ma sapete, Vàren’ka, quel che mi uccide? Non il denaro, no, ma tutte queste punzecchiature di ogni giorno, e i sussurri, e gli sghignazzi, e i motteggi. Chissà che, senza badarci, davanti a Sua Eccellenza, non si lascino sfuggire qualcosa sul mio conto... Ah, figliola mia, son passati i bei tempi, è passata l’età dell’oro! Oggi ho riletto tutte le vostre lettere. Che tristezza! Arrivederci, che Dio vi protegga!
P.S. Volevo raccontarvi questa brutta storia come una barzelletta, tanto per farvi ridere, ma le barzellette, si vede, non sono fatte per me. Passerò domani da voi, verrò senza meno.
Varvara mia, Varvara cara! Sono rovinato, siamo tutti e due rovinati, voi e io, rovinati senza misericordia, senza scampo! Addio dignità, addio reputazione! Sono perduto, e voi pure siete perduta insieme a me, siamo perduti definitivamente! Sono stato io, io che vi ho portato al precipizio! Mi perseguitano, figliola mia, mi disprezzano, mi scherniscono, e la padrona di casa mi mette addirittura sotto i piedi. Come mi ha strapazzato stamani, che grida, che parolacce! Stasera poi, da Ratazjaev, uno di loro ha preso a leggere ad alta voce la brutta copia di una lettera che vi avevo scritto e che m’era scappata di tasca. Figuratevi il baccano, le risa, le beffe!... Gentaccia senza coscienza! Io sono entrato e li ho colti sul fatto, e ho detto chiaro e tondo a Ratazjaev ch’era un traditore. E lui, botta e risposta: «Traditore voi, che vi siete dato alle conchètt23. Voi», dice, «lavorate sott’acqua; voi», dice, «siete un Lovelace24». E adesso tutti mi danno del Lovelace, e non mi chiamano altrimenti. Avete capito, bambina mia, avete capito sì o no? Sanno tutto adesso, sono informati di tutto: di voi, di me, di ogni cosa, di quel che è e di quel che non è. Ma che dico? Anche Faldoni, anche lui, è della combriccola. Gli ho detto stamani di andare dal pizzicagnolo per comprarmi qualcosa; non si è mosso, aveva altro da fare. «Ma tu stai qui per servire!», gli faccio io. «Per servire? io? a voi?... Voi non pagate la mia padrona, e io non sono obbligato a servirvi.» Ho perso le staffe, gli ho dato della bestia, e lui: «Bestia è chi mi chiama bestia». Sarà ubriaco, ho pensato, e gliel’ho detto tale e quale: «Tu sei ubriaco, contadinaccio!». E lui: «Mi avete pagato voi da bere? Allora non c’è pericolo di pigliare una sbornia. Voi pitoccate due spiccioli per carità a una donna... E fate pure il signore, fate!». Ecco, figlia mia, ecco a che punto siamo. Non si può più vivere, no. Peggio di uno scomunicato, peggio di un vagabondo, non ne posso più... Una rovina senza speranza di salvezza!
Carissimo signor Makàr,
le disgrazie non vengono mai sole. Non so più dove dar di capo! Che farete adesso? Su di me non c’è da contare; oggi mi sono scottata col ferro da stiro: scottata e contusa: m’è caduto sulla mano sinistra. Impossibile lavorare, e Fedora sono già tre giorni che è ammalata. Sono in un’agitazione terribile, vi mando trenta copechi d’argento; è quasi tutto quel che ci avanza, e sa Dio come vorrei aiutarvi nei vostri bisogni. Mi viene da piangere dalla stizza. Addio, amico mio. Mi sentirei così sollevata, se veniste un momento da noi.
Ma che succede dunque, signor Makàr? che vi piglia? che coscienza è la vostra? Mi farete diventar pazza. Com’è che non vi vergognate? Non vi accorgete di correre alla rovina? Pensate almeno al vostro buon nome. Un galantuomo, una persona come si deve, uno che ha un briciolo di dignità, divenire così la favola della gente! Ma c’è da morire dalla vergogna! E non avete pietà dei vostri capelli grigi? Aprite gli occhi, tornate in voi, per amor di Dio! Fedora dice che non vi aiuterà più, e nemmeno io vi darò più uno spicciolo. Ah, signor Makàr, a che mi avete ridotta! Voi certo pensate che a me non viene alcun danno dalla vostra cattiva condotta; non sapete quel che soffro per causa vostra. Solo a scendere le scale, tutti si voltano, mi mostrano a dito, dicono tante brutte cose, mi chiamano l’amica del beone. Che bel gusto, eh? Quando vi riportano a casa, tutti gli inquilini vi guardano con disprezzo: «Eccolo lì», dicono, «hanno riportato quell’impiegato». Figuratevi che pena per me. Vi giuro che me ne andrò di qua. Mi metterò a servizio, farò la lavandaia, ma qui non ci resto. Vi ho scritto di venire, e voi niente. Vuol dire che non vi importa niente delle mie preghiere e delle mie lacrime, signor Makàr! E dov’è che avete scovato i denari? Per amor del cielo, state attento. Vi uccidete, vi uccidete senza un perché. E poi l’obbrobrio, lo scandalo! Ieri sera la padrona non ha voluto aprirvi; avete dormito nel cortile: io so tutto. Che impressione, che colpo, quando mi hanno riferito la cosa! Venite da me; passeremo un’oretta piacevole; leggeremo, discorreremo del passato, Fedora ci racconterà dei suoi pellegrinaggi. Fatelo per amor mio, non rovinate voi e me a un tempo. Lo sapete che io vivo solo per voi, ed è per voi che resto qui. E voi invece!... Via, mettete giudizio, siate sereno e forte nella disgrazia, ricordatevi che la miseria non è colpa. E poi perché disperare? Sono cose che passano. Se Dio vuole, tutto si aggiusterà, ma voi intanto badate a contenervi. Vi mando venti copechi, compratevi un po’ di tabacco o quel che più vi piace, ma per quanto amate Dio, non li spendete male. Venite, vi aspetto senza meno. Forse, come l’altra volta, vi vergognate... Ma no, sarebbe una falsa vergogna la vostra. Dovreste sinceramente pentirvi, questo sì. Abbiate fiducia in Dio. Dio vi aiuterà, non dubitate.
Varvara, figliola mia cara,
sì, muoio dalla vergogna, sì, non so dove nascondere la faccia. Ma in sostanza che c’è di straordinario in tutto questo? Perché non procurarsi un po’ di allegria? L’allegria, vedete, non mi fa pensare alle suole delle mie scarpe, perché una suola non significa niente, una suola è una suola, e resterà sempre una cosa sporca e vile come tutte le suole. Anche le scarpe non significano niente. I filosofi della Grecia non portavano scarpe, e perché dunque i miei simili dovrebbero fare i meticolosi in questa materia qui? E perché trattarmi male, perché disprezzarmi? Eh via, Varvara, smettete! E a Fedora ditele che è una sciocca, una donnicciola, una mettimale, un’attaccabrighe, e per giunta una bestia che non ce n’è di simili! In quanto ai miei capelli grigi, anche in questo vi sbagliate, cara mia, perché io non sono niente affatto così vecchio come vi figurate. Emèlja vi saluta. Mi scrivete che siete afflitta e avete pianto; vi scrivo che io pure ho fatto lo stesso. In conclusione, vi auguro sanità e contentezza, come io pure sto bene e sono allegro e mi ripeto il vostro inalterabile amico
Gentilissima signorina e mia buona amica,
so di avere il torto, so di essermi comportato male; ma avete un bel dire voi: secondo me, a capire tutto questo non ci si guadagna nulla. Anche prima lo capivo ma il fatto è che ho ceduto allo scoraggiamento, sapendo perfettamente di far male. Non sono cattivo io, non sono feroce; e per lacerare il vostro cuore, figliola mia, bisogna essere né più né meno che una tigre sanguinaria; io invece mi ritrovo un cuore di pecora e non ho, come sapete, nessuna inclinazione al sangue; per conseguenza non mi pare di essere in colpa, visto che l’intenzione colpevole non c’era, visto che né il cuore è stato colpevole, né i pensieri: la cosa è venuta così, per conto suo, e allora la colpa, mi pare, non è di nessuno. È una faccenda talmente imbrogliata che non ci si raccapezza. Mi avete mandato trenta copechi d’argento, e poi altri venti; mi son sentito venir meno guardando quei soldini di una povera orfanella come voi. Poi vi siete scottata la mano; tra poco patirete la fame, e mi dite di comprarmi del tabacco. Che fare, ditelo voi stessa, come regolarmi in un caso simile? Dovevo dunque, senz’ombra di coscienza, da vero brigante, ridurvi sul lastrico? Naturalmente, mi venne meno il coraggio, cioè mi accorsi d’un tratto e senza pensarci sopra di non essere buono a nulla, di valer meno delle mie suole, e allora mi stimai uno zero, mi considerai un essere abietto, addirittura, dirò così, indecente. Sicché, negate le mie buone qualità e la mia dignità personale, addio superbia, addio stima, al diavolo ogni cosa e facciamola finita! La caduta era inevitabile. Così era scritto, e io non ho colpa, non ci ho messo nulla di mio. Andai fuori per pigliare una boccata d’aria. Tutto, si vede, congiurava a mio danno: il freddo, la pioggia, la malinconia, e finalmente mi venne fra i piedi Emèlja. Lui ha già impegnato tutto quel che possedeva, fino all’ultimo spillo, e quando lo incontrai, erano già due giorni che stava a bocca asciutta e stava andando a impegnare un oggetto che in nessun modo è possibile impegnare, perché su certi pegni non vi danno niente. Ebbene, Varvara, io mi feci vincere più da un senso di umanità che da una mia propria inclinazione. E così fu che peccammo tutti e due, senza volerlo e senza saperlo. E come piangemmo insieme! E quante volte vi nominammo! È un brav’uomo Emèlja, un bravissimo uomo, molto sensibile. Io pure sono sensibile, e per questo mi succedono certe cose, perché ho una sensibilità che non se ne trova il paio. Io lo so, figlia mia, quanto vi devo. Conoscendo voi, ho imparato prima di tutto a conoscere meglio me stesso, e così ho preso a volervi bene; prima di allora, ero come addormentato, solo come un cane, non vivevo nel mondo. Mi dicevano i maligni che non ero presentabile, mi schifavano, e naturalmente io ero venuto a schifo di me stesso; mi dicevano ottuso, e io credetti di essere ottuso; ma, apparsa voi sulla scena, ecco subito farsi giorno nella mia vita scura, sicché il cuore e l’anima mi si illuminarono e io mi sentii tranquillo, riposato, e seppi per la prima volta che non ero peggiore degli altri: non brillo, lo so, non ho smalto, non ho tono, ma ad ogni modo sono un uomo. E ora, visto che la disdetta mi perseguita, e che io, bersagliato dalla sorte, sono arrivato a mettermi sotto i piedi ogni dignità personale, io, come vi ho detto e spiegato, non ho più la forza di resistere. E siccome adesso sapete tutto, così vi prego con le lacrime agli occhi di non farmi più domande su questo punto, perché il cuore mi scoppia e mi sento la più disgraziata creatura di questo mondo.
Riconfermandovi la mia stima, mi ripeto
Vostro fedelissimo amico
Non ho terminato l’ultima lettera, signor Makàr, perché mi era penoso scrivere. Vengono momenti in cui mi piace esser sola, soffrire da sola, lamentarmi da sola, senza farne partecipe alcuno, e questi momenti si ripetono ora con più frequenza di prima. Nei miei ricordi c’è qualcosa di così inesplicabile per me, che mi attrae mio malgrado, e con tanta forza, che per ore e ore di fila resto insensibile a quanto mi circonda e dimentico il presente. E non c’è nella mia vita attuale impressione dolorosa o piacevole che non mi faccia sovvenire di qualcosa di simile nel mio passato, e più spesso della mia fanciullezza, dei miei primi anni felici. Questi momenti però mi lasciano sempre una profonda tristezza. Di giorno in giorno mi sento più debole; questo gran pensare mi spossa, senza dire che la mia salute va sempre di male in peggio.
