Utente:Luca Bergamasco/sandbox/Emanuele Filiberto a Pinerolo
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Il signor Giovanni Battista Lombriasco, notaro di Pinerolo, buon cristianaccio, scarso di clienti e di fortuna, ma assestato nei suoi affari, onesto fino alla dabbenaggine, patriotta di cuore, infarinato di latino, e ancora forte e florido benché scendesse già dalla parte peggiore della sessantina, era tutto glorioso quando si poteva mostrare sul terrazzino del suo piccolo quartiere di piazza San Donato in compagnia di Don Enrique de Benavides, nobile catalano, suo cliente. E non gli passava nemmeno per il capo che i maligni potessero attribuirgli il matto proposito di convertire il cliente in genero. — " Tanto non lo accecaua la uanità di padre che a tale sposalitio potesse riuolgere sue speranze." — Così dice (e io ci credo) uno scartafaccio giallognolo, pieno di raspatura di gallina, col quale un nipote del buon notaro intese di mandare alla posterità un "caso molto mirabile" seguito nella sua famiglia; scartafaccio che dormì per più di tre secoli, sotto molte altre carte mal decifrabili, in mezzo agli atti consolari della città di Pinerolo. Il nobile Enrique de Benavides, venuto qui da Gerona per la questione intricata d'una eredità lasciatagli da un parente di sua madre, colonnello francese, non si capisce se Mortier o Mornier, del presidio di Pinerolo, aveva affidato l'affare proprio al notaro Lombriasco per la riputazione d'uomo integerrimo di cui godeva; ma avrebbe potuto attestare alla città intera che un mese e più dopo il primo abboccamento, e quando già s'era stabilita fra loro una certa dimestichezza, il delicato notaro non gli aveva ancora fatto parola della sua famiglia. La relazione era nata per puro accidente. Un giorno che il Benavides stava ad aspettare nello studio notarile, la señorita Evelina, certa di trovarci suo padre solo, era entrata festosamente, d'un salto, tenendo spiegata davanti a sé una stampa che rappresentava la battaglia di San Quintino, e che le era arrivata allora per le poste, desiderata da lungo tempo. Visto appena quel signore, aveva fatto l'atto di ritirarsi, vergognandosi e chiedendo scusa; ma era rimasta come inchiodata là dalla maraviglia e dalla gioia quando il signore catalano letto di sfuggita il titolo vistoso della stampa aveva detto in tuono di gentile rispetto, e con molta semplicità: — Si occupa della battaglia di San Quintino, señorita? Io ci sono stato.
Così il Benavides aveva fatto conoscenza della famiglia: e da quel giorno, ogni volta che usciva dallo studio del notaro, attraversava il pianerottolo per salutare la signora e la signorina; con le quali anche s'intratteneva sovente. La signora, già tutta grigia, sempre malata, non apriva bocca che di rado, con un sorriso triste, un poco vergognata di non saper parlare l'italiano, che il Benavides parlava assai bene, benché "prononziando" dice il manoscritto "al modo delli spagnioli." La signorina, invece, interrogava continuamente, e l'oggetto delle sue interrogazioni era sempre il medesimo.
Come ogni piemontese d'allora, al quale non mancasse affatto il senso dell'alterezza e dell'amor di patria, essa aveva un'affettuosa, profonda, appassionata ammirazione per Emanuele Filiberto. Nata sotto la dominazione straniera, della quale aveva potuto vedere fin dall'infanzia gli effetti miserevoli; educata da suo padre, un po' corto ma generoso d'animo, alla pietà e all'amore del suo paese oppresso, smembrato, impoverito da spagnuoli, da svizzeri e da francesi; facile per gentilezza innata ai grandi entusiasmi, aveva cominciato a venerare il duca di Savoia all'età di dieci anni, quando aveva visto la sua città fremere di gioia all'annunzio sfolgorante della vittoria di San Quintino; e la sua venerazione giovanile per quel principe glorioso che dai confini di Picardia faceva balenare come una speranza la sua spada vincitrice alla patria lontana, le era venuta crescendo nel cuore, coll'ingigantire di quella gloria, fin che oramai essa viveva tutta di quell'affetto, e della fede di veder entrare un giorno nella sua città rifatta libera e piemontese il "grande" duca di Savoia. Suo padre si ricordava d'averlo visto a Nizza nel 1535, un anno prima della caduta di Pinerolo, in compagnia di Aimone di Ginevra, barone di Lullins, suo precettore, quando non aveva che sette anni, e lo chiamavano il cardinalino, perché destinato al sacerdozio; e lo descriveva: piccolo, gracile, d'aspetto pensieroso e nobile. Ma non poteva dare null'altro in pasto alla curiosità ardente della figliuola, smaniosa di ragguagli minuti intorno al capitano, al sovrano e all'uomo; e però essa affollava di domande, timide, ma incalzanti, lo straniero benvenuto, facendosi rimproverar sovente da sua madre, alla quale pareva poco conveniente a una ragazza e poco rispettosa per un nobile quella perpetua interrogazione. No, a lei non pareva possibile che quel signore, col quale parlava, avesse proprio veduto e inteso parlare Emanuele Filiberto a pochi passi di distanza, su quel campo di battaglia famoso, dov'egli aveva tenute in pugno e decise le sorti della Spagna e della Francia, pigliando in una sola formidabile retata tutto il possente esercito del conestabile di Montmorency. Era nondimeno vero, grazie a Dio; il Benavides, ufficiale a diciott'anni, aveva fatto parte del seguito del barone di Brederode, morto a San Quintino; era stato testimonio dell'atto superbamente ardito del Duca, quando, la mattina del dieci agosto, cacciatesi dentro alla corazza, senza leggerle, le relazioni dei generali che gli stavano attorno, tutti concordi a consigliarlo di non attaccare battaglia, aveva gridato ai trombettieri, alzando la spada: — Sonate l'assalto! — l'aveva visto correre in aiuto, lanciando il cavallo a pancia a terra, ai conti di Egmont e di Pandeveaux, che stavan per essere soverchiati; avrebbe potuto disegnare pezzo per pezzo la sua armatura, e sapeva imitare benissimo la sua pronunzia spagnola, che risentiva più della francese che dell'italiana. Ma dunque, com'era proprio, a ventinove anni, il duca Emanuele Filiberto? Come si moveva? Come guardava? Che voce aveva? E il Benavides doveva ridire per la decima volta le medesime cose. Non alto di statura, saldo e bello delle membra, una testa scultoria, i capelli biondi un po' increspati, due piccoli occhi celesti acutissimi e scintillanti come due punte di spade, la barba folta e corta, il petto largo e sporgente, le braccia atletiche, le gambe leggerissimamente arcate, la voce, il passo, il gesto d'un uomo nato per comandare e per combattere, e per esser più temuto che amato; e pure una grazia meravigliosa d'atteggiamenti e di mosse. Nessuno aveva mai visto sui campi di battaglia un cavaliere più principescamente soldato di lui. Desto e armato avanti all'alba, infaticabile, abborrente dall'immobilità come da una tortura, parchissimo di parole, irremovibile nei suoi propositi, frenava gl'impeti di collera mordendosi a sangue le labbra, dava con un'occhiata o con una parola delle lodi che inebbriavano l'anima, degli ordini che mettevano la furia nelle vene e dei rimproveri che facevano tremare le ossa. Ed era terribile, ma giusto, e rivelava spesso in atti secreti di clemenza la bontà che non si lasciava mai uscire dalle labbra. Chi gli leggeva nell'animo lo amava, timidamente ma con devozione ostinata. Era colto: conosceva il tedesco e il fiammingo; parlava spagnuolo, italiano e francese; sapeva di latino, studiava le istorie, s'occupava di scienze. Gli eserciti che gli avevan posto il nome di "testa di ferro" lo veneravano pure come un sapiente. Gli spagnuoli lo chiamavano el sabio. — O renderà l'anima sopra un campo di battaglia, o rialzerà la monarchia dei suoi padri — dicevano. Fin da quando sotto le mura di Ternaux aveva con una stretta della sua implacabile mano ridisciplinato in un giorno l'esercito tumultuoso di Carlo V, tutti avevan presentito vagamente ch'egli era mandato da Dio a compiere grandi cose. E quando passava per i campi a cavallo, in mezzo a quei baldanzosi reggimenti spagnuoli e fiamminghi, non prorompevano in acclamazioni e in evviva ch'egli non amava, ma gli facevano intorno un vasto spazio e un grande silenzio, in cui si sentiva il suono della sua armatura e il respiro del suo cavallo, e mille sguardi attoniti accompagnavano il suo pennacchio bianco fin che spariva in mezzo alle tende lontane.