Ma il bel mattino di oggi, fresco, limpido, radioso, come di rado ce ne dà il nostro autunno, mi ha rianimata. Ecco l’autunno, ho esclamato con gioia. Come amavo l’autunno in campagna! Ero una bambina, ma già sentivo molto. La sera autunnale mi piaceva più della mattina. A due passi da casa, alle falde della collina, c’era un laghetto. Mi pare ancora di rivederlo: largo, levigato, lucido come un cristallo. Se la serata era calma, era calmo anche il lago. Sugli alberi delle rive non si muoveva una foglia, l’acqua era immobile come uno specchio. Che bell’aria fresca, frizzante! La brina cadeva sull’erba, qua e là per le capanne brillava un fuoco, le greggi tornavano. Allora io cheta cheta sgusciavo fuori di casa, correvo al mio lago e me ne stavo incantata a contemplarlo. Sulla sponda ardevano delle fascine che i pescatori avevano accese, e la fiamma si rifletteva nell’acqua e spargeva lontano il suo tremolio d’oro. Il cielo era freddo, azzurro, contornato di strisce di fuoco che a poco a poco si facevano più pallide. Spuntava la luna. L’aria aveva una sonorità così viva, che si sentiva il frullo di un’ala, l’ondeggiare di una canna alla brezza, il guizzo di un pesce. Sulla superficie plumbea del lago si alzava un vapore bianchiccio, rado, trasparente. In lontananza tutto si sprofondava nella nebbia; da vicino, ogni oggetto appariva nitido, quasi intagliato – la barca, le rive, l’isolotto – un barilotto dimenticato sulla sponda si dondolava appena sull’acqua; un virgulto di salice dalle foglie ingiallite s’intricava nel canneto; un gabbiano attardato si levava dall’erba e ora si tuffava nel lago, ora, spiccando di nuovo il volo, s’immergeva nella nebbia. Io guardavo, porgevo ascolto, mi sentivo così contenta, così felice... Ero ancora una bambina!...
Quanto amavo l’autunno! specialmente verso la fine, quando hanno termine i lavori campestri e si bada a riporre il grano, quando cominciano le veglie nelle capanne, quando già tutti sentono l’inverno imminente. Ogni cosa allora diventa più cupa, il cielo si copre di nuvole, le foglie gialle si ammonticchiano e si stendono in sentieri sul margine del bosco che prende quasi una tinta di azzurro cupo, soprattutto nell’ora del crepuscolo, quando cala una nebbia umida, dalla quale emergono gli alberi come giganti, come orridi e paurosi spettri. Certe volte, tornando dai campi, restavo indietro, sola soletta... e allora mi si mozzava quasi il respiro. Tremavo come una foglia: chissà mai, pensavo, all’improvviso, dal cavo di quel tronco non debba saltar fuori qualche brutto ceffo... Il vento faceva stormire il bosco, sibilava, urlava, gemeva, strappava ciuffi di foglie dai rami scheletriti, li aggirava in vortici nell’aria, e dietro, con uno strido acuto e selvaggio, passavano folti e larghi stormi di uccelli, che nascondevano alla vista la vòlta del cielo. Una gran paura mi assaliva, e proprio in quel punto, ecco, mi pareva di sentire un sussurro, la voce di qualcuno che mi bisbigliava all’orecchio: «Corri, corri, bambina, non perder tempo; tra poco qui sarà spaventoso, corri, bambina!». Un brivido mi stringeva il cuore, e correvo, correvo, fino a perdere il fiato. Arrivavo a casa ansimante. A casa era tutta una festa, tutto un coro di voci allegre. A ciascuna di noi ragazze si dava il suo lavoro: si mondavano i ceci o i papaveri. I ceppi secchi scoppiettavano nel camino; la mamma seguiva con gli occhi, sorridendo, le nostre manine svelte che si affaticavano a gara; Ul’jana, la vecchia balia, ci raccontava tante storie del tempo antico e certe paurose favole di stregoni e di spiriti. Noi bambine ci si stringeva in un gruppo, tutte avevamo sulle labbra un sorriso. D’un tratto, silenzio... Avete sentito?... uno scricchiolio... Pare che qualcuno bussi da fuori!... No, niente, falso allarme: è l’arcolaio della vecchia Fròlovna... Che risate si facevano! La notte poi non si poteva chiudere occhio, e se mai, tanti brutti sogni venivano a spaventarmi peggio... Mi svegliavo, non osavo muovere un dito, tremavo fino all’alba sotto le coperte. La mattina mi alzavo più fresca di un fiorellino. Guardavo dalla finestra: tutta la campagna era gelata; dai rami nudi pendeva in tante gocciole d’argento la brina d’autunno, il lago pareva una grande lastra lucente, un vapore bianco la velava appena, gli uccelli cinguettavano a gara. Il sole diffondeva intorno i suoi raggi, e questi facevano screpolare qua e là lo strato sottile del ghiaccio. Che luce, che armonia, che allegria! Il fuoco tornava a crepitare nel camino, tutte prendevamo posto intorno alla tavola dove fumava il bricco del tè, mentre dalla finestra sporgeva dentro la testa la nostra cagna nera Polkàn, mezzo assiderata per la guardia notturna, e ci dava il buon giorno a suo modo, dimenando la coda. Un contadino passava in groppa a una cavallina e si avviava al bosco a far legna. Tutti erano così lieti, soddisfatti! I granai traboccavano; covoni enormi coperti di paglia si indoravano al sole, che era una bellezza guardarli. E tutti tranquilli, tutti felici, a tutti aveva mandato il Signore il buon raccolto. Si era sicuri di non mancare di pane nell’inverno; il contadino sapeva che la sua famigliola avrebbe avuto di che cibarsi; e così, la sera canti, suoni, balli, ma la domenica non c’era uno che nella casa di Dio non pregasse con ardore, spargendo lacrime di gratitudine... Ah, che tempo beato, che giorni d’oro furono quelli della mia fanciullezza!
Ed ecco, adesso piango come una bambina, lasciandomi trasportare dai ricordi. Così vivo, così vicino, ho riveduto quel lontano passato, mentre il presente è così fosco, così incerto! Che destino mi aspetta? come finirà tutto questo? Sapete, ho il presentimento, quasi la sicurezza, che morirò quest’autunno. Sono molto, molto malata. Penso spesso alla morte, ma pure non vorrei morir così, non vorrei essere sotterrata in questo paese. Forse tornerò a mettermi a letto, come la primavera scorsa; fatto sta che da allora non sono mai perfettamente guarita. Adesso mi sento così male. Fedora è andata fuori per tutta la giornata, e io sto sola. Da un po’ di tempo in qua ho paura di restare sola; mi par sempre che ci sia qualcuno in camera, che qualcun altro mi parli; specialmente quando comincio a pensare e poi mi riscuoto di colpo, atterrita. Ecco perché vi ho scritto così a lungo: quando scrivo, la paura mi passa. Addio. Faccio punto, perché non ho più carta né tempo. Del denaro ricavato dai vestiti e dal cappello mi è avanzato solo un rublo d’argento. Avete fatto bene a dar due rubli d’argento alla padrona. Così starà zitta per un pezzo.
Trovate modo di riparare gli abiti alla meglio. Addio, sono così stanca. Non capisco questa mia debolezza; la più piccola occupazione mi abbatte. Se mi viene del lavoro, non so davvero come me la caverò. Questa preoccupazione, credetemi, mi uccide.
Cara Varvara,
oggi, figlia mia, ho provato tante di quelle emozioni. Prima di tutto, il mal di capo non mi dava requie. Per pigliare una boccata d’aria, me ne sono andato a fare due passi per la Fontanka25. Una serataccia scura, umida. Adesso, alle sei, non ci si vede quasi più. Non pioveva, ma c’era una nebbia fitta non meno uggiosa di un acquazzone vero e proprio. Dei nuvoloni stracciati si rincorrevano in cielo. Un sacco di gente andava su e giù lungo il canale, e tutti, come se fossero d’intesa, con certe facce rabbuiate, che ti facevano venire l’ipocondria: contadini ubriachi, donne camuse di Finlandia in cappelli e scarponi, operai, vetturini, impiegati che avevano da sbrigare qualche loro faccenda, monelli, un garzone di magnano in camiciotto rigato, magro, allampanato, dal viso unto e annerito, con in mano una serratura, un soldato congedato lungo due metri, un merciaio in attesa del compratore di un temperino o un anellino di bronzo, questo era il pubblico. A quell’ora, si capisce, non ci poteva essere altro pubblico che questo. È un canale navigabile, la Fontanka. C’era una tale quantità di barche, che non si capiva come avessero potuto trovare posto. Sul ponte, varie donnette sudice, inzuppate, che vendevano panini stantii e mele marce. Non è divertente passeggiare per la Fontanka: lastrico sdrucciolevole, case alte di qua e di là, nere, affumicate; nebbia sotto i piedi, nebbia sulla testa. Insomma una serata triste, tetra, un’oppressione.
Voltando per la Goròchovaja, faceva già notte e cominciavano ad accendere il gas. Da un pezzo non passavo per quella via. Che frastuono, che movimento! Botteghe e magazzini senza paragone; vetrine piene di luce, quasi di fuoco, con dietro stoffe, fiori, nastri, cappellini. Ti figuri che tanto ben di Dio sia messo in mostra per sola bellezza; signornò: c’è di quelli che comprano queste galanterie e ne fanno regalo alle mogli. Una via ricca davvero! A ogni passo, panettieri tedeschi, gente che ha del suo, si vede. E quante carrozze una dopo l’altra! pare impossibile che il lastrico resista. Equipaggi di gran lusso, cristalli che sembrano specchi, seta e velluto all’interno, lacché aristocratici con spalline e spadino. Io le guardavo tutte, una per una, e non vedevo che grandi dame sdraiate sui cuscini: che sfarzo, che luccichio! Forse erano principesse e contesse che andavano al ballo o a qualche serata. Vorrei proprio vedere da vicino una principessa o una qualunque di queste signore dell’alta società: dev’essere una bella cosa: non le ho viste mai altro che di sfuggita, in carrozza, come oggi. E qui mi siete venuta in mente voi... Ah, figlia mia cara, quando penso a voi, mi sento stringere il cuore! Perché, dico io, voi, Varvara, dovete essere così disgraziata? Ma in che cosa voi siete peggio di tutte quante loro? Siete buona, bella, istruita; perché dunque vi è toccata una così brutta sorte? Perché deve sempre succedere così, che una persona buona deve patire la miseria, e a un altro la fortuna si presenta da sé come se cascasse dal cielo? Lo so, lo so, sta male fare di questi ragionamenti, lo so che questi sono grilli da libero pensatore; ma davvero davvero, con una mano sulla coscienza, perché a qualcuno fin nel ventre della mamma è scritta la buona ventura, e qualcun altro deve entrare nel mondo per la porta dell’ospizio dei trovatelli? E capita pure a volte che la fortuna tocchi a Ivan lo scemo26. «Tu, Ivan», dice, «affonda la mano nei sacchetti d’oro del nonno, bevi, mangia, datti bel tempo; e tu, povero diavolaccio, contentati di restare a stecchetto e non cercare altro: tu» dice, «solo a questo sei buono.» È peccato, figliola mia, pensar così, ma è un peccato in cui si casca per forza, senza intenzione. Vorrei vedere anche voi in una carrozza di quelle. I più alti generali, altro che uno scribacchino come me, sospirerebbero un’occhiata vostra, e invece di portare una veste logora di fustagno, sareste tutta seta e oro. Non vi vedrei così magrolina come adesso, ma fresca, colorita, grassottella, un pan di zucchero. E io allora mi contenterei di guardare dalla via alle vostre finestre illuminate, per vedervi passare dietro i vetri; la sola idea di sapervi felice mi darebbe cento anni di salute. E adesso, invece! Non basta che i maligni vi abbiano rovinata; ci voleva anche un sudicione di libertino che vi insultasse. Solo perché è vestito come un damerino e vi sbircia con la sua lente d’oro, tutto gli sarà lecito, tutto gli riuscirà, e bisogna anche ascoltare con riguardo i suoi discorsacci! E perché poi tutto questo? Perché siete un’orfana, perché non avete un difensore, perché non c’è un amico che vi possa dare man forte. E che uomo è costui, che gente è questa che senza motivo insulta un’orfanella? Sono feccia, non uomini, feccia vera e propria; passano per uomini, non hanno diritto di esistere. Ecco che gente è. E secondo me, figlia mia, il suonatore d’organetto che ho incontrato oggi è più rispettabile di loro. Sì, va attorno da mattina a sera, stenta, suda, aspetta la carità di un vestito smesso o di uno spicciolo, ma è padrone di sé, ma il pane che mangia se lo fatica. Non vuole elemosinare: per divertire il prossimo, lavora senza prendere fiato peggio di una macchina; ecco, dice, questa è la mia capacità, vi procuro uno svago, e basta. È vero sì, anche lui, come tanti altri, è un mendicante; un mendicante onesto, però, un mendicante perbene: sfinito, assiderato, seguita sempre a lavorare, a modo suo beninteso, ma anche quello è lavoro. E ce n’è molti di galantuomini, bambina mia, i quali benché sbarchino a stento il lunario secondo la quantità e l’utile delle fatiche loro, non fanno salamelecchi, non domandano a nessuno un tozzo di pane. Io, per esempio, sono proprio come quel suonatore d’organetto, cioè voglio dire, non sono proprio come lui, ma in un certo senso, nel senso della civiltà e dell’onestà, faccio come lui, vale a dire che, in proporzione alle mie forze, faccio tutto quello che posso. Non grandi cose, no; ma non si è obbligati all’impossibile e da una rapa non si cava sangue.