— Un nobile principe, verdaderamente, concludeva il Benavides. — Se la Spagna deve benedirlo, il Piemonte lo può adorare. — E la signorina stava a sentire, immobile, sorridendo per nascondere la commozione, e stropicciando con le dita la borsetta e le forbici che le pendevano dalla cinturina di cuoio; e la sera, quand'era sola nella sua cameretta, alzava il lume davanti a un piccolo ritratto a stampa del duca, e gli diceva ingenuamente, con voce calda e tremola, quello che le dettava l'anima. — Tu ci renderai alla patria, Emanuele Filiberto, non è vero? Tu ti farai restituire la tua città fedele, che non t'ha mai visto, ma che t'ha sempre amato e invocato! Tu ci pensi a noi, tu ci pensasti sempre, tu la vuoi a qualunque prezzo, e la ripiglierai con la spada, se occorre, la tua Pinerolo, non è vero? mio valoroso, mio nobile, mio superbo principe, gloria del nostro sangue e speranza del nostro paese! — Ed era così bella in quell'atto, stretta nella sua veste di lana oscura, con la sua gorgierina di mussola che le s'alzava a ventaglio dietro la nuca, col viso un po' inclinato sopra una spalla, e cosi grande e cosi bionda, che se il duca di Savoia l'avesse vista, avrebbe forse proposto a Margherita di Valois una nuova damigella d'onore.
Quella sua adorazione per Emanuele Filiberto era il tormento di un suo cugino, Antonio Lombriasco, che faceva le pratiche di notaro nello studio del padre, facendo nello stesso tempo, e con non maggiore profitto, l'occhio pio alla figliola. Il nipote cronista si piglia molto spasso di lui, celiando un poco pesantemente, alla maniera dei novellisti del suo tempo. Lo definisce: "giouine di grosso intendimento e di picolo e poerile animo" soggiungendo poco dopo "di rideuole aspetto." Pare che fosse un mezz'uomo, stentito e vanesio, con un gran naso rincagnato. Persuaso che il duca di Savoia fosse la sola cagione per la quale sua cugina rifiutava come un omaggio molesto il suo giovane cuore notarile, egli aveva preso a odiarlo come un rivale e come un nemico. Quel nome di Emanuele Filiberto, ogni volta che l'udiva pronunciare, gli metteva un bruciore intollerabile alla bocca dello stomaco, e San Quintino era per lui il più infausto santo del calendario. Da principio, per gratificarsi la signorina, aveva finto anche lui una profonda ammirazione per il Duca, e provato a rincarare le lodi ogni volta che glie le sentiva intonare; ma lo faceva di così mala grazia, con una voce così ingrata, che invece di entrarle nel cuore con quell'artifìcio, s'era fatto pigliare in uggia peggio di prima. E allora aveva mutato registro; s'era ingegnato per un pezzo di scalzare e di abbattere il suo rivale rodendo a poco a poco col dente della critica la sua grandezza e la sua gloria. — In fin dei conti, la battaglia di San Quintino l'aveva vinta con un esercito spagnuolo; la vittoria di Gravelines era principale merito del conte di Egmont; il Piemonte si trovava sempre in pessime acque; Asti e Santhià erano ancora in mano degli spagnuoli; il "grande" Duca non aveva né fatto trionfare le sue ragioni sopra Ginevra, né ritolto alla Francia Pinerolo, Savigliano e Perosa; era certamente un principe "considerevole" ma non si poteva chiamare ancora "un grand'uomo"; bisognava aspettare dell'altro. — Ma la signorina lo rimbeccava terribilmente. — Tacete! — gli gridava coi denti stretti, tutta vermiglia d'ira, facendo sibilare col suono d'una lama mulinata il suo rapido e vigoroso dialetto subalpino — è la più insensata, la più iniqua delle ingratitudini la vostra. Fin da ragazzo egli s'è consacrato tutto alla sua patria; egli è andato in esilio per noi; egli ha ereditato un paese in pezzi e in brandelli, e ne ha fatto uno Stato; è lui che ha riscattato Torino, Chieri, Chivasso, Villanova, la Savoia, le Provincie del Genevese e del Chiablese; è lui che ha fondato l'esercito, lui che ha rialzato le fortezze, lui che ha costrutte le galee che vinsero alle Curzolari, lui che ha riordinato gli statuti, ristorato l'erario, rianimati gli studi, rilevata la dignità nazionale e riacceso l'amor di patria.... scimunito. — L'ultima parola era piuttosto pensata che detta; ma il povero cugino che l'indovinava, ne rimaneva fulminato. E allora, per qualche giorno, tentava un'altra via, la cosa più ridicola di questo mondo, una certa imitazione d'ammiratore, o piuttosto uno scimmiottamento di certe abitudini e qualità esteriori del Duca: si levava presto, andava a giocare alla palla sui bastioni per fortificarsi le membra, sdegnava di aver qualsiasi riguardo per la salute, ruminava dei grandi pensieri, e parlava a monosillabi. E per un po' di tempo l'esperimento non riusciva male. Ma poi, un giorno, un dialogo di questa specie lo rovinava. La signorina domandava: — In che stato sono le strade? — Egli rispondeva: — Fango. — Ma pare che il tempo si rimetta? — Pare. — Potremo andar domani all'Abbadia? — Forse. — Credete che ci sarà molta gente? — Credo. — Una cordiale risata della cugina lo avvertiva spietatamente che il suo gioco era scoperto, e gli riattizzava in cuore un odio rabbioso contro la testa di ferro. E l'aveva trovato, finalmente, il lato vulnerabile del Duca e della ragazza: censurava il Duca come marito, accennava vagamente alle sue amanti, una signora di Vercelli, una Doria, una Beatrice Langosco; e diceva di saperne assai più che non ne sapeva. A quelle uscite, la signorina alzava le spalle, ma corrugando la fronte e chinando il capo, e rispondeva: — Questo riguarda la Duchessa... se è vero.... — Ma le rimaneva una punta nel cuore, e non si tornava a rasserenare che riudendo la voce del Benavides, il quale le ripresentava l'eroe savoiardo nella luce pura della sua gloria.