Ho parlato di questo suonatore, perché mi è toccato oggi di sentire doppiamente la mia povertà. Mi sono fermato dunque ad ascoltare l’organetto. Mi venivano certi brutti pensieri per la testa; così, per distrarmi, mi sono fermato. Eravamo lì in parecchi: io, qualche vetturino, una ragazzetta, e poi anche una bambina lacera e sporca. Il suonatore badava a girar la manovella sotto le finestre di una casa. Un ragazzetto mi ha dato nell’occhio. Poteva avere un dieci anni. Non sarebbe stato brutto; ma pareva così malaticcio, sparuto; non aveva che la sola camicia e qualche altro cencio, era quasi scalzo, e se ne stava a bocca aperta a sentire la musica, si sa, i ragazzi. Spalancava gli occhi, guardando i fantocci che ballavano, e intanto gli si gelavano mani e piedi; tremava tutto e si mordicchiava l’orlo della manica. Mi sono accorto che aveva in mano un pezzo di carta. È passato un signore e ha gettato al suonatore una monetina; la monetina è andata a cadere giusto nello scompartimento, dove un francese ballonzolava con le sue dame... Al rumore, il ragazzo s’è scosso, si è voltato timidamente intorno, e ha creduto certo che la moneta l’avessi data io. Subito è venuto dalla mia parte, e porgendomi la carta con le manine intirizzite, ha detto con un fil di voce: «Leggete». Ho aperto il foglio: la solita storia: «A voi, benefattori miei; una povera madre moribonda, tre creature che non hanno di che sfamarsi; soccorreteci, per amor di Dio, e io, quando sarò morta, non mi scorderò di voi nell’altro mondo». Ebbene, un caso come se ne danno tutti i giorni, un caso chiaro e lampante. Ma che potevo dare io? Niente. E niente ho dato. Ma quanta pena mi ha fatto! Quel povero ragazzo aveva le carni livide dal gran freddo, forse era affamato, e non diceva bugie, no: io lo so, io me ne intendo. Una cosa però non mi va. Come mai, dico, queste madri snaturate, senza ombra di compassione per i figli, li mandano fuori seminudi, in una stagione così rigida, a portare in giro uno scarabocchio di supplica? Dev’essere qualche sciocca donnetta senza carattere, non avrà a chi rivolgersi, se ne starà a casa con le mani in mano, e può anche darsi che sia veramente malata. Ad ogni modo, ci sarà pure qualcuno che si incarica di questi casi disperati. Del resto, potrebbe anche essere un’imbrogliona, che manda in giro un bimbo infermiccio per accalappiare i gonzi a rischio di fargli buscare davvero un malanno. E che impara con queste suppliche la misera creatura innocente? Gli si indurisce il cuore. Cammina, gira, domanda, piagnucola. I viandanti hanno altro per il capo, non danno retta. «Via! levati dai piedi! va’ a lavorare, vagabondo!» Ecco quel che sente da tutti il ragazzo, e diventa anche lui stizzoso, insensibile, mentre gela inutilmente e trema dalla paura come un uccelletto che cade a terra dal nido. I piedi non lo reggono, gli manca il respiro. Non passa molto, e lo senti tossire; e ci vuole poco che il male, come un rettile immondo, gli si insinui nel petto, e la morte gli arrivi addosso e lo colga in un lurido covo, senza cure, senza assistenza... Ecco, Varvara, com’è fatta la vita! Oh, Vàren’ka, è un martirio sentir domandare la carità, la carità per l’amor di Dio, e passare oltre senza dar niente, dicendo: «Dio te la mandi!». Alcune di queste richieste non producono grande impressione. Ce n’è di tutti i colori: c’è di quelli che hanno una voce piagnucolosa, solida, studiata, una vera voce da mendicante: a costoro non fa tanta pena negare l’elemosina: si tratta di pezzenti induriti, rotti al mestiere, che trovano sempre come cavarsela. Ma ci sono anche di quelli che non fiatano, e che chiedono, semmai, con una voce cupa che pare venire da sottoterra. Oggi, per esempio, quando ho preso la carta del ragazzo, lì vicino, presso il parapetto, un tale che non chiedeva a tutti, mi ha bisbigliato: «Una piccola moneta, signore, per l’amor di Dio!». E questo con voce così tremante, così soffocata, che io ho avuto un sussulto, ma non ho dato niente, perché niente avevo. E poi ai ricchi non piace esser disturbati, non piace che i poveri si lamentino della cattiva sorte: sono così importuni! Già, la povertà è sempre importuna, i lamenti degli affamati non fanno chiudere occhio alla gente perbene!
A dir la verità, figlia mia, ho cominciato a descrivervi tutto questo, in parte per voglia di sfogo, ma anche per offrirvi un campione dello stile fiorito dei miei componimenti. Perché certo voi stessa riconoscerete che da un po’ di tempo in qua il mio stile si va formando. Ma ora mi è venuta addosso una tale ipocondria, che ho preso a interessarmi con tutta l’anima ai miei propri pensieri, e quantunque io sappia benissimo che quest’interesse non serve a nulla, trovo a ogni modo che si riesce, a un certo punto, persino a rendersi giustizia. E veramente, Varvara, accade spesso che senza sapere né come né perché, un uomo si avvilisce, si calcola meno d’un copeco e si colloca al di sotto di un bruscolo qualunque. E se ho da esprimermi con un paragone, dirò che ciò deriva forse dal fatto che si è intimiditi e umiliati dalla sorte, come, diciamo, quel povero ragazzo che mi domandava l’elemosina. Adesso, con vostra licenza, vi parlerò allegoricamente. State a sentire. Mi succede a volte, di buon mattino, recandomi in ufficio, di dare un’occhiata alla città, e la vedo che si sveglia, si alza, fumiga, bolle, rumoreggia, e allora davanti a questo spettacolo io mi faccio piccino come se avessi ricevuto un buffetto sul naso troppo curioso, seguito quatto quatto a far la mia via più cheto dell’acqua, più basso dell’erba, e me la cavo con un’alzata di spalle. Ora, riflettete un po’ a quel che si fa in quelle grandi case, nere, affumicate, entrate nel nocciolo dell’argomento, e allora dite voi stessa se era giusto disprezzarsi senza un motivo al mondo e farsi vincere da un indegno scoramento. Badate che io parlo allegoricamente e non già nel senso letterale della cosa. Ebbene, guardiamo un po’ che succede in quella casa? Là, in un covo umido, senza luce, senz’aria, che solo l’estremo bisogno fa passare per domicilio, un qualunque operaio si è svegliato; e nel sonno, diciamo così per esempio, tutta la notte ha sognato quel paio di stivali, che ieri per disgrazia ha strappato, come se una simile sciocchezza debba venire in sogno a un uomo! Ma insomma, lui è un lavoratore, è un calzolaio, e gli si può mandar buona che sogni del suo mestiere. I marmocchi si lamentano, la moglie ha fame; e non sono solo i calzolai che si alzano così, figlia mia... Questo sarebbe niente, e non metterebbe conto di scriverne, ma ecco qui che un’altra circostanza si presenta: in quel medesimo caseggiato, un piano più sotto o più sopra, in un appartamento dorato, un signore ricco sfondato ha forse sognato anche lui gli stessi stivali, cioè non proprio quelli, ma altri stivali, di un’altra forma, ma sempre stivali, poiché, secondo il mio sentimento, figliola mia, tutti chi più chi meno siamo un po’ calzolai. E anche questo sarebbe niente, ma il male sta qui: che quel ricco signore non ha nessuno vicino che gli sussurri all’orecchio: «Smettila, via, di pensare sempre a una cosa, di pensare solo a te, di vivere solo per te: tu, amico mio, non sei mica calzolaio, i tuoi figli crepano di salute, tua moglie non domanda da mangiare; guardati un po’ attorno, vedi di fermarti su qualche altro oggetto più degno dei tuoi stivali!». Ecco quel che volevo dirvi allegoricamente, Varvara. Forse questo è un pensiero troppo ardito, ma questo pensiero mi viene di tanto in tanto, e allora non mi riesce di tenerlo in corpo e lo butto fuori. Di conseguenza, non c’era ragione di credersi un buono a nulla e di farsi spaventare dal chiasso, dal minimo frastuono. Concludo il mio discorso, dicendo che forse a voi verrà in mente che io voglia qui calunniare qualcuno, o che mi sia lasciato trasportare dal malumore, o anche che abbia copiato da qualche libro. Nemmeno per sogno: la calunnia io non la posso soffrire, il malumore non ci ha niente che vedere, e nulla ho copiato da nessunissimo libro: ecco fatto!
Sono tornato a casa tutt’altro che allegro, mi sono seduto al mio tavolino, ho acceso il fornello a spirito, e mi preparavo a sorbire un sorso di tè. A un tratto, alzo gli occhi, e vedo entrare Gorškòv, quel nostro inquilino povero che sapete. Fin dal mattino l’avevo visto ronzare intorno a questo e a quello e tentare anche di avvicinarsi a me. E vi dirò a proposito, figliola mia, che il loro stato è cento volte peggio del mio. Che paragone! La moglie, i figli!... Fatto sta, che se fossi in lui, non so davvero che cosa farei. Entra dunque Gorškòv, saluta, ha gli occhi un po’ umidi come al solito, striscia coi piedi, non trova da dire una parola. Gli ho offerto una sedia; una sedia rotta, sì, ma non ce n’era altra. L’ho invitato poi ad accettare un bicchiere di tè. Si è scusato, ha rifiutato più che poteva, ma alla fine ha preso il bicchiere. Non voleva zucchero, è tornato a scusarsi quando cercavo di persuaderlo che lo zucchero ci voleva; ha rifiutato una e due volte, ma finalmente ne ha messo nel bicchiere un pezzettino minuscolo e mi ha assicurato che il tè era dolcissimo. Ah, come avvilisce un uomo, la miseria! «Ebbene», dico, «che c’è, amico mio? in che posso servirvi?»
«Ecco qua, signor Makàr, vedete, le cose stanno così e così, fatelo per carità, aiutate una famiglia disgraziata... I bambini, mia moglie... nemmeno un tozzo di pane... e figuratevi quel che io... quel che un padre deve soffrire!» Ho fatto per rispondergli, ma lui non me ne ha dato il tempo. «Io, vedete, ho paura di tutti qui, cioè non è che abbia paura, ma così, sapete, un certo ritegno, gente che sta sulle sue, che si dà delle arie. Io,» dice, «non mi sarei nemmeno permesso di disturbare voi, così buono, così generoso a mio riguardo; so che di fastidi ne avete avuti anche voi, so che neppur voi vivete nell’agiatezza, ma... una cosetta, un piccolo soccorso, in prestito beninteso, ve ne supplico; e ho osato pregarvi perché conosco il vostro buon cuore, so che voi stesso avete patito il bisogno, che anche adesso siete angustiato, e che perciò potete capire e compatire. Scusatemi, perdonate il mio ardire, signor Makàr.» Io gli ho risposto che sarei stato lietissimo, ma che non avevo niente, il puro niente. «Sentite, signor Makàr», torna a dire lui, «io non domando molto, ma, vedete (qui si è fatto di fuoco in viso), mia moglie, vedete, i bambini hanno fame... pochi... pochi copechi, mi contento, mi bastano...» Ebbene, qui proprio mi sono sentito una stretta al cuore. Altro che le mie miserie, ho pensato! In tutto, non mi avanzavano che venti copechi, e ci facevo sopra i miei conti; volevo spenderli domani per certi oggetti indispensabili. «No, caro amico, non posso», e gli spiego come stanno le cose. «Signor Makàr, per carità, quel che volete, quel che vi riesce, magari dieci copechi.» Ebbene, che avreste fatto voi? Ho aperto il cassetto e gli ho dato i miei venti copechi: ben spesi, non vi pare? Ah, la miseria, la miseria! «Ma come mai,» gli domando, «vi siete ridotto a questi estremi, e tuttavia avete preso in fitto una camera da cinque rubli?» Mi ha spiegato di averla presa sei mesi fa, pagando un trimestre anticipato; ma poi erano sopraggiunti tanti e tanti di quei casi, che non sapeva più dove andare a parare. Aspettava che nel frattempo si decidesse la sua causa. Un affaraccio imbrogliato, spinoso. Fatto sta che si trova sotto processo. La lite è con un certo negoziante, imputato di non so che frode a danno dell’erario; scoperto il marcio, s’iniziò il giudizio, e il negoziante ha tirato nell’imbroglio il povero Gorškòv, che per ragioni d’ufficio aveva trattato la faccenda. Ma il vero è che il torto di Gorškòv è solo di poca diligenza, diciamo anche di leggerezza, di non aver tenuto presente a sufficienza l’interesse del governo. Il giudizio tira in lungo già da parecchi anni; sorgono sempre nuovi ostacoli contro Gorškòv. «Vi giuro», mi ha detto e ripetuto, «che non ho nessuna, nessunissima colpa: né furto, né indelicatezza, né niente.» Naturalmente, è bastato il sospetto a rovinarlo. È stato rimosso dall’impiego, e benché non si abbiano elementi contro di lui, finché non si giustificherà pienamente, non potrà riscuotere un credito piuttosto ragguardevole, che il negoziante gli nega per via legale. Quanto a me, gli credo, ma il tribunale non si contenta della sua parola. Insomma, la matassa è così arruffata che non basterebbe un secolo a trovarne il bandolo. Non appena si va per sbrogliarla, salta fuori l’avversario con nuovi cavilli. Mi fa una vera pena, ve l’assicuro! L’impiego perduto; impossibile, dopo quanto è successo, trovare un’occupazione; i risparmi sfumati; un processo sulle spalle; e con tutto questo, la necessità di vivere, lui e le sue creature. E intanto, eccoti che senza un motivo al mondo, gli nasce un bambino, e per conseguenza, spese; gli si ammala, spese; gli muore, spese. La moglie a letto; lui sofferente di non so che antico male: in una parola, un martire vero e proprio. Del resto, dice, fra giorni si deciderà favorevolmente la causa, lui ne è più che sicuro. Che pietà, figlia mia, che compassione! Io ho fatto il possibile per consolarlo. Si è perduto di coraggio, pover’uomo; ha paura di tutto; cerca protezione, appoggio, ed ecco perché io l’ho aiutato. Orsù, state sana, e che Dio vi protegga, Vàren’ka mia. Quando penso a voi, è come se applicassi un calmante all’anima mia malata; anche soffrire, soffrire per voi è quasi per me un piacere.
Vostro sincero amico
Varvara mia, Varvara cara!
Vi scrivo fuori di me. Sono tutto sconvolto da un avvenimento terribile. La testa mi gira come un arcolaio. Tutto ruota, tutto è in movimento. Ah, figliola mia, che leggerete qui, che sentirete! Chi di noi l’avrebbe preveduto! Ma no, io sì, forse; io ne avevo il presentimento. Il cuore me lo diceva; anzi, non è molti giorni, ho anche fatto un sogno più o meno simile.
Ecco quel che è successo. Scrivo così senza stile, come mi viene dall’anima, come Dio vuole. Vado stamane in ufficio, arrivo, mi metto a sedere, piglio la penna, scrivo. Bisogna sapere però che anche ieri stavo scrivendo, quando si accostò al mio tavolino Timoféj Ivànovič, e di sua propria mano mi consegnò un foglio, dicendomi che si trattava di un affare importante, urgentissimo. «Copiate qui», dice, «badate alla calligrafia, e sbrigatevi: oggi stesso va alla firma.» Vi faccio notare, Varvara, che ieri io non ero io, non avevo voglia di guardare niente, mi sentivo così oppresso, così sconsolato! Un gran freddo nel cuore; l’anima scura scura: solo di voi mi ricordavo, di nient’altro. Mi metto subito all’opera: copio, vado avanti, sto attento; soltanto, non so dire come, o che il diavolo ci ficcasse la coda, o che fosse destino, o che accadesse così casualmente, fatto sta che saltai un’intera riga, e ne è uscito fuori Dio sa che senso, anzi nessunissimo senso, un pasticcio bell’e buono. La lettera, per una ragione o per l’altra, non fecero in tempo a presentarla ieri, e l’hanno portata alla firma di Sua Eccellenza solo stamattina. Io, come se niente fosse, arrivo all’ora solita, e piglio il mio posto a fianco di Emel’jàn Ivànovič. Premettete anche questo: che da un po’ di tempo in qua io sono diventato più timido che mai e mi vergogno per niente. In questi ultimi giorni non guardavo in faccia nessuno. Bastava lo scricchiolio di una seggiola, che subito mi assalivano i brividi. E così oggi per l’appunto, me ne stavo mogio, curvo, raggomitolato, tanto che Efim Akìmovič (un burlone come non ne furono mai al mondo) dice in modo che tutti lo sentano: «Che è, signor Makàr, che vi vedo così uh-uh-uh?!». E insieme con quel versaccio fa una smorfia così buffa che tutti, giù, a tenersi i fianchi dal ridere, alle mie spalle s’intende. E dàlli, e dàlli, non la finivano più. Io mi turo le orecchie, stringo gli occhi, non mi muovo. Faccio sempre così, smettono più presto. A un tratto, si alza un vocìo, c’è un affaccendarsi, un correre... sento – o forse m’inganno?... sento che mi si chiama, mi si vuole, si grida il mio nome. Il cuore mi dà un tuffo; non so che paura mi prende; questo soltanto so, che una paura simile non l’avevo mai provata in vita mia. Divento tutt’una cosa con la seggiola, duro, inchiodato, come se non fossero fatti miei. Ma ecco, tornano a chiamare sempre più vicino; ecco che mi gridano nell’orecchio: «Dèvuškin, Dèvuškin! dov’è Dèvuškin?». Alzo gli occhi, mi vedo davanti Evstafij Ivànovič. «Presto», dice, «Makàr Alekséevič: presto da Sua Eccellenza. Avete fatto un guaio con quel foglio.» Solo questo, e non più; ma era abbastanza, non vi pare? Io mi faccio di gelo e di fuoco, a momenti vengo meno, mi scuoto, mi alzo, mi lascio guidare più morto che vivo. Traverso una sala, un’altra sala, una terza sala, arrivo, mi presento, eccomi nel gabinetto di Sua Eccellenza. Che cosa mi passasse per il capo in quel momento non ve lo so dire con precisione. Vedo, così, in una nebbia, che Sua Eccellenza è in piedi, con tanta di quella gente intorno. Credo di non aver nemmeno salutato; m’è uscito di mente. Mi tremano le labbra, mi tremano le gambe. E c’era di che, figlia mia! Prima di tutto, mi vergognavo; avevo dato un’occhiata allo specchio, così, senza volerlo, e c’era da diventare pazzi a quel che avevo visto. E poi, io mi sono tenuto sempre in disparte, come se non ci fossi al mondo. Era difficile che Sua Eccellenza sapesse della mia esistenza. Aveva forse sentito, per mero caso, che nell’ufficio c’era un certo Dèvuškin, ma non s’era mai dato la briga di conoscerlo da vicino.
«Che roba è questa?», incomincia Sua Eccellenza con voce irritata. «Come mai, signor mio, eh? Dove avete gli occhi? Una carta importante, una pratica urgente, e voi me la sciupate a questo modo! Come mai...», e qui Sua Eccellenza si volta verso Evstafij Ivànovič, e io arrivo solo a cogliere il suono di alcune parole: «Negligenza!... mancanza di zelo!... ci procurano dei fastidi...». Io stavo per aprir bocca... volevo scusarmi, ma non potevo; a scappare non ci pensavo nemmeno... e a questo punto, figliola mia, a questo punto è successa una tale cosa, che anche adesso mi sfugge la penna di mano dalla vergogna. Un bottone, che il diavolo se lo pigli, quel maledetto bottone che si reggeva appena a un filo, si è staccato di botto, è caduto, ha rimbalzato (io, si vede, l’avevo urtato sbadatamente), ed è rotolato, tintinnando, fino ai piedi di Sua Eccellenza, e questo in mezzo al silenzio universale! Ecco la mia bella giustificazione, la mia scusa, la mia risposta, tutto quel che mi preparavo a dire a Sua Eccellenza! Le conseguenze sono state terribili. Immediatamente Sua Eccellenza ha fermato l’occhio sulla mia figura e sul mio vestito. Io mi sono ricordato di quel che avevo visto nello specchio, e mi sono precipitato ad afferrare il bottone. Avevo perduto la testa. Mi chino, faccio per agguantarlo, mi sfugge, rotola, scappa; in una parola, dò una bella prova di sveltezza. Sento allora mancarmi le ultime forze. Addio dignità, addio reputazione, tutto, tutto è perduto irrimediabilmente! Un ronzio mi introna e mi suonano nelle orecchie, non so perché, i nomi di Tereza e di Faldoni. Alla fine afferro il bottone, mi raddrizzo, resto lì impalato, e magari così fossi rimasto, da quell’allocco che mi ero mostrato, in posizione di attenti. Ma no. Mi dò a premere il bottone contro i fili spezzati, come se sperassi così di riappiccicarlo, e sorrido, sorrido come uno scemo. Sua Eccellenza si volta un po’ in là, poi mi dà una seconda occhiata, e sento che dice a Evstafij Ivànovič: «Ma come mai! guardatelo com’è ridotto!... Che uomo è?... chi è?...». Ah, figlia mia, che devo dirvi? sapeste come mi sentivo... «Che uomo è? chi è?» Bella figura la mia! Sento che Evstafij Ivànovič risponde: «Nulla da notare sul suo conto, condotta esemplare, stipendio discreto...». «Ebbene, aiutatelo in qualche modo», dice Sua Eccellenza, «dategli un anticipo.» «Ma l’ha già preso», risponde quello «ne ha preso non so quante volte e per quanto tempo. Le circostanze, si vede... ma la condotta è buona, non ha dato mai da dire...» Io, Varvara, ero sulla brace, mi pareva di ardere nell’inferno, morivo! «Su», dice Sua Eccellenza ad alta voce, «si rifaccia subito la copia... Accostatevi, Dèvuškin... Ricopiate da capo e senza errori... E... sentite...» Qui si è voltato agli altri, ha impartito vari ordini, e tutti sono andati via. Appena usciti, Sua Eccellenza cava in fretta il portafogli e ne tira fuori un biglietto da cento rubli... «Ecco,» dice, «tutto quel che posso... Prendete...» me lo mette quasi di soppiatto in mano. Oh, Varvara mia, mi ha preso un tremore, mi sentivo in un altro mondo, volevo afferrargli la mano. E lui, Sua Eccellenza, si è fatto rosso, sì proprio, rosso, vi giuro che non vi dico bugia; ha preso fra le sue la mia mano indegna, e l’ha scossa, sì, dico, l’ha scossa, come se fosse la mano di un suo pari, come se fosse la mano di un’altra Eccellenza. «Andate», dice, «andate, per quanto è in me... Badiamo a non sbagliare ancora eh?.. e non se ne parli più.»