Ma non era possibile che una signorina piemontese appassionata per Emanuele Filiberto udisse parlar lungo tempo del suo idolo un bel gentiluomo catalano di trentacinque anni, senza che le nascesse nel cuore, come un rampollo dell'antica passione, una nuova simpatia. Il Benavides aveva perduto da pochi mesi la madre che adorava. La sua tristezza, aggiunta alla naturale gravità catalana; il pallore marmoreo del suo viso regolarissimo, reso anche più pallido da una capigliatura d'un nero orientale, e da una barba poderosa che gli saliva a metà delle guance e gl'invadeva il collo e le tempie; la dignità gentile dei suoi atteggiamenti e dei suoi modi, la sua voce robusta e melodiosa, le misero a poco a poco una certa timidezza dolce nel cuore. Aveva una strana bellezza quello straniero. Era un colosso, con l'eleganza leggiera d'un giovanetto; i suoi occhi fulminavano, e la sua voce accarezzava; aveva le membra d'un Ercole, e non faceva sentire il suono del suo passo. Passati i primi giorni, quando si presentava nel vano della porta, ch'egli riempiva tutto, e restava un momento immobile con la cappa sul braccio, chinando il mento sul collaretto di trina di Venezia, che gli si allargava sul giustacuore nero, Evelina provava una sensazione nuova e quasi dolorosa, come di due piccole ali che si agitassero rapidissimamente dentro al suo seno. E n'era quasi sdegnata con sé stessa. Il pensiero della grande diseguaglianza che era fra loro di fortuna, di nome, di famiglia, di tutto, le faceva scattare dentro tutte le forze ribelli del suo orgoglio di donna; di quell'orgoglio che soffoca e nasconde come una vergogna l'affetto senza speranza, sul quale potrebbe cader l'accusa di ambizione sciocca e impudente. Il Benavides, dal canto suo, compreso della riservatezza delicata che gli imponeva in quella casa la superiorità del suo stato e la nobile prestanza della sua età ancor giovanile, nascondeva di proposito anche quel naturale sentimento di simpatia tranquilla che la ragazza gli ispirava, e che ad ogni uomo è permesso di esprimere, o di lasciar indovinare, a qualsiasi donna. Il suo aspetto e i suoi modi non significavano che una gentilezza seriamente rispettosa, la quale avrebbe reso impossibile ogni illusione anche nel cervello di una señorita meno assennata e meno dignitosa di Evelina. Egli aveva l'aria di frequentare quella casa perché ci sapeva di buona gente, e non per altro. Era triste; non aveva sorriso; lasciava cascar la conversazione quando non lo interrogavano. Ma per fortuna di Evelina, l'argomento dei discorsi soliti era inesauribile. Dal giorno in cui Emanuele Filiberto, ragazzo, s'era gettato in ginocchio davanti a Carlo V, a Genova, supplicandolo che lo conducesse alla guerra d'Algeri, fino all'anno che correva, 1574, avevano trentadue anni della vita del Duca da ricorrere, trentadue anni pieni d'avventure da epopea e da romanzo, intorno alle quali il Benavides, legato d'amicizia con molti personaggi spagnuoli della Corte e degli eserciti, sapeva mille particolari preziosi, non noti che a pochissimi. Discorreva delle strettezze compassionevoli in cui s'era trovato il Duca al tempo del suo primo viaggio in Germania, della sua vita d'accampamento, quando comandava, appena diciottenne, la cavalleria fiamminga e borgognona contro la lega di Smalcalda, e dell'astio geloso preso contro di lui da Filippo II dopo la battaglia di San Quintino, e dei suoi viaggi avventurosi, quando tornava nei propri Stati e ne ripartiva travestito come un congiurato vagabondo, con l'angoscia nel cuore; e quando pareva che avesse tutto detto, le interrogazioni ingegnose della ragazza gli richiamavano alla mente e gli facevano dire nuove cose. Un giorno raccontava in che maniera avesse salvato Barcellona dallo sbarco notturno dei francesi; descriveva un altro giorno un suo vezzo di stropicciare l'elsa della spada quando s'impazientiva, in modo che tutti i circostanti fissavano la sua mano sinistra con trepidazione; una sera pure, aveva imitato con la penna la enorme e strana firma del Duca, che pareva fatta a colpi di pugnale, ed era fiancheggiata da un lunghissimo tratto nero inclinato simile all'asta d'un'alabarda. E ad Evelina brillava l'anima a quelle notizie, e ad ogni nuovo particolare prorompeva in una viva esclamazione; e poi rimaneva un momento pensierosa, come per risentire dentro di sé l'eco della voce che aveva parlato; e in quei momenti teneva l'occhio fisso sul cappello di feltro scuro del Benavides, appeso alla spalliera d'una seggiola; intorno al quale girava una penna nera di struzzo, fermata sul davanti per mezzo d'un piccolo anello d'oro ingemmato: un ricordo della madre morta.
Il solo che riuscisse qualche volta a far sorridere il Benavides era il vecchio Lombriasco, con le sue tirate di politica internazionale. Dopo che aveva l'onore di quella nobile clientela spagnuola, si dava per grande partigiano della Spagna; ciò che feriva il senso delicato della figliuola, la quale si ricordava d'averlo inteso molte volle inveire con alte declamazioni contro "il mostro insaziabile" che divorava la Lombardia dalla Sesia all'Adda, e i regni di Napoli e di Sicilia e di Sardegna, e i presidii toscani "che Dio lo faccia tristo." Ma il notaro non badava agli scrupoli della ragazza. — La Spagna, care mie! — esclamava, voltandosi alla moglie e alla figliuola, con la coda dell'occhio verso il cliente; — ecco la nostra alleata naturale, necessaria, perpetua. Nuestra amiga. La protettrice provvidenziale dei Duchi. Chi aveva divinato il genio guerriero di Emanuele Filiberto se non Carlo V? Chi, se non Filippo II, gli aveva fornito i mezzi di farsi glorioso e potente a benefizio del suo paese? Chi aveva imposto nel trattato di Cambray la restituzione del Piemonte, con la minaccia di ricominciare la guerra? La Corte di Madrid, insomma, non aveva mai abbandonato in tutto neppure Carlo il Buono. Aveva preso la sua parte, ma senza violenza. Si poteva dire che "usurpava" più per necessità che per cupidigia. Gli facevan scrollare le spalle i fiorentini, i veneziani, i genovesi, e gli sforzeschi e gli estensi con le loro tenerezze francesi, manifeste o coperte. Non erano che sfoghi di dispetto, gelosia del colosso, una gran voglia d'esser liberi per fare alto e basso e mettere il mondo a soqquadro con le loro matte ambizioni. Naturalmente, non poteva patire la Francia; e in questo era sincero. Ah sì! La vista d'un francese gli metteva il cuore a traverso. Ma, in realtà, quella sua furiosa avversione derivava anche in parte da un suo rancore privato: dal fatto che, essendo egli stato anni addietro del Consiglio dei Cento, e gloriandosene sopra modo, era stato offeso mortalmente da un bisticcio ingiurioso d'un uffiziale francese, il quale, in occasione d'un litigio insorto tra il Consiglio e il Siniscalco del Re, aveva detto: Ce n'est pas un Conseil décent. Questa l'aveva serbata sullo stomaco per anni ed anni e gli tornava in gola di tanto in tanto. — Il Consiglio dei Cento! — esclamava nei giorni di cattiva luna, gesticolando dietro ai vetri, quando vedeva passare per la piazza un uffiziale francese. — Ma la vostra famosa monarchia era ancora nelle fasce, quando il Consiglio dei Cento era già in piedi, forza e decoro di Pinerolo, assemblea legislativa, supremo magistrato politico, rispettato in tutta la sua autorità da quanti passarono fra le nostre mura, da abati, da marchesi di Susa, da principi d'Acaia, da conti di Savoia! Ce n'est pas un Conseil... décent! Ma l'avete dovuto rispettare anche voialtri, padroni illustrissimi, e sarà ancora rispettato quando non ci sarà più neppure la semenza dei Valois e degli Angiò, credetelo pure! — E se l'uffiziale francese, per caso, si voltava a guardare la finestra, lui, da savio padre di famiglia, si ritirava dalla vetrata, e continuava a sfogarsi in mezzo alla stanza. Ma non era mai tanto ameno come quando canzonava il nipote, del quale conosceva la passioncella innocua, e le comiche imitazioni del Duca. Diceva d'averlo sorpreso a lavarsi il capo con l'acquavite per fortificarsi la testa, e lo chiamava testa di ferro, battendogli la mano sulla nuca, come per sentire a che grado di durezza l'avesse già ridotta: di che il giovane andava sulle furie, e si faceva pavonazzo. che parea sul punto di schiattare.
Il Benavides, frattanto, andava pigliando a poco a poco una secreta compiacenza a far vibrare con la sua parola quella bell'anima, cosi giovanilmente innamorata delle cose grandi. Senz'avvedersene egli si preparava prima certe frasi e certe immagini che gli parevano più efficaci a dilettarla e a farle battere il cuore. Una contrazione quasi di pianto infantile, leggerissima e dolcissima, che le era passata sul viso una sera che egli descriveva l'atto regalmente gentile con cui Emanuele Filiberto aveva carezzata la fronte del conte di Siegelberg ferito a morte, gli era rimasta impressa nell'animo per varii giorni. Come mai era nata quella bell'anima in quella casa cosi umile, fra quella gente mediocre, in mezzo a una città dominata dagli stranieri, dove nulla era accaduto da tanti anni che potesse scuotere e innalzare gli spiriti? La sua stessa figura non riportava in nulla né il padre né la madre, e contrastava in mille modi con tutta la gente e con tutte le cose che aveva d'intorno. Quella era veramente una nobiltà pura e legittima, stampatale nell'anima e sulla fronte da Dio. Certo, egli non sentiva punto amore per lei. Solamente la sua voce gli cagionava un'illusione singolare: lo accompagnava alle volte giù per la scala, lo seguitava per la via, gli si faceva sentire ora come un'eco lontana, ora come una nota staccata che gli suonava tutt'a un tratto nell'orecchio, e non di rado pareva che gli empisse per qualche minuto tutta la stanza come la vibrazione prolungata ed eguale d'una corda sonora. E allora gli sembrava che, rivedendola, avrebbe sentito il bisogno di sorriderle e di parlarle con una cortesia più familiare e più affettuosa di quella che aveva usato fino allora con lei. Ma quando poi si ritrovava con la famiglia, al vedersi circondato di un così profondo rispetto, considerato quasi come una creatura d'un'altra razza, al punto che non avrebbero osato uscire dal discorso solito per timore di parergli troppo entranti, allora si richiudeva in sé, imponendosi maggior riserbo di prima, e rimproverandosi quasi il desiderio che aveva provato di fare un passo innanzi in quell'amicizia. Una sera, per altro, la signorina gli raccomandò la sua Pinerolo con una grazia così affettuosa e timida, con parole così caramente ingenue, ch'egli dovette fare uno sforzo per non risponderle con lo stesso tuono di voce. — Vostra Signoria, — gli disse la ragazza con un sorriso, incrociando a più riprese le dita delle sue belle mani, — dovrebbe persuadere il suo grande Re a restituire Asti e Santhià al duca e allora la Francia ci renderebbe Savigliano e Pinerolo, e noi ritorneremmo piemontesi. Mi pare che lo dovrebbe comprendere il re Filippo che non ci sarà mai pace fin che il Piemonte sarà cosi diviso e esposto a tutti i pericoli. Vostra Signoria può dire che tocca al re di Francia a fare il primo passo, intendo bene. Ma continuando così.... Non sarebbe naturale che lo facesse il più forte, che ha meno da temere, il primo passo? Quando il Piemonte fosse tutto unito, ora che è con la Spagna, sarebbe anche più sicura la Lombardia, non è vero? mentre la Francia, fin che ha Pinerolo, può scendere nello Stato di Milano quando le piace, con molti soldati. Ah signore! Io non sono che una povera ragazza; ma darei tutto il mio sangue per sentir sonare a Pinerolo le trombe delle nostre milizie, e veder inalberare sul castello la nostra bella bandiera, che non ho mai veduta... vederla una sola volta! un momento solo! Dio buono! — E stette un momento con le mani giunte, guardando verso la piazza, con gli occhi umidi, in un atteggiamento da strappare i baci. Il Benavides tardò un minuto a rispondere. Poi con un accento benevolo, come d'un fratello: — Tutto vi sarà reso, señorita, — rispose. La señorita poteva andar sicura che i negoziati per la liberazione di Pinerolo erano in buone mani. Ella doveva sapere che Emanuele Filiberto chiamava Pinerolo e Savigliano: le chiavi della mia casa, e le aveva in cima d'ogni suo pensiero. La restituzione non poteva tardare. Carlo IX, malato, lacerato dai rimorsi, sputava sangue da molto tempo, sarebbe morto fra pochi mesi; e il suo successore, il re di Polonia, avrebbe trovata la Francia in un tale stato, avrebbe veduto così chiaramente l'impossibilità di tentare nulla di utile per molti anni di qua dalle Alpi, che per levarsi l'inquietudine e la spesa dell'occupazione, e amicarsi il Duca di Savoia, gli avrebbe rese le due città spontaneamente. — Caterina dei Medici — concluse — sarà la prima a consigliarglielo, per levare l'armi di mano ai propri nemici. E allora, signorina, ella sentirà sonare in piazza San Donato le trombe delle milizie ducali... senza bisogno di dare su preciosa sangre. Il cuore mi dice che ciò accadrà assai prima che ella non creda. Io non sarò più qui; ma ne godrò con tutta l'anima anche da lontano. — Detto appena questo, rimase meravigliato del senso improvviso come di solitudine triste che il suono delle ultime sue parole gli aveva svegliato nel cuore; e quella sera la signorina sentì come un'oppressura all'animo, una voglia di piangere senza sapere di che, una tristezza grande che la fece stare seduta sul suo letto per lungo tempo, col gomito appoggiato sopra il guanciale, e la mano tuffata nei capelli biondi.
Qualche cosa per aria c'era, in fatti, di quei giorni. Non era un mistero per nessuno che parecchi negoziatori fidati del Duca avevano fatto più volte in pochi mesi il viaggio da Torino a Parigi, e che tra la Corte ducale e il Governo di Madrid si trattava daccapo, con alacrità insolita, la vecchia quistione della resa della città. Gli stessi ufficiali francesi del presidio, fra i quali il Benavides aveva dei conoscenti, parlavano non della restituzione, ma della "concessione graziosa" di Pinerolo, come d'un fatto facilmente prossimo; e non se ne dolevano, perché neanche a loro era gradevole lo stare cosi sull'ala, in una città di confine, coll'incertezza del domani, in mezzo a gente che sospirava palesemente la loro partenza. La città si animava: i giovani e le donne, in special modo, si rallegravano. Ma i vecchi dondolavano il capo, increduli. Anche nel 1562, al tempo della convenzione di Fossano, s'era sperato; e la speranza durava da dodici anni. — È inutile, — dicevano; — noi siamo nati sotto un cattivo pianeta: Pinerolo verrà alla coda; ha da passarle davanti fin l'ultimo villaggio del Monferrato. — Sarebbe stato tempo nondimeno, per l'anima di San Donato! In quei trentotto anni di dominazione straniera, quel povero paese, trattato come territorio militare, soggetto a mille danni, trascurato dal Governo in tutto quello che non riguardava la difesa, minacciato di giorno in giorno dalla guerra, era caduto in una grande miseria. Molti edifizi di Pinerolo erano stati distrutti per ristringere la cerchia dei bastioni. La popolazione della campagna era scemata. Le industrie e le arti erano a terra. L'inquietudine, l'incertezza d'ogni cosa disamorava la gente dal lavoro, distoglieva le famiglie dal risparmio, scoraggiava i privati facoltosi da ogni impresa utile, e l'infelicità del paese era sentita anche più dolorosamente da tutti per effetto del confronto che si faceva con le altre Provincie del Piemonte, le quali s'andavano rialzando rapidamente sotto l'amministrazione saggia e vigorosa del Duca di Savoia. Oltreché, — i cittadini colti lo vedevano, — quella dominazione francese né violenta né mite, quell'aspettazione continuamente delusa, quel tirare avanti così alla stracca una vita ambigua e bastarda né di francesi né d'italiani, snaturava il carattere del popolo, sfibrava la sua virilità e corrompeva la sua coscienza. In altri pochi anni di quello stato tutto sarebbe infracidito. E ad ogni nuovo barlume di speranza, la città fremeva di desiderio e d'impazienza. Ma questa volta pure, passato il primo fremito, i giorni succedevano ai giorni, e nulla accadeva. Ad ogni arrivo di corriere da Torino o dalla Francia, si aspettava per ventiquattr'ore il grande annunzio; ad ogni radunata straordinaria del Consiglio dei Cento, si sperava la lettura d'un messaggio solenne del Re o del Duca; i consiglieri, dice il cronista "per tutti li luoghi dove passauano ueniuano con molta anzietà dimandati se fossero buone nouelle gionte di Torino per la restituttione della città." Ma nulla era giunto. E quel grullo cascamorto d'un cugino ne faceva un gran chiasso in odio a Emanuele Filiberto. Egli perdurava nella sua beata illusione di non avere altri rivali che il Duca. Veramente, una vaghissima idea gli era lampeggiata dentro alle tenebre del cranio che il nobile catalano c'entrasse anche per qualche cosa; ma l'idea d'avere un rivale di quella fatta, presente, parlante e sfolgorante, col quale ogni lotta sarebbe stata impossibile, gli metteva un tale sgomento nel cuore, ch'egli l'aveva scacciata subito, bruscamente, come un'immaginazione insensata; e continuava a tirare di punta e di taglio contro il vincitore di San Quintino. — Con le armi, — diceva all'Evelina — s'ha da riconquistar Pinerolo, con le armi, come fanno i grandi capitani, e non con i negoziati e con le chiacchiere. Ha fatto un bel pezzo di lavoro, in dodici anni, il gran Duca! Ci troviamo nelle peste peggio di prima. — Evelina, — soggiungeva poi a bassa voce, con enfasi; — io sarei più grande di lui se mi amaste! — Ma rimaneva tutto stupito al vedere che la cugina non aveva sentito né la puntura, né la carezza. Da due giorni era distratta e taciturna, aveva come l'ombra d'un pensiero doloroso sulla fronte bianca, e i suoi begli occhi celesti parevano gonfi di pianto. Il buon notaio Lombriasco, due sere innanzi, stando a tavola a desinare, aveva esclamato improvvisamente: — Sia lodato il cielo! Sono finalmente arrivate quelle benedette carte da Gerona e da Parigi. Tutto sarà finito tra pochi giorni. E il nostro illustrissimo e amatissimo don Enrique de Benavides y Zeballos se ne potrà tornare alla sua Catalogna.... carico di quattrini.