Adesso, figlia mia, ecco quel che ho deciso; supplico voi e Fedora, e se avessi dei figli l’ordinerei anche a loro, di pregare Dio, non per il loro padre, ma tutti i giorni, tutto l’anno, eternamente per le loro Eccellenze. Dirò di più, e questo lo dico solennemente – statemi bene a sentire – giuro che per quanto io mi sentissi avvilito nei tristi giorni delle nostre disgrazie, guardando a voi, alle vostre angustie, e guardando a me, alla mia abiezione, alla mia incapacità; a onta di tutto questo, vi giuro che non tanto ho cari i cento rubli, quanto il fatto che Sua Eccellenza in persona, a me che sono un niente, a me che sono un beone, a me che sono un reietto si è degnato di stringere la mano! Con questo soltanto mi ha fatto rinascere, mi ha reso a me stesso, mi ha ridato animo, ha addolcito in eterno la mia vita, e io sono sicuro, sicurissimo, che per quanto peccatore io sia al cospetto dell’Altissimo, la mia preghiera per il benessere, per la felicità delle loro Eccellenze arriverà ai piedi del Suo trono.
Adesso sono in una terribile agitazione. Il cuore mi batte, pare che voglia saltar fuori dal petto. E io stesso, da capo a piedi, non ho più energie, mi sento esausto. Vi mando 45 rubli in biglietti; 20 ne dò alla padrona e 35 li tengo per me: 20 mi serviranno per riparare i vestiti, e 15 per le spese di tutti i giorni. Al momento però, tutte queste impressioni mi mettono sottosopra. Vado a riposarmi. Del resto, sono tranquillo, molto tranquillo. Solo un po’ di stanchezza: mi pare come se l’anima, in fondo in fondo, tremi tutta, non trovi requie. Passerò da voi. Ora sono come smemorato... stavo per dire ubriaco... Dio vede tutto, Dio non abbandona nessuno, figliola mia cara cara cara!
Vostro degno amico
Carissimo signor Makàr,
non vi so dire, amico mio, quanto mi rallegro della vostra buona fortuna e quanto apprezzo la bontà del vostro superiore. Finalmente, adesso respirerete dopo tanti guai. Ma, per amor di Dio, badate a non buttar via i soldi. Vivete tranquillo, più modestamente possibile, e fin da ora cominciate a mettere sempre qualcosa da parte, affinché la disgrazia, se mai, non vi colga alla sprovvista. Di noi non vi date pensiero, ve ne prego. Fedora e io ce la caviamo alla meglio. Perché mandarci tanto denaro? Vi assicuro che proprio non ne abbiamo bisogno. Ci basta quel poco che si ha. È vero che tra non molto mi toccherà spendere per lo sgombero, ma Fedora spera di riscuotere fra giorni un suo vecchio credito. A ogni modo, trattengo venti rubli, per qualche estremo bisogno. Vi rimando il resto. Per carità, tenete da conto il denaro. Addio. State sano e allegro. Vi scriverei di più, ma sono terribilmente stanca; tutto ieri non ho lasciato il letto. Grazie della visita promessa.
Venite, vi aspetto.
Cara Varvara mia,
ve ne prego, ve ne supplico, non separatevi ora da me, proprio ora che sono completamente felice, che niente mi manca. Non date retta a Fedora; per conto mio, farò tutto, tutto quel che vi piace: mi condurrò bene; non fosse che per rispetto a Sua Eccellenza, terrò, ve lo garantisco, una condotta esemplare; torneremo a scriverci delle belle lettere, ci confideremo i nostri pensieri, le nostre gioie, le nostre angustie, se angustie ci saranno; vivremo in perfetto accordo, contenti come pasque. Ci occuperemo anche di letteratura... Figliola mia cara! Tutto è mutato nella mia sorte, e tutto in meglio. La padrona si è ammansita, Tereza è diventata più intelligente, lo stesso Faldoni è più svelto di prima. Con Ratazjaev ci siamo rappacificati. Sono stato io il primo a rompere il ghiaccio. È un bravo ragazzo, e quanto al male che se ne diceva, sono tutte chiacchiere. Ho scoperto adesso che si trattava di una bassa calunnia. Non gli è mai passato per la mente di scrivere quella satira su voi e me: me l’ha detto lui stesso. Mi ha anche letto una nuova opera. E se allora mi diede del Lovelace, questa non è mica un’ingiuria o un soprannome sconveniente: me l’ha spiegato. È un nome preso da un libro forestiero, e significa un giovane che sa il fatto suo, o per dirla con una frase più letteraria, un bel tipo che imbrocca a dovere e coglie nel segno: né più né meno di questo. Era insomma uno scherzo alla buona, senza malizia. E io, da quell’ignorante che sono, me la presi a male. Naturalmente, gli ho fatto le mie scuse... Ma che bellezza di giornata oggi, Varvara! Stamani in verità s’è avuto un po’ di nevischio, pareva che venisse giù da un setaccio. Poco male! L’aria si è rinfrescata. Sono andato a scegliermi gli stivali, e ne ho comprato un paio che è una meraviglia. Ho anche fatto un giretto per il Nevskij. Ho letto L’Ape. Sicuro! Ma mi scordavo di dirvi la cosa più importante.
Eccomi qua a servirvi.
Stamani con Emel’jàn Ivànovič e con Aksentij Michajlovič si discorreva di Sua Eccellenza. Sì, Varvara, non è solo con me che Sua Eccellenza si è mostrato così generoso. Ha beneficato tanti e tanti altri, il suo buon cuore è conosciuto da tutto il mondo. Da ogni parte si levano verso di lui inni di gloria e scorrono lacrime di gratitudine. Ha preso con sé e fatto educare un’orfanella e l’ha anche sistemata, dandola in moglie a un uomo dabbene, un suo segretario particolare. Ha fatto entrare il figlio di una vedova in una cancelleria, e ancora cento altre beneficenze che non si contano. Io, naturalmente, mi son creduto in obbligo di portare il mio obolo, raccontando per filo e per segno, ad alta voce, quel che Sua Eccellenza aveva fatto per me. Ho detto ogni cosa, senza nascondere niente di niente. Al diavolo la vergogna e l’amor proprio! Ma che amor proprio, ma che vergogna in una faccenda simile! No, no, evviva sempre Sua Eccellenza e le sue buone azioni! Ho parlato con trasporto, con calore, e invece di arrossire, ero tutto superbo di poter raccontare una storia del genere. Niente ho taciuto (solo, per prudenza, non ho fatto il vostro nome): ho detto della padrona, di Faldoni, di Ratazjaev, degli stivali, di Màrkov, e via di seguito. Qualcuno di loro s’è messo a ridere, sì, proprio; e allora tutti gli altri a far lo stesso. Trovavano forse qualche tratto ridicolo nella mia figura, o forse ridevano del fatto degli stivali, sì, degli stivali, così dev’essere. Ma senza ombra di cattiva intenzione, si capisce. Sono giovani, si sa, benestanti; ma non è possibile che per malignità si burlassero delle mie parole; voglio dire che non potevano in nessun modo ridere alle spalle di Sua Eccellenza. Non è così, Varvara?
Lo credereste? Sono ancora intontito; non riesco a riavermi. Tanti avvenimenti uno sull’altro mi hanno sconvolto. Avete legna a sufficienza? Abbiatevi riguardo, Vàren’ka, non ci si mette niente a buscarsi un’infreddatura. Ah, figliola mia, voi mi uccidete con le vostre malinconie! E io prego il Signore, lo prego per voi con tutto il cuore. A proposito, avete calze di lana e qualche vestito un po’ più caldo? Badate, bambina mia: se una cosa vi occorre, per amor di Dio, non fate torto a chi vi vuol bene. Rivolgetevi a me francamente. Siamo in soldi, adesso. Quanto alla mia persona, state tranquilla. L’avvenire è così bello, così sereno!
Ma ne ho assaporati di bocconi amari, Varvara! Che importa, il passato è passato. Verrà il giorno che anche i guai recenti ci sembreranno niente. Mi ricordo della mia prima gioventù: altro che bolletta! Certe volte non avevo la croce di un spicciolo. Il freddo, la fame si facevano sentire, e io me la ridevo. La mattina me ne andavo a spasso, incontravo un visino grazioso ed ero felice fino alla sera. Gran bel tempo era quello! E la vita, Varvara, è una bella cosa, questo è certo. Specialmente a Pietroburgo. Ieri, con le lacrime agli occhi, mi sono confessato, ho fatto atto di contrizione perché il Signore mi perdoni tutti i peccati in cui le sventure mi hanno fatto cadere: mormorazioni, pensieri liberali, stravizi, sfuriate. Ho pensato a voi con tenerezza. Voi sola mi deste coraggio, voi sola foste il mio conforto, voi mi guidaste con i buoni consigli e le ammonizioni. Non me ne scorderò mai, mai. Oggi ho baciato una per una tutte le vostre lettere. Addio per ora. Sento dire che qui vicino si vendono degli abiti di seconda mano. Vado a dare un’occhiata. Addio, cara, addio.
Vostro con tutta l’anima
Gentilissimo signor Makàr,
sono agitatissima. Sentite un po’ quel che ci è successo. Io ho dei brutti presentimenti. Giudicate voi stesso, amico mio: il signor Bykòv è qui, a Pietroburgo. Fedora lo ha incontrato, che andava in carrozza. Ha fatto fermare, è smontato, si è accostato a lei e le ha domandato dove abitava. Lì per lì Fedora non ha risposto; ma lui, sogghignando, ha detto di sapere chi stava con lei (si vede che Anna Fëdorovna gli ha raccontato ogni cosa). Allora Fedora ha perso la pazienza, ha alzato la voce, e là sulla pubblica via, gli ha fatto una ramanzina, gli ha dato dell’immorale, lo ha accusato di essere la causa di tutte le mie disgrazie. Lui ha ribattuto che, si sa, quando mancano i soldi non si può essere che disgraziati. Fedora non se l’è tenuta, e gli ha detto che io avrei potuto vivere del mio lavoro, avrei potuto maritarmi, cercare un posto qualunque, ma che ormai ogni speranza di bene era perduta, che per giunta ero ammalata, e me ne sarei andata presto all’altro mondo. A questo, lui ha osservato che io ero ancora troppo giovane, che avevo troppe fisime per la testa, e che le nostre virtù erano alquanto appannate (parole sue precise). Fedora e io credevamo che ignorasse il nostro indirizzo; quando ecco che ieri, non appena ero uscita per alcune spese, arriva lui ed entra difilato in camera: non voleva trovarmi a casa, pare. Si informò a lungo da Fedora circa la vita che conduciamo, guardò minutamente per tutta la camera, osservò il mio lavoro, e finalmente chiese: «Chi è quel certo impiegato vostro conoscente?». In quel momento, voi traversavate il cortile; Fedora vi additò; egli gettò un’occhiata verso di voi e sorrise. Fedora lo pregò di andar via, facendogli intendere che già ero scossa dai troppi dispiaceri e che il vedermelo in casa mi avrebbe fatto una pessima impressione. Lui stette zitto un momento, poi disse di essere venuto solo così, perché non aveva niente da fare, e voleva dare a Fedora 25 rubli. Fedora, si capisce, non li ha presi. Che vuol dire tutto questo? Perché è venuto? Non arrivo a capire come faccia ad avere sempre notizie nostre. Mi perdo in mille congetture. Fedora dice che Aksin’ja, sua cognata che a volte capita da noi, conosce la lavandaia Nastas’ja, e il cugino di Nastas’ja è usciere nello stesso ufficio dove è impiegato un amico del nipote di Anna Fëdorovna. Può darsi, secondo lei, che per questa via i pettegolezzi siano arrivati all’orecchio del signor Bykòv. È probabilissimo però che Fedora si sbagli. Non sappiamo che pensare. Possibile che abbia il coraggio di presentarsi un’altra volta? Questa sola idea mi atterrisce. Quando ieri Fedora mi ha raccontato la cosa, per poco non sono svenuta dallo spavento. Che altro vuole da me? Non lo voglio vedere, no! Che ha da fare lui con me poveretta? Ah, che paura adesso! mi pare tutti i momenti di vedermelo davanti. Che ne sarà di me? che altro mi prepara la sorte? Per amor di Dio, venite, signor Makàr. Venite subito, venite.