Ma ecco, l'una dopo l'altra, come colpi di cannone, la notizia della morte di Carlo IX, il messaggio di Caterina de' Medici alla Corte di Savoia, il viaggio di Emanuele Filiberto a Venezia e la novità più meravigliosa di tutte: la venuta di Enrico III, nuovo re di Francia, a Torino. La signorina si riscosse tutta a quegli avvenimenti, e si riaccese della passione antica, rifacendosi per qualche tempo più rosea, più gaia e più alteramente bella di prima. Il re di Francia a Torino! Ah! non occorreva altro. Se Enrico III — diceva — vive tre giorni soli col duca Emanuele Filiberto, è impossibile che non gli renda Pinerolo! È impossibile che non rimanga ammaliato, soggiogato da lui! Gli darà tutto quello che vorrà, ne sono certa come della luce del sole! — Ed ecco un'altra notizia inaspettata: il duca di Savoia che accompagni il re di Francia a Lione con cinquemila fanti e quattrocento cavalli. Era un'idea luminosa, da grande cavaliere e da grande politico; di quelle cose che pensava e faceva egli solo, l'ardito e profondo Emanuele Filiberto. Senonchè, a interrompere bruscamente l'allegrezza suscitata da quegli avvenimenti, venne pochi giorni dopo l'annunzio della malattia grave di Margherita di Valois e del principino. Tutti ne furono atterriti. Se quell'unico figliuolo del duca moriva, il Piemonte toccava di diritto ai principi di Savoia Nemours, mezzi francesi, per non dir francesi dalla testa ai piedi; e la Spagna non lo avrebbe mai consentito. — Il che vorrebbe dire, — esclamava il notaro, con calore, — che noi cadremmo dalla Francia nella Spagna (e guardava intorno, se ci fosse l'ombra del Benavides), dalla padella nella brace, dall'inferno alla dannazione! Ma c'è proprio piovuto la sperpetua, dunque, su questa povera Pinerolo! — E si piantava con le braccia incrociate davanti alla figliuola che teneva il mento sul petto. Il principino guarì, come Dio volle; ma la gioia pubblica fu soffocata immediatamente dalla notizia della morte della Duchessa. E la ragazza ne fu afflitta sinceramente. Si seppe che nessuno del seguito del Duca a Lione aveva avuto il coraggio di annunciargli subito quella sventura, e che quando l'aveva intesa, n'era rimasto fulminato. — Dio lo vuol provare in tutte le maniere, — diceva la signorina; — ma egli avrà forza di vincere il dolore; egli è nato per essere grande nei trionfi e nella sventura. — Intanto, la notizia che Emanuele Filiberto, ritornandosene da Lione, avesse lasciato i suoi cinquemila soldati al re di Francia, era venuta a rinfiammare ancora le speranze già vivissime dei pinerolesi. Ma quel benedetto notaro Lombriasco era proprio un ambasciatore male ispirato. La stessa sera, anzi nello stesso punto che annunziava in casa quell'atto cavalleresco e sagace del Duca di Savoia, dava pure, stropicciandosi le mani, il "felicissimo" annunzio che la lite del Benavides con la famiglia Mortier o Mornier era finita, e che il suo nobile cliente aveva disdetto per la metà del mese il quartierino di via Porta di Francia.
La settimana seguente, sull'imbrunire d'un giorno triste di dicembre, nevicava; la stanza da desinare del notaro era mal rischiarata da un'alta lucerna posta nel mezzo d'un tavolino intorno al quale la signora e la ragazza facevano delle nappe da tenda; e il Benavides, seduto un poco in disparte, aspettava da qualche minuto il signor Lombriasco, guardando attentamente Evelina, che da parecchio tempo gli pareva mutata. Tutti e tre stentavano singolarmente, quella sera, a trovar materia di discorso, e parole; e tacevano di tratto in tratto per alcuni momenti, durante i quali non si sentiva nella stanza che il fruscio leggiero dei grandi stivali di daino del catalano, non statuariamente immobile come sempre.
All'improvviso, si spalancò la porta, e apparve il notaro ansante, con una notizia solenne sul viso.
— Pinerolo è resa al Duca! — urlò alzando le braccia. Evelina gettò un grido dall'anima e gli saltò al collo d'un balzo.
— E il Duca.... — soggiunse il padre col fiato grosso, mettendo le mani sulle spalle della figliuola, e parlandole nel viso: — Il Duca....
— Viene! — gridò Evelina.
— Viene! — gridò il vecchio, buttando il cappello a traverso la stanza e lasciandosi cadere spossato sopra una sedia.
La ragazza si mise a ridere, poi si fece seria un momento, poi di nuovo rise, e poi ruppe in un singhiozzo violento e cadde in ginocchio davanti a sua madre e le nascose il viso nel seno.
Per un minuto nessuno parlò; non s'udiva che la respirazione asmatica del vecchio, e il singhiozzo soffocato di Evelina, a cui la madre carezzava le treccie e le spalle. Poi, mentre il Benavides, ritto in piedi, commosso, avvolgeva e riavvolgeva collo sguardo la ragazza, lunga e nobilissima in quel suo atteggiamento abbandonato di bella donna e di bella bambina, e cercava inutilmente una parola che le potesse dire fra le mille che avrebbe voluto dirle; il trionfante signor Giovanni Battista Lombriasco, dimentico per la prima volta del rispetto dovuto all'ospite, si mise a passeggiare in lungo e in largo per la stanza, gesticolando e declamando.
— Ah' finalmente. È venuto, dunque, il benedettissimo giorno! Siamo liberi e siamo piemontesi, siamo in casa nostra, siamo gente di questo mondo, adesso! Li vedremo partire una volta. Abbiamo finito di sentir suonare gli speroni francesi sui ciottoli di piazza San Donato! E non si può dire che non fosse tempo, per l'anima.... del Beato Amedeo! Eran trentasei anni che la commedia durava, dovete sapere! E possiamo dire d'averne viste passare, in questi quattro giorni, delle faccie antipatiche di governatori e di siniscalchi e di spillaquattrini d'ogni colore, che il diavolo se li porti! Quel generale Vassé che aveva un pino delle Alpi nel corpo! E quel signor Carlo di Cossé, signore di Brissac, che aveva l'aria di guardarci dalla sommità del Monviso! E quel famoso Re da torneo, quel gran giuocatore di palla, che ci degnò di una visita, coi nastrini della sua bella sul petto, quel caro Henri deux, che ci affamava e non voleva sentir parlare di miserie! E il duca di Nevers, che sia benedetto con una sbarra di ferro, l'eccellentissimo signor Luigi di Gonzaga, duca di Nevers, governatore del Marchesato di Saluzzo, di Pinerolo e di Savigliano, che minacciò di tagliarsi la testa se il Re di Francia rendeva le terre al Duca, speriamo che manterrà la parola, ora, da quel gentiluomo onorato che s'è sempre vantato d'essere! Ah! ah! Ce n'est pas un conseil décent! Birboni! A che stato ci avevan ridotti! È finita, dunque! Così è — concluse poi solennemente voltandosi verso il Benavides che aveva già tentato invano d'interromperlo, e verso la ragazza che s'era rialzata vermiglia e radiante: — Sua Maestà Enrico III, re di Francia e di Polonia, ha restituito a Sua Altezza il Duca di Savoia le città di Pinerolo, Savigliano e Perosa insieme ai loro mandamenti, giurisdizioni e dipendenze. Il trattato è stato concluso a Torino ieri mattina. Domani si raduna il Consiglio dei Cento. Il nostro amatissimo e gloriosissimo Duca Emanuele Filiberto di Savoia, espugnatore di Torneaux, vincitore di San Quintino e liberatore del Piemonte, farà la sua solenne entrata in Pinerolo il giorno primo di gennaio del 1575. Sia ringraziato l'Altissimo! Io non speravo di avere questa santa consolazione prima di morire. — E quella sera stessa il cavaliere Enrique di Benavides appigionava per altri quindici giorni il suo piccolo quartiere di via Porta di Francia.
La mattina seguente, sedici di dicembre, era un tempo sereno e asciutto, e le Alpi Cozie tutte bianche spiccavano in un cielo azzurro e limpidissimo, che pareva di primavera. Pinerolo tripudiava. La gente s'affollava in piazza San Donato e in via degli Orefici, strizzata dal freddo, allegra, confondendo gli aliti fumanti in mille dialoghi rapidissimi, troncati da strette di mano e da saluti festosi. Una folla era radunata fin dall'alba davanti a una casa di via del Duomo, guardata dagli archibugieri del Comune, nella quale si trovava Giannantonio de Toni dei conti di Piossasco, nominato governatore di Pinerolo due giorni prima, e arrivato nella notte da Torino. Il Consiglio dei Cento si dovea radunare nel refettorio del Convento dei Frati Minori di San Francesco, in via degli Orefici. I consiglieri arrivavano da ogni parte, a coppie e a drappelli, ravvolti nelle loro cappe, coi cappelloni calati sulle orecchie, pestando i piedi, brillanti di contentezza, e tutti si affollavano al loro passaggio, scoprendosi il capo e tendendo le mani. Molti contadini erano accorsi dalla campagna, sparuti e laceri, ma di buon umore, consolati dalla speranza d'un lieto avvenire. A mezzogiorno il Consiglio si trovò raccolto sotto la presidenza dei sindaci Giovanni da Prato e Giorgio Bonardi. C'erano presenti il Conte di Piossasco, rappresentante del Duca di Savoia, il luogotenente generale del Duca di Nevers, e il signor Servient, consigliere e segretario di Stato del Re di Francia. La folla che nessuna forza aveva potuto contenere, era penetrata nel refettorio, e riempiva tutti gli angoli, pigiandosi senza far rumore contro le pareti bianche dello stanzone ampio e nudo; e dietro ai vetri delle finestre, dietro alle teste dei consiglieri, nei vani delle porte, si alzavano gli uni sugli altri dei grandi cappelli d'archibugieri, dei cappucci di seta di signore, degli scapolari di frati, dei pennacchi d'ufficiali francesi, dei visi pallidi e immobili, che non avevano di vivo che gli occhi. In mezzo a un silenzio profondo furono rimesse al segretario le regie patenti suggellate del Re di Francia. Il vecchio segretario, notaio del Comune, esaminò diligentemente i suggelli, secondo le prescrizioni: le sue mani tremavano, la pergamena gli sfuggì due volte; l'adunanza pareva soffocata dalla commozione; era quasi mezzo secolo di dominazione straniera, di avvilimento, di tristezza e di miseria che stava per finire in quel punto! In fine, i suggelli furon rotti; una voce alta e tremante lesse l'atto solenne, col quale Enrico III "per la piena fiducia da Lui riposta nell'amicizia che gli dimostrava suo zio il Conte di Savoia, e per il desiderio che era in Lui di accontentarlo" ordinava la restituzione di Pinerolo, di Savigliano e di Perosa, prosciogliendo gli ufficiali delle tre terre dal giuramento di fedeltà al Re di Francia. Un'acclamazione altissima, a cui fece eco la moltitudine dalla via, seguì le ultime parole; i consiglieri si baciarono; cento visi si rigaron di lacrime. In mezzo a un'agitazione febbrile fu firmato l'atto di restituzione al "Serenissimo Domino Emanueli Philiberto, Duci Sabaudiae, Principi Pedemontium, et principi nostro vero, naturali, optatissimo." Un altro altissimo evviva fece tremare l'edifizio, il Consiglio si sciolse, i consiglieri usciti nella via furono circondati, abbracciati, portati quasi dalla folla verso la piazza San Donato. Una gioia fresca e sonora, come di gente ringiovanita, si spandeva in ogni parte, ravvivata ancora da quel bel sole, da quel bel cielo terso, che pareva la promessa e il principio d'una lunga età serena e tranquilla. Ma nonostante quella gioia, che dominava ogni altro sentimento negli animi, molti, passando, si voltavano a guardare in viso una signorina grande e snella, che portava con una grazia mirabile un alto cappello conico, ornato di cordoncini d'oro e di nappine di seta, appoggiandosi al braccio di suo padre. E più di tutti la guardava, seguitandola a quindici passi di distanza, Enrique de Benavides, che pure attirava molti sguardi di donna con la sua bella eleganza di colosso e con la grossa gemma del suo sombrero piumato. Egli non perdeva un solo movimento di quelle spalle graziose, e di quel braccio ripiegato, nascosto in un'ampia manica serrata al polso. Da quei movimenti leggerissimi egli indovinava il respiro affannoso, il palpito concitato del cuore, una gioia violenta e compressa che brillava forse in bellissime lagrime mute, non vedute da alcuni. — Pobre niña! — andava dicendo tra sé, perdendola d'occhio e ritrovandola a volta a volta tra la gente; — il nobile sogno della tua vita s'è compiuto; godi; sii felice. In tutti costoro l'amor di patria nasconde un interesse, che so io? una speranza; in te sola è puro come l'aria delle tue montagne. Tutta la gioia di questa moltitudine non vale una pulsazione di quel sangue gentile che ti colora il collo in questo punto. Sii felice. I giorni tristi ritorneranno, forse, pel tuo paese; nuovi stranieri, nuove miserie, e servitù più lunghe e più dure, forse; ma tu non ci pensi, povera ragazza; il tuo cuore è tutto nella gioia presente, e vede un avvenire interminato d'indipendenza e di pace. Va, buona e bella creatura; ritorna nella tua casetta modesta, ad aprire la tua bell'anima piena di tesori davanti alle immagini del tuo Dio e del tuo principe: essi non riceveranno certo da questa terra un omaggio più nobile e più santo del tuo. — E così pensando, mentre la fanciulla spariva svoltando in via Porta di Francia, egli sporse leggermente il viso innanzi stringendo le labbra; e quel bacio muto si perdette tra la folla come un fiore invisibile travolto dalle acque d'un torrente.
Da quel giorno in poi Pinerolo fu in ribollimento come non era più stata dal tempo dei principi d'Acaja. I soldati del Re lasciavano la città giorno per giorno, a un battaglione alla volta; molte famiglie francesi partivano; arrivavano ufficiali e messi del Governo di Torino; venivano frotte di curiosi dai dintorni. Il governatore conte di Piossasco aveva messo mano fin dal primo momento a ordinare la milizia provinciale, istituita da Emanuele Filiberto. Il Consiglio dei venticinque si radunava ogni giorno per provvedere alle feste. Il tempo incalzava: erano già arrivati i furieri della Corte. La città avrebbe voluto fare grandi cose, superare Vercelli che aveva drizzato sul passaggio del Duca cinque archi di trionfo e cento statue. Ma i denari mancavano e le ore erano contate. Fu stabilito che il Consiglio intero, la milizia, gli archibugieri, i personaggi principali della città andassero ad aspettare il Duca al Belvedere. Fu ornato di tappeti e di arazzi il palazzo degli Acaja. Il Consiglio fece fare un grande baldacchino frangiato che doveva essere portato da sei gentiluomini; ordinò vestiti appositi pei sindaci, pei capitani, per gli staffieri, per le guardie; fece allestire centinaia di bandiere savoiarde: tutto doveva essere a lutto per la morte della duchessa Margherita. La città era sottosopra; nascevano litigi accaniti per la rappresentanza e per i posti di ricevimento; per tutto si lavorava a preparare stendardi, ghirlande, corone; quanti fiori era possibile trovare a quella stagione nei dintorni della città e nelle valli e sulle montagne, le rose di Bengala, i leontopodii, gli eliotropii d'inverno, le viole a ciocche, i capelli di Venere, il lauro nobile, l'ellera, l'agrifoglio, i rami di pino selvatico dei monti di Talucco e di Cumiana, tutto fu ansiosamente cercato, disputato, pagato, e centinaia di mani bianche s'affaticavano a intrecciare e a trapungere; mentre per le vie insolitamente rumorose andavano e venivano consiglieri, operai, archibugieri, militi provinciali ancora mezzo vestiti da paesani, contadini carichi di fascine e di legna per i fuochi di gioia, processioni di ragazzi con le coccarde dai colori di Savoia; e al disopra dello strepito dei crocicchi, s'alzava la voce acuta dei banditori del Comune ad annunziare fra cento altre cose "che nissuno habi da andar incontro a Suoa Altezza a cavalo, salvo queli quali saranno domandati et avvertiti, sotto pena di venticinque scudi". Eran giorni tumultuosi, febbrili e felici. Si capisce. Non era soltanto un capitano possente e fortunato che aveva empito l'Europa del suo nome, non era solamente il vincitore di San Quintino colui che doveva entrare a Pinerolo: era un monarca sapiente e benefico, che aveva compiuto con una perseveranza maravigliosa, in trent'anni di fatica e di pericolo, l'opera gigantesca della ricostituzione dei suoi Stati; che aveva rinsanguato la sua Casa, ridata una nuova gioventù, aperta un'età nuova d'immense speranze al suo popolo, mentre le altre Provincie d'Italia, come invecchiate, e richiuse pigramente in sé medesime, pareva che non pensassero più all'avvenire; era un Principe che rientrava nella città ch'egli aveva più lungamente desiderata, e per la quale aveva messo più duramente e più mirabilmente alla prova la sua costanza e il suo ingegno; e ci veniva di quarantasei anni, nel colmo della sua forza e della sua gloria, e reso più venerabile e più sacro da un grande dolore.
Quel capo armonico di cugino, col suo naso rincagnato, trovava che il Consiglio "faceva troppo;" che tutto quello spreco di "danaro pubblico" sarebbe stato a mala pena giustificabile quando con Pinerolo e Savigliano fosse venuta anche Saluzzo; ma non si curava neanche più di stuzzicare la ragazza, tanto la vedeva da un pezzo indifferente ad ogni cosa che le potesse dire. Solamente, egli aveva adottato, per quando si parlava delle feste, un sorriso leggermente compassionevole, che cercava di mettere in vista. Evelina, a quando a quando, si sentiva dentro degli impeti di una gioia immensa. La proposta che uno dei venticinque aveva fatta, e che il Consiglio aveva approvata, di mandare incontro al Duca duecento bambini, — doeciento putti — con una bandiera ciascuno, i quali cantassero tutti insieme a mezza voce una canzone patriottica, in cui si sentisse un'eco sommessa di dolore per la morte di Margherita di Valois; quell'idea di mandare innanzi il canto dell'infanzia a consolare il dolore d'un eroe, le pareva divina; s'inteneriva a pensarci; avrebbe voluto pettinarli, lisciarli tutti lei quei ragazzi, metterli in fila e guidarli ella stessa incontro a Emanuele Filiberto. Non potendo fare altro, preparava un ampio parato azzurro da stendere sulla ringhiera del terrazzo, con le parole San Quintino trapunte in bianco, a grandi caratteri. Aveva ordinato del lauro tino per fare delle corone. Il terrazzo era al primo piano, all'angolo di via del Duomo, dove la via sbocca nella piazza, a sinistra di chi va verso San Donato: si sapeva che il Duca per andare fino alla via degli Orefici, dov'era il Palazzo degli Acaja, sarebbe passato di là; essa l'avrebbe visto da vicino, dunque; e ogni volta che questo pensiero le si affacciava improvvisamente, il sangue le dava un tuffo, la mente le si turbava; aveva bisogno di moversi, di spalancare le finestre, di sentire dello strepito, di discorrere, di cantare. E poi si rimetteva con più ardore al lavoro. Ma di quando in quando — molto sovente — una profonda tristezza le entrava tutt'a un tratto nell'anima, violentemente, come una mano brutale le afferrasse il cuore; e allora lasciava cadere il parato azzurro sul pavimento, e rimaneva con le mani inerte sulle ginocchia, e con gli occhi fissi alla parete, per molto tempo. Gli affari del Benavides erano accomodati; dopo l'entrata del duca sarebbe tornato in Catalogna; egli non rimaneva che per rivedere, dopo diciassette anni, il suo glorioso generale di San Quintino, forse per l'ultima volta; e il giorno dopo sarebbe partito, ed essa non l'avrebbe rivisto mai più, certamente. E allora tutto sarebbe finito. Tutto? Che cosa? Nulla. Un sogno. Nemmeno un sogno. Eppure si sentiva un nodo di pianto nell'anima. Egli era così nobile d'aspetto e di cuore, così rispettabile in quella sua tristezza austera per la morte di sua madre, e doveva nascondere dei così grandi tesori di bontà sotto quella compostezza taciturna, che dava tanta dignità alla sua bellezza! Come doveva essere profonda e generosa l'amicizia, in lui, e l'amore grande e gentile! E che dolci, ardenti, possenti parole gli dovevano sgorgare dal cuore, quando un impeto di passione e di tenerezza lo moveva! No, ella non avrebbe mai più incontrato nella vita un'anima così nobile e così bella. Ed egli partiva senza averle dato mai un segno d'affetto e d'amicizia. Era troppo povera cosa per lui. Eppure, l'avrebbe guardata con occhio assai diverso, l'avrebbe forse anche amata, a poco a poco, se non fosse stata di una condizione di tanto inferiore alla sua. Essa avrebbe saputo farsi amare, forse! Non si sentiva mica indegna di lui, dentro al cuore. Egli l'avrebbe dovuta indovinare. Come non l'aveva indovinata, come non gli era nato, in tanto tempo, un sentimento un po' più vivo che una benevolenza cortese? Qualche volta, ripensandoci, le pareva s&ifrave; d'aver visto in certi momenti nel suo sguardo, d'aver sentito nella sua voce non so che d'insolito, un lampo, un tremito sfuggevole, come l'espressione involontaria e istantanea d'un sentimento d'amore. Ma come a fissare intensamente con lo