Cara Vàren’ka,
oggi è successo qui in casa un fatto dolorosissimo, inaspettato, assolutamente inesplicabile. Premetto che il nostro povero Gorškòv è stato assolto in tutto e per tutto con formula piena. Si sapeva già dell’esito favorevole, ma stamani è andato a sentire la sentenza definitiva. Tutto è finito come meglio non si poteva, né negligenza, né disattenzione, né niente: assoluzione completa, insomma. La sentenza ordina pure che il negoziante gli sborsi la grossa somma che gli deve, sicché non solo Gorškòv si trova ad avere aggiustato i fatti suoi, ma ne è uscito senza la benché minima macchia al suo onore: in una parola, soddisfazione di ogni suo desiderio, vittoria su tutta la linea. È tornato a casa alle tre. Era irriconoscibile: pallido come un cencio di bucato, un tremito continuo alle labbra; sorrideva però. Ha abbracciato la moglie e i bambini. Tutti noi siamo accorsi da lui per congratularci. È stato molto commosso della nostra attenzione, salutava di qua e di là, stringeva la mano a ciascuno più e più volte. Mi è sembrato più alto, più dritto, e gli occhi gli luccicavano asciutti senza la solita lacrimetta. Era così agitato, pover’uomo. Non poteva star fermo due minuti; pigliava qualunque oggetto gli capitasse sotto le mani, poi lo buttava via, sorrideva sempre, di nuovo salutava, si sedeva, si alzava, tornava a sedersi, arruffava Dio sa che parole: «Il mio onore,» diceva, «l’onore, il buon nome, le mie creature...» e come lo diceva! Si è messo perfino a piangere. A noi pure venivano la lacrime. Ratazjaev ha detto, certamente per dargli coraggio: «Ma a che serve, l’onore, quando non si ha di che sfamarsi? Il denaro, amico mio, ecco quel che preme; ed è di questo che dovete ringraziare la Provvidenza», e così dicendo gli batteva la mano sulla spalla. Mi è parso che Gorškòv si offendesse: non che abbia risposto con sgarbo, ma ha guardato Ratazjaev in un certo modo curioso e ne ha allontanato la mano. Una cosa che prima non avrebbe mai fatto. Del resto, ognuno ha il suo carattere. Io, per esempio, capitandomi una fortuna simile, non avrei messo superbia: vedete, figliola mia, qualche volta si fa un inchino di più, si annuisce, ci si umilia, non per altro che per bontà d’animo, per eccessiva tenerezza di cuore... Ma non si tratta di me adesso. «Sì», dice, «il denaro non guasta... Sia lodato Dio, sia lodato Dio!». E poi, tutto il tempo che ci si è fermati in camera sua, badava solo a ripetere: «Sia lodato Dio, sia lodato Dio!». La moglie gli ha ordinato un desinare più delicato e più sostanzioso. La padrona si è incaricata di cucinarlo personalmente. Buona donna, a momenti, la nostra padrona. Ma prima di pranzo Gorškòv seguitava a non trovar requie. Entrava da questo e da quello, invitato o no: entra, sorride, si mette a sedere, dice due parole, o anche non apre bocca, e via. In camera del sottotenente di marina ha preso anche le carte e ha fatto da quarto in una partita. Ha giocato, ha commesso non so quanti sbagli, e dopo tre o quattro giri, non ne ha voluto più sapere. «No», dice, «nient’altro che uno svago, così... tanto per far qualcosa...», e li ha piantati in asso. Ha incontrato me nel corridoio, mi ha preso tutt’e due le mani, mi ha guardato fisso negli occhi; poi, con una stretta da stroncarmi il braccio, si è allontanato, sorridendo sempre, ma di un sorriso sforzato, doloroso: pareva un morto. La moglie si scioglieva in lacrime dalla contentezza: era tutta una festa in camera loro. A tavola si sono sbrigati presto. Ed ecco, dopo pranzo, Gorškòv dice alla moglie: «Senti, cara, mi riposerò un pochino...», e si mette a letto. Chiama poi la figlioletta, le posa una mano sulla testolina, e sta un gran pezzo ad accarezzarle i capelli. Poi di nuovo si volta alla moglie: «E come sta Pèten’ka? il nostro Petja, il nostro piccino, eh?». La moglie si fa il segno della croce, e risponde che il povero Petja non c’è più. «Sì, sì, lo so, so tutto. Petja sta in paradiso.» La moglie lo guarda, si accorge che non è pienamente in sé, che il colpo l’ha scosso forse troppo. «Cerca di pigliar sonno», dice, «ti farà bene.» «Sì, hai ragione, un po’ di sonno, solo un poco.» Chiude gli occhi, sta cheto un momento, poi torna ad aprirli, e muove le labbra come per dire qualcosa. La moglie non sente. «Che vuoi, di’?...» Nessuna risposta. Lei aspetta un po’. «Ecco, si è addormentato», pensa, e se ne va a passare una mezzoretta dalla padrona. Tornando, trova che il marito non s’è svegliato: disteso sul letto, non si muove. Crede che dorma, siede e si mette a lavorare. Racconta lei stessa di essere stata più di mezz’ora talmente assorta nelle sue riflessioni da non sapere più, ora, a cosa pensasse; dice solo che del marito si era perfino scordata. Di colpo, trasalisce, ha una sensazione di paura, è colpita dal silenzio di tomba che regna nella camera. Guarda al letto e vede che il marito è sempre nella stessa posizione. Si accosta, alza la coperta, lo fissa, lo tocca... Era già freddo. Era morto, figlia mia, Gorškòv era morto, come per un colpo di fulmine. Ma di cosa e perché, Dio solo lo sa. Io, Varvara, ne ho avuto una tale impressione, che ne sono ancora stordito. Non ci si crede, no, che un uomo possa morire così. Un martire, un vero martire quel Gorškòv! Che sorte, che amara sorte la sua! La moglie si dispera, pare annientata. La bambina s’è cacciata in un cantuccio. Da loro c’è casa del diavolo: ci sarà una perizia medica... non so dire con precisione. So che mi fanno una gran pena, poveretti. È triste pensare che non si debba sapere né il giorno né l’ora... Si va via così, di punto in bianco, senza un perché...
Vostro
Mi affretto a informarvi, amica mia, che Ratazjaev mi ha procurato del lavoro da un autore. È venuto un tale a portargli un manoscritto enorme: grazie a Dio, il lavoro davvero non mi mancherà. Soltanto, è scarabocchiato così male che non so come farò a decifrarlo. Lavoro urgente, dicono. Si tratta di una materia che mi pare di non capirne un’acca. Si è stabilito un compenso di 40 copechi al foglio. Ve lo scrivo, cara Varvara, perché sappiate che adesso avremo anche qualche guadagno supplementare. Addio, intanto. Mi metto subito al lavoro.
Vostro amico fedele
Signor Makàr carissimo,
sono tre giorni che non vi scrivo; ma se sapeste quanti grattacapi, quante emozioni!
Ieri l’altro si presentò Bykòv. Fedora era fuori. Gli aprii e fui così spaventata a vederlo, che rimasi come pietrificata. Sentii che mi facevo pallida. Entrò, secondo il suo solito, ridendo forte, prese una sedia e si mise a sedere. Ci misi un pezzo a riavermi; alla fine mi rincantucciai in un angolo e presi in mano il mio lavoro. Di lì a poco, smise di ridere. Pare che il mio aspetto gli facesse impressione. Sono così dimagrita in questi ultimi tempi: infossati gli occhi, le guance; un pallore di morte... Non mi riconoscerebbe chi mi ha veduta un anno fa. Lui mi guardò a lungo con grande attenzione, poi tornò a mettersi di buon umore. Disse non so che cosa; non mi ricordo più quel che ho risposto, e lui da capo a ridere. Si trattenne più di un’ora; parlò sempre lui; fece mille domande. Finalmente, nell’accomiatarsi, mi prese per mano e disse (vi riferisco il suo discorso parola per parola): «Signorina Varvara, sia detto fra noi, Anna Fëdorovna, vostra parente e mia intima amica, è una donnaccia (veramente usò un’altra brutta parola). Ha fatto traviare vostra cugina e ha rovinato anche voi. Dal canto mio, in questo secondo caso, mi sono condotto da vero mascalzone: ma non c’è rimedio, sono cose che succedono». E qui, una grande risata. Poi si scusò di non essere un parlatore, e soggiunse che il punto essenziale, quel che occorreva spiegare e che il dovere di galantuomo non gli permetteva di tacere, me l’aveva già dichiarato: si disponeva ora a comunicarmi il resto in brevi parole. E senza aspettare altro, mi sciorinò tutto d’un fiato che domandava la mia mano, che stimava suo obbligo rendermi l’onore, che era ricco, che dopo sposati mi avrebbe condotta nelle sue proprietà, nei suoi poderi, dove voleva andare a caccia di lepri, e che a Pietroburgo non avrebbe mai più messo piede, perché Pietroburgo gli dava sui nervi; che qui, a Pietroburgo, ha un nipote, uno scioperato, al quale ha giurato di non lasciare uno spicciolo, e che appunto per questo, desiderando avere dei legittimi eredi, domandava la mia mano; questo era il motivo principale per cui si voleva accasare. Osservò poi che io vivevo troppo poveramente, che dovevo per forza ammalarmi in una stamberga del genere e che certo ci avrei rimesso la pelle a rimanervi ancora un mese; disse che a Pietroburgo le case sono inabitabili, e finì col domandarmi se avessi bisogno di qualcosa.
Restai così stordita dalla sua proposta, che senza sapere perché mi misi a piangere. Lui credette le mie lacrime effetto di gratitudine, e mi assicurò di avermi sempre stimato una buona ragazza, sensibile, istruita, ma che non si era deciso a quel passo, senza prima informarsi minuziosamente sulla mia condotta. Allora mi chiese di voi: si mostrò al corrente di tutto, vi chiamò un perfetto galantuomo nei confronti del quale non voleva rimanere in debito, e mi chiese se 500 rubli sarebbero stati compenso sufficiente per quanto avevate fatto per me. Gli risposi che i vostri benefici erano superiori a qualunque prezzo, e lui esclamò che queste erano sciocchezze, romanticherie, che io ero ancora giovane e leggevo versi, che i romanzi rovinano le ragazze, che i libri servono solo a guastare la morale e che lui non li poteva soffrire. Mi consigliò di arrivare alla sua età prima di giudicare gli uomini: «Allora soltanto», disse, «avrete imparato a conoscerli». Concluse, pregandomi di riflettere seriamente sulla sua offerta, che gli sarebbe dispiaciuto moltissimo che in un fatto così grave io agissi da sventata, che la leggerezza e la furia rovinano la gioventù inesperta, ma che desiderava ardentemente una mia risposta favorevole; che in caso contrario, purtroppo, si sarebbe visto costretto a sposare una mercantessa di Mosca, visto che aveva giurato di privare dell’eredità quel tal nipote scioperato. Per forza volle lasciare sul mio telaio un biglietto di 500 rubli, per i dolcetti, secondo la sua espressione; disse che in campagna sarei diventata paffuta come una quaglia, e che in casa sua avrei sguazzato nell’abbondanza. Ora intanto aveva un sacco di noie: tutto il giorno era andato in giro per affari, e aveva colto a volo un momento libero per correre da me. Dopo di questo, andò via. Io pensai, ripensai a lungo, mi tormentai a furia di dubbi e di timori, e finalmente mi decisi. Sì, amico mio, lo sposerò, devo accettare la sua offerta. Se c’è uno che possa cancellare la mia vergogna, rendermi il mio nome onorato, salvarmi dalla miseria, dalle privazioni, dalle sventure che mi attendono, questo qualcuno può essere solo lui. Che altro posso aspettarmi dall’avvenire, che altro domandare alla sorte? Fedora ripete tutti i momenti che non bisogna lasciarsi scappare la fortuna, ma che cos’è che si chiama fortuna in un caso come questo? Io, almeno, non vedo altro scampo, amico mio. Che fare? Lavoro, mi rovino la salute, ma non è possibile lavorare sempre. Mettermi a servire? Morirei per un altro verso, senza dire che non converrei a nessuno. Sono di debole costituzione, quindi riuscirò sempre di peso agli estranei. Certo, nemmeno accettando vivrei in paradiso; ma che fare, amico mio, che fare? Sono forse libera di scegliere?
Non vi ho chiesto consiglio. Ho voluto decidere da me. La decisione è irrevocabile, e la comunicherò subito a Bykòv, che sollecita in tutti i modi una risposta definitiva. Mi dice di dover partire, che gli affari non aspettano e che non si può rimandarli per delle inezie. Dio solo sa se potrò essere felice; la mia sorte è nelle Sue mani e la Sua volontà è imperscrutabile, ma io ho deciso. Dicono che Bykòv sia un brav’uomo; mi stimerà; forse anch’io avrò della stima per lui. Che altro aspettarsi dalla nostra unione?
Eccovi al corrente di tutto, amico mio. Non dubito che capirete quanto sono triste. Non cercate di dissuadermi. Ogni vostro sforzo andrebbe a vuoto. Pesate nel vostro cuore tutti i motivi che mi spingono a questo passo. Sulle prime avevo un gran batticuore, ora sono più tranquilla. Cosa mi attende? Lo ignoro. Sarà quel che sarà, come Dio vuole.
È venuto Bykòv. Lascio di scrivere. Avevo tante altre cose da dirvi. Ma Bykòv è già qui.
Cara Vàren’ka mia,
mi affretto a rispondervi, figliola mia cara; mi affretto, figlia mia, a farvi sapere che sono sbalordito. È una cosa... non so come dire... Ieri abbiamo sotterrato Gorškòv. Sì, Varvara, non c’è dubbio; è certo, dico, che Bykòv ha agito da galantuomo; soltanto, vedete, voi avete subito acconsentito. E va bene: tutto è volontà di Dio, non dico di no, così è, così dev’essere, voglio dire che in tutto questo la volontà di Dio ci dev’essere stata; e la Provvidenza dell’Altissimo, e la grazia, sono imperscrutabili, e anche, beninteso, il destino, che è tutt’uno con queste cose. Fedora, anche lei, si rallegra della vostra fortuna. Adesso sarete felice, adesso nuoterete nell’abbondanza, figlia mia adorata; soltanto, vedete, Vàren’ka, perché, dico io, tanta furia?... Capisco, gli affari, il signor Bykòv ha un monte di affari... Chi non ne ha di affari?... si capisce che tutti ne hanno, e anche lui ne può avere... L’ho visto nel momento che usciva da voi. Bell’uomo, bella figura; forse forse, un po’ troppo vistoso. Ma questo è un altro paio di maniche; bello o no, poco importa; il fatto è che non mi pare di essere più in me, capite. Come faremo ora a scriverci? Io poi, io specialmente, come farò a rimanere solo? Io, figliola mia, peso ogni cosa, tutto peso, come voi mi avete scritto nella vostra lettera; peso tutto questo nel mio cuore, peso tutti questi motivi.
Finivo appunto di copiare il ventesimo foglio del manoscritto ed ecco che mi cade addosso questa tegola! Insomma voi ve ne andate, voi partite, e occorrerà, si capisce, far varie spese, stivaletti, vestiti, che so... Io conosco per l’appunto un certo negozio in via Goròchovaja vi ricordate? ve l’ho descritto una volta... Ma no, ma no! Ma come mai? ma perché? È impossibile partire così di punto in bianco, assolutamente impossibile, impossibilissimo. È indispensabile fare grandi acquisti, non potete fare a meno di un corredo. E poi, un tempo da cani; vedete un po’ come piove a catinelle, e che pioggia umida, e che... e poi avrete freddo, piglierete un gran freddo, povera creatura mia. E dire che un estraneo vi faceva paura, e intanto ecco che partite. E io qui con chi resto? Sì, Fedora dice che vi aspetta una gran fortuna... ma Fedora è una donna sventata, e poi è malvagia, vuole solo vedermi morto. Andrete ai vespri stasera? Verrei, magari per vedervi. Certo, certissimo, figlia mia: siete una ragazza istruita, virtuosa, sensibile; dunque lasciategli per il suo meglio sposare la mercantessa! Che ve ne pare, eh? Meglio per lui la mercantessa.
Passerò da voi, Varvara, appena scuro, a trattenermi un’oretta. Le giornate sono corte, si fa presto sera. In due salti sono da voi. Stasera senza meno: un’oretta e non più. Adesso voi aspettate Bykòv. Come lo vedo uscire, subito io... Aspettatemi, Varvara, vengo senz’altro.
Caro signor Makàr, amico mio,
il signor Bykòv dice che mi ci vogliono assolutamente tre dozzine di camicie di tela d’Olanda. Bisogna dunque trovare al più presto delle cucitrici per due dozzine; noi abbiamo così poco tempo. Il signor Bykòv si arrabbia, dice che con questi cenci non la si finisce mai. Fra cinque giorni ci sposiamo, e la mattina dopo si parte. Il signor Bykòv fa premura, dice che non bisogna perdere tanto tempo per quattro sciocchezze. Io non ne posso più dalla fatica, mi reggo appena in piedi. Cento cose da sbrigare; davvero preferirei che non se ne facesse niente. Di più, i pizzi e i merletti non bastano: bisogna comprarne, perché il signor Bykòv non vuole che sua moglie faccia la figura di una serva; dice che io devo assolutamente dare uno schiaffo a tutte le signore del paese. Sono sue parole precise. Fatemi dunque il piacere, signor Makàr, andate subito da madame Chiffon, nella Goròchovaja, e pregatela prima di tutto di mandarmi delle cucitrici, e poi che faccia il possibile per venir proprio lei di persona. Oggi non mi sento bene. La nuova casa è fredda e c’è un disordine incredibile. La zia del signor Bykòv respira appena, tanto è vecchia. Ho paura che possa morire prima che si parta, ma il signor Bykòv dice che non è niente, che si ripiglierà. Che confusione, che inferno! Il signor Bykòv non abita con noi, e perciò la servitù scappa di qua e di là, che non c’è verso di trovarne uno a posto. A volte ci resta solo Fedora. Il cameriere del signor Bykòv, una specie di maestro di casa, sono già tre giorni che è scomparso. Il signor Bykòv viene tutte le mattine, va sempre su tutte le furie e ieri ha perfino bastonato l’amministratore: però ha avuto delle seccature con la polizia. Non ho nessuno per mandarvi a mano questa lettera. Vi scrivo per la posta. A proposito, mi scordavo il meglio. Dite a madame Chiffon che senza meno cambiasse i merletti tenendo presente il figurino di ieri e che venga subito per mostrarmi le altre novità. Ditele pure che ho cambiato idea per il canzu27 bisogna che sia a piccolo punto. Ancora: le cifre sui fazzoletti vanno ricamate a tambùr28, non già a ricamo piatto: non vi scordate, a tambùr. Anche un’altra cosa mi usciva di mente: raccomandatele, per amor di Dio, che le foglie sulla mantellina siano in rilievo, le spine e i pistelli a cordonné29, e il colletto orlato di pizzo o anche di un largo falpalà. Mi raccomando, signor Makàr!
Vostra
P.S. Mi rincresce tanto tanto di importunarvi con le mie commissioni. L’altroieri tutta la mattina non avete fatto che correre. Ma che volete! Qui in casa non c’è ombra di ordine, e io sono malata. Sicché, signor Makàr, non ve la prendete con me. Che pena, quanti fastidi! E l’avvenire, mio buono e caro amico? Ah, ho paura di guardare al domani! Ho sempre dei brutti presentimenti; mi par di vivere in una nebbia.
P.S. Per amor di Dio, amico mio, non vi scordate niente di quanto vi ho detto. Ho sempre paura che abbiate a sbagliare. Tenete bene a mente, a tambùr, non a mano.
Gentilissima signorina Varvara,
tutte le vostre commissioni sono state eseguite a puntino. Madame Chiffon ci aveva già pensato lei al tambùr; così, dice, è più elegante, mi pare... non so, non ho afferrato bene l’idea. E poi, voi mi avete scritto del falpalà, e anche del falpalà ha parlato. Soltanto, ve lo confesso, quel che ha detto a proposito del falpalà m’è uscito di mente. Ricordo solo che non la finiva più: parla come una carrucola quella donna! Aspettate... se non mi sbaglio... Basta, ve lo dirà lei stessa. Io non ho più fiato in corpo. Oggi non sono andato in ufficio. Voi però, figliola mia, avete torto a disperarvi. Per farvi contenta, sono pronto a girare tutti i magazzini dal primo all’ultimo. Voi scrivete che l’avvenire vi fa paura. Ma oggi alle sette precise saprete tutto. Madame Chiffon verrà da voi di persona. Dunque non vi disperate; state di buon animo, tutto andrà per il meglio, ve l’assicuro io. In quanto al falpalà... l’ho qui in punta di lingua... ma no, niente... maledetto falpalà! Verrei a trovarvi, verrei di volata, senza perdere un minuto; verrei di sicuro, vi pare! Sono già passato due volte davanti a casa vostra. Ma sempre quel Bykòv... cioè, voglio dire, il signor Bykòv, non si sa mai... Ebbene, che importa, che fa...
Caro signor Makàr,
per amor di Dio, correte subito dal gioielliere. Ditegli che gli orecchini di perle e smeraldi li lasci stare. Non servono più. Il signor Bykòv dice che costano troppo, che sono salati. È sempre in collera; dice che gli abbiamo fatto vedere il fondo delle tasche, che lo svaligiamo; e ieri gli è perfino scappato di bocca che se avesse saputo prima di tutte queste spese, non avrebbe fatto lo sproposito... Dice che appena sposati, via, si parte, che non serve fare inviti, che non mi aspetti di sgonnellare e ballonzolare, che si tratta di ben altro che di far baldoria. È così che parla! E lo sa Dio, se a tutto questo io ci penso. È stato lui stesso, il signor Bykòv che ha ordinato ogni cosa. Io non oso rispondergli mezza parola: si scalda per niente. Che ne sarà di me?
Carissima Varvara, figlia mia,
io... cioè no, il gioielliere dice che va tutto bene. Volevo dirvi prima di tutto che sto alquanto indisposto e non posso lasciare il letto. Ci mancava quest’altra! proprio adesso che c’è bisogno di muoversi e di darsi da fare eccoti il catarro, che il diavolo se lo porti! Sappiate intanto, che per colmo di disgrazia Sua Eccellenza è stato di una severità terribile, ha fatto una lavata di capo a Emel’jàn Ivànovič, ha gridato fino a perdere la voce, pover’uomo. Vi informo di tutto, come vedete. Volevo anche scrivervi di altro, ma temo di disturbarvi. Io, voi lo sapete, sono un uomo semplice, senza istruzione, scrivo come viene viene, sicché forse potreste, non so... Ma che importa, pazienza!...
Vostro
Cara, cara Varvara,
ho visto Fedora oggi. Mi ha detto che domani vi sposate e domani l’altro partite, e che il signor Bykòv ha già fissato i cavalli. Riguardo a Sua Eccellenza vi ho già informata. Inoltre, ho verificato le fatture del magazzino della Goròchovaja. Tutto in regola, ma caro assai, questo sì. Non capisco però perché il signor Bykòv se la piglia con voi... Via, siate felice, figlia mia! Io sono contento; sì, sarò contento, se voi sarete felice. Sarei venuto in chiesa, ma il guaio è che mi duole la schiena. Sempre a proposito delle lettere: chi si incaricherà adesso di portarle? Sì, siete stata generosa con Fedora: è stata una buona azione, una buonissima azione. Dico che avete fatto benissimo. E per ogni buona azione il Signore vi benedirà. Le buone azioni non restano senza premio, e la virtù presto o tardi è sempre coronata dalla giustizia di Dio. Vorrei scrivervi tante cose: ogni ora, ogni minuto, scriverei sempre sempre, senza stancarmi mai, colombella mia. Ho ancora qui il vostro libretto, I racconti di Belkin; ma voi, ve ne prego, non chiedetemelo, fatemene un regalo. Non è che io abbia una gran voglia di leggerlo. Ma, sapete, l’inverno si avvicina, le serate si fanno lunghe; sarà una malinconia, e un po’ di lettura non guasta. Io passo da questo alloggio qui a quello vostro di prima. Lo affitterò da Fedora. Per nulla al mondo mi staccherò da questa brava donna; brava e amante della fatica. Ieri ho visitato minutamente la vostra camera vuota. Il telaio è sempre lì, allo stesso posto, nell’angolo, e il ricamo pure. Ho guardato ben bene il ricamo, e poi un imbroglio di fili, di scampoli.., c’era anche della lana, che avevate cominciato ad avvolgere a una mia letterina. Nel tavolino da lavoro ho trovato un mezzo foglietto, con queste sole parole: Caro signor Makàr, mi affretto... e basta. Si vede che qualcuno è venuto a disturbarvi nel punto più interessante. Nell’altro angolo, dietro il paravento, c’è il vostro letto... Cara, cara! Ebbene, addio, buon viaggio. Scrivetemi, per amor di Dio, rispondetemi qualcosa il più presto che potete.
Amico mio inapprezzabile,
tutto è compiuto! La mia sorte è decisa; non so quale potrà essere, ma sono rassegnata alla volontà di Dio. Domani partiamo. Vi dico addio per l’ultima volta, amico mio, mio benefattore! Non vi affliggete per me, vivete felice, ricordatevi di chi vi vuol bene e che Dio vi mandi ogni grazia. Io mi ricorderò sempre di voi, e pregherò per voi. Anche quel tempo è passato! Nella nuova vita porto con me ben poche memorie piacevoli; tanto più prezioso mi sarà il vostro ricordo, tanto più caro mi sarete voi stesso. Voi siete l’unico amico che ho; voi solo, qui, mi volevate del bene. Tutto vedevo, tutto, e non ho mai ignorato quanto affetto nutrivate per me. Un mio semplice sorriso, una sola riga di lettera bastavano a farvi felice. Adesso bisognerà che facciate a meno di me. Come farete a rimanere qui, solo? e chi avrà cura di voi, amico mio buono, unico, impareggiabile? Vi lascio il libro, il telaio, il brano di lettera; quando guarderete quelle due righe interrotte, leggetene col pensiero il seguito, leggetevi tutto quanto vorreste che io vi avessi detto o scritto, tutto quanto vi avrei potuto scrivere...
Quante cose avrei da scrivervi adesso! Ricordatevi della vostra povera Varvara, che vi voleva tanto bene. Tutte le vostre lettere sono rimaste nel canterano di Fedora, nel primo cassetto. Voi scrivete di essere indisposto; e proprio oggi il signor Bykòv non vuole che io esca di casa. Vi scriverò, amico mio, ve lo prometto; ma non si sa mai quel che può accadere. Così diciamoci ora addio per sempre, amico mio carissimo sopra tutti, per sempre!... Con che trasporto vi abbraccerei ora. Addio, amico mio, addio, addio. Vi auguro salute e felicità. Nelle mie preghiere vi rammenterò sempre. Come mi sento triste, sconsolata... Il signor Bykòv mi chiama...
Affezionatissima vostra
P.S. Se sapeste come l’anima mi trabocca di lacrime... Il pianto mi stringe la gola, mi lacera il petto. Che tristezza, Dio mio, che tristezza! Non vi scordate, ve ne prego, della vostra povera Vàren’ka.
Vàren’ka, figlia mia, anima mia cara! Dunque vi portano via, dunque partite. Sì, meglio farebbero adesso a strapparmi il cuore dal petto, che separarmi da voi. Ma come! Voi piangete, e intanto partite... Eccola qui la vostra lettera; è tutta bagnata di lacrime. Vuol dire che partite a malincuore; vuol dire che vi portano via per forza; vuol dire che avete pietà di me; vuol dire che mi volete bene. Ma con chi starete adesso? con chi, domando io? Che malinconia sarà la vostra, che noia, che freddo! Vi sentirete struggere il cuore, ve lo sentirete lacerare. Laggiù morirete; laggiù vi scaveranno la fossa; laggiù non ci sarà un cane che vi pianga. Il signor Bykòv seguiterà a cacciare le lepri... Ah, figlia, figlia mia! Ma come vi è venuto in testa? come avete potuto compiere questo passo? Che avete fatto, Dio mio, che avete fatto! Perché volete per forza rovinarvi? Vi faranno martire, vi ridurranno agli estremi, vi uccideranno. Voi, figliola mia, siete fragile come una piuma. E dov’ero io? dove avevo gli occhi? Vedo che una povera bambina si monta la testa, farnetica, si butta alla cieca... E che mi costava... Signornò! da quel vero allocco che sono, non penso, non guardo, non mi curo, come se non fosse cosa mia, e corro per giunta dietro un falpalà!... No, Varvara, no; mi alzerò: domani forse sarò guarito, e mi alzerò senza meno... Io, sentite, mi getterò sotto le ruote; no, non vi lascerò partire!... Perché succede, per ordine di chi succede questo?... Io partirò con voi; correrò dietro la vostra carrozza, correrò come un pazzo, fino a perdere il fiato, fino a crepare sulla strada. Ma sapete almeno in che paese andate, lo sapete? Voi forse non lo sapete. Ebbene, domandatelo a me! Laggiù non troverete che la steppa, la steppa nuda e cruda, nuda come questa palma di mano. E chi ci sta, lo sapete? Donnette ignoranti; contadinacci rozzi e beoni. Laggiù, di questa stagione, cadono le foglie dagli alberi, e poi pioggia, gelo, e voi... e voi ci andate! Sì, il signor Bykòv ha le sue occupazioni, lui; lui se la farà con le lepri; e voi? Volete diventare proprietaria terriera, eh? Ma, guardatevi, figliola mia! rassomigliate davvero a una proprietaria?... Ma vi pare, Varvara, che si possa ammettere una mostruosità come questa? E a chi scriverò io? Ma riflettete un po’; domandate a voi stessa: a chi Makàr scriverà le sue lettere? chi chiamerò più col nome affettuoso di figlia mia? E dove vi troverò, dove? Io morirò, Varvara, morirò senz’altro: non reggerò al colpo! Io vi volevo bene come alla vista degli occhi, come a una figlia carnale. E solo per voi vivevo, unicamente per voi. Io lavoravo, scarabocchiavo, andavo attorno, passeggiavo, mettevo su carta le mie impressioni in forma di lettere amichevoli, solo perché vi sapevo qui, dirimpetto, vicino. Voi forse questo non lo sapevate, eppure era proprio così. Ma sentite, piccola mia, giudicate voi stessa, come può mai essere che voi mi abbandoniate? Ma no, Varvara, è impossibile, semplicemente e assolutamente impossibile. Guardate: piove, e voi così debole, un malanno si fa presto a pigliarlo... La vostra carrozza diventerà una spugna, si capisce. Passata appena la barriera, si fracasserà, si farà in mille pezzi, giurateci. Qui a Pietroburgo non le sanno costruire; le fanno di cartapesta. Io li conosco tutti questi carrozzai; ti gettano un po’ di polvere negli occhi, ti arrangiano un gingillo, niente di solido. Ve l’assicuro, niente di solido. Io mi getterò ai piedi del signor Bykòv, gli esporrò tutto, gli dimostrerò tutto. E voi pure, fategli voi pure capire la ragione. Ditegli che di qua non vi muovete, ditegli che non potete partire!... Ah, perché non s’è sposato la mercantessa di Mosca! Avrebbe potuto sposare lei, non vi pare? La mercantessa gli si confaceva meglio, assai meglio; e lo so io perché. E io vi terrei qui con me... Ma che è per voi, insomma, questo Bykòv? Com’è che di colpo vi è divenuto tanto caro? Forse sarà per questo, che vi compra sempre dei falpalà, forse per questo, eh? Ma che è in fin dei conti un falpalà? a che serve un falpalà? È una sciocchezza sì o no? Qui si tratta della vita, e il falpalà non è che un cencio, uno straccio, nient’altro che un falpalà. E io pure, vedete, appena riscuoto lo stipendio, vi compro tutti i falpalà che volete; ve li compro, per quanto è vero Dio; conosco io un certo negozietto, aspettate solo che pigli lo stipendio, e vedrete, Vàren’ka... Ah, Dio; Dio! Ve ne andate senza rimedio nella steppa col signor Bykòv, proprio sul serio! Ah, figliola mia!... No, scrivetemi un’altra volta e quando sarete via, anche di là scrivetemi qualche lettera, altrimenti come si fa, questa qui sarebbe l’ultima, e non può essere, non può essere che questa sia l’ultima lettera! Ma come, così, d’un tratto, l’ultima... Ma no, no; io vi scriverò, voi mi scriverete... Senza dire che adesso il mio stile si va formando... Ah, Vàren’ka, ma che importa lo stile! Adesso, per esempio, non so quello che scrivo, proprio non lo so, non so niente, non rileggo, non correggo lo stile, scrivo così per scrivere, solo per scrivervi più a lungo... ancora un po’... figlia mia, amica mia, piccola, piccina mia cara...
- ↑ Un rublo d’argento vale tre quarti di carta. Un rublo d’oro vale uno d’argento e tre copechi.
- ↑ Teresa e Faldoni è un romanzo di Léonard.
- ↑ Allude al cimitero.
- ↑ Rendez-vous trascritto alla russa.
- ↑ Il testo di riferimento riporta P.-J., che abbiamo sostituito con P. in quanto la j che segue non indica, nell'originale russo, un secondo nome del principe, come erroneamente potrebbe sembrare dalla traslitterazione italiana, ma è la desinenza del cognome al nominativo. [nota per l'edizione elettronica Manuzio]
- ↑ ) Il testo di riferimento riporta Lomond. Abbiamo ripristinato la corretta grafia francese. [nota per l'edizione elettronica Manuzio]
- ↑ L’isola di San Basilio, altro quartiere di Pietroburgo.
- ↑ Il Gostinyj Dvor è un gran caseggiato bianco sulla Nevskij Pròspèkt, a due piani, con archi e gallerie, un emporio dove si trovano magazzini di drappi, di cartolerie, di libri, di mode, di armi, di curiosità, ecc.
- ↑ I brani di Ratazjaev che seguono sono la parodia di alcuni scrittori del tempo, autori di famose «romanticherie», come Marlinskij e Polevòj.
- ↑ È la tenda di pelli delle popolazioni nomadi della Siberia.
- ↑ ) Il testo di riferimento riporta la traslitterazione inesatta Irtys. [nota per l'edizione elettronica Manuzio]
- ↑ Prolifico e popolare scrittore francese, autore di romanzi di ambiente mondano, ritenuti, all’epoca, scabrosi.
- ↑ Famosa raccolta di racconti di Puškin.
- ↑ ) Nel testo di riferimento questa lettera è datata erroneamente 28 giugno. Abbiamo corretto sulla base dell'originale russo. [nota per l'edizione elettronica Manuzio]
- ↑ Opere, rispettivamente, di A. Galič, Ducrais du Meuvilles [Probabilmente Ducray-Duminil (N.d.r.)], F. Schiller.
- ↑ È uno dei Racconti di Belkin di Puškin.
- ↑ ) Nel testo di riferimento questa lettera non è datata. Abbiamo inserito la data dell'originale russo. [nota per l'edizione elettronica Manuzio]
- ↑ Il celebre racconto di Gogol’ incluso nei Racconti di Pietroburgo.
- ↑ ) Il testo di riferimento riporta sia la traslitterazione con accento grafico che senza. Abbiamo uniformato accentando tutte le occorrenze.
- ↑ Sta per il francese sauté-papillote: bistecca fritta e ripassata al cartoccio.
- ↑ Specie di polentina, il più delle volte di grano o di segala.
- ↑ ) Il testo di riferimento riporta la traslitterazione inesatta Stefàn. [nota per l'edizione elettronica Manuzio]
- ↑ Storpiatura dal francese conquêtes (conquiste, ovviamente galanti).
- ↑ Lovelace è il nome del libertino nel romanzo Clarissa Harlowe di Samuel Richardson.
- ↑ Pietroburgo conta più di cento ponti, che collegano la parte continentale della città con le sue isole e le isole tra di loro. Uno di questi ponti è gettato sulla Fontanka, confluente della Neva.
- ↑ Ivan lo scemo è il personaggio di una fiaba popolare russa (lo sciocco favorito dalla sorte: tema comune a tutta la favolistica). Comunque sta anche per «russo» in generale.
- ↑ Dal francese canezou: specie di camicetta senza maniche.
- ↑ Sta per tambour, un tipo di ricamo.
- ↑ Altro tipo di ricamo.