sguardo i caratteri minuscoli d'una scrittura, si finisce con non veder più che il bianco della carta, così, mettendosi a meditare profondamente su quei piccolissimi segni, essa finiva con non trovarci più alcun valore, e con credere fermamente d'essersi ingannata. Ah! come avrebbe saputo amarlo, consolarlo, entrargli nell'anima, legare una per una alle fibre del proprio cuore tutte le fibre del suo! La ragione le si offuscava a pensare a una gioia, all'ebbrezza di essere amata, serrata contro quel giustacuore di seta, chiamata per nome nell'orecchio da quella voce profonda e morbida, carezzata da quella bella mano atletica di gentiluomo intemerato e di soldato valoroso. Ah! una cosi grande felicità non poteva essere per lei, lo capiva bene! Ed egli partiva, solo e malinconico, per un paese lontano, per ritornare alla casa abbandonata e triste, dove non c'era più sua madre a dargli il bentornato e a baciargli la fronte. Non sarebbe però stato solo lungo tempo. Non era un uomo da poter consumare la vita senza affetti. Una donna, cento donne l'avrebbero amato, adorato.... Ma non n'avrebbe amata che una sola, lui, Benavides, cosi nobile e così austero! E fissandosi in questo pensiero a malgrado proprio, essa vedeva una donna fra le braccia di lui, una spagnuola orgogliosa e vezzosa, una patrizia vestita di raso e scintillante di gemme, avviticchiata al suo collo, in una stanza splendida di marmi e di specchi; e la rivedeva accanto a lui, altiera e felice, in un ricco legno tirato da cavalli superbi, su per la Rambla di Barcellona; e abbandonata sulle sue ginocchia sotto la tenda verde d'una barca dorata lungo le sponde dell'Ebro; tutta vermiglia in viso, palpitante e pazza d'amore; e liberatasi da quell'immaginazione sfolgorante e dolorosa, e rivolto lo sguardo intorno per la propria casa, dove tutto esprimeva la povertà del suo stato e l'umiltà della sua nascita, che eran forse la sola cagione per cui una felicità immensa le era negata, provava un dolore più acuto, un avvilimento angoscioso, una pietà infinita di sé stessa, che le faceva abbandonare la fronte sulla spalliera della seggiola esclamando: — No, no, non basta la patria! — e scuotere desolatamente la testa, piangendo senza lacrime, come una creatura disperata. Ma poi, riscossa da un grido improvviso dell'orgoglio, balzò in piedi, si passò una mano sulla fronte, e disse a sé stessa: — Ho sognato. Non pensiamoci più. Coraggio! — E da quel momento si rigettò tutta nella sua prima passione, e si rimise a parlare con nuovo e più ardente entusiasmo al Benavides del suo principe adorato, sforzandosi di mostrare una grande allegrezza; stupita nondimeno e afflitta dentro, al vedere che il catalano non le rispondeva più come per l'addietro, e pareva sazio ed uggito di quei discorsi. — Ancora di Emanuele Filiberto? — le domandò una sera quasi in tuono di noia. Ed ella disse tra sé tristamente, quando fu uscito: — Egli s'annoia. Il suo pensiero e il suo cuore sono già lontani. È già separato da noi. Tutto è finito. Addio.
Venne finalmente quel sospiratissimo primo dell'anno. Partito da Torino, col suo grande corteo, il 31 dicembre, il Duca doveva pernottare a Vigone ed entrare in Pinerolo il primo di gennaio, avanti mezzogiorno. Spalancando le finestre la mattina presto, Evelina gettò un'esclamazione di dolore e di dispetto: la piazza San Donato, i tetti, i rilievi delle case, tutto era bianco, e nevicava ancora, radamente. Ma l'aria era mite. La città rumoreggiava. Il Consiglio, le milizie, tutti i personaggi del ricevimento e una grande folla erano già usciti di Porta Torino. La piazza San Donato si riempiva di gente a poco a poco; le finestre s'andavano ornando di arazzi e di ghirlande di verzura e di fiori. Il tratto più trionfale dell'entrata del principe sarebbe stato certamente là, davanti alla vecchia chiesa del Santo protettore di Pinerolo, nel cuore della città antica. In pochi minuti la ragazza levò la neve dalla ringhiera, distese con le mani un po' tremanti il suo bel parato azzurro, ordinò sopra un tavolino le sue quattro grosse corone di lauro tino, poi si andò a infilare il suo bel mantelletto di panno oscuro senza maniche, che le copriva la nuca col suo ampio bavero diritto, e si mise un mazzetto di semprevivo nei capelli. Il notaro comparve poco dopo, con la barba fatta, e con un paio di calze nuove ben tese, che mettevano in bella mostra le sue gambe muscolose di alpigiano. Molti parenti, invitati, dovevano arrivare da un momento all'altro. A tutte le finestre delle case di rimpetto apparivano e sparivano visi di signore, di uomini e di ragazzi, sovreccitati, incuranti del freddo: ogni famiglia aveva in casa una frotta di parenti e di amici. Sopra le porte, sul davanti dei terrazzi e sotto i davanzali, a tutte le altezze, si vedevano degli stemmi di Savoia sormontati dalla corona, coi due cavalli e i due leoni: delle iscrizioni, dei quadri con la divisa assunta da Emanuele Filiberto giovanetto: un braccio nudo che stringeva una spada, col motto: Spoliatis arma superunt; altre sue divise d'altri tempi: l'elefante in mezzo all'armento di pecore: Infestus infestis; un gran cartellone con su scritto: Pugnando restituit rem; una corona civica col motto: Instar omnium; altri avevano esposto in mezzo a rami di mirto e di cipresso lo stemma di Margherita di Valois, la losanga azzurra coi tre gigli d'oro, e certe sue figure simboliche predilette, come i due serpenti attorcigliati a un ramo d'olivo, con motti sapienti e pietosi, che tutti sapevano. La folla ch'era andata sempre crescendo, riempiva or tutta la piazza, e le strade vicine, del Duomo, del Corpo di guardia, del Miranetto. Un colpo di cannone avrebbe annunciato l'apparizione del Duca al Belvedere; di là egli sarebbe arrivato in tre quarti d'ora a Porta Torino. Una ondata di zie e di cugine aveva empito la casa del notaro. Oltre al terrazzo, le finestre erano tre: una fu assegnata ai ragazzi: da tutte si vedeva obbliquamente il punto dove il corteo sarebbe apparso e quello dove sarebbe sparito. Un ronzìo diffuso e crescente si spandeva per l'aria. La folla, aperta a stento da due file di archibugieri, si rimescolava. Erano cittadini di Pinerolo, abitanti dei villaggi, gente venuta fin da Perosa, da Cavour e da Saluzzo, montanari discesi dalle Alpi, ravvolti in mantelli sbrendolati, con le berrettine nere sotto i cappellacci a larga tesa, con lunghi bastoni nel pugno, alpigiane infagottate in casacconi da uomini, coi ragazzi per mano. E avevano tutti davanti alla mente una sola immagine, quella figura quasi favolosa di Emanuele Filiberto, che nessuno aveva mai visto, di cui tutti parlavano da tanti anni, e che ciascuno si rappresentava a modo suo, gigantesco, spaurevole, sorridente come un padre, superbo come un nume, coperto d'oro, irto di ferro, fantasticamente vestito ed armato. I cuori battevano per la febbre dell'aspettazione. E batteva più di tutti quello di Evelina. Ma un pensiero l'atterriva quasi: il sospetto che il Benavides non venisse. Doveva partire la mattina dopo. Essa avrebbe dato il sangue per rivederlo ancora una volta. Una scampanellata improvvisa la fece tremare da capo a piedi. La folla degl'invitati s'aperse, inchinandosi; il Benavides venne innanzi, grande è elegantissimo, con una ruga diritta sulla fronte. Evelina diventò bianca: era l'ultima volta che lo vedeva! Ma subito fece uno sforzo violento per riafferrarsi con tutta l'anima alla gioia dell'aspettazione del suo principe, e si vinse. Accesa nel viso, coll'occhio scintillante, colle mani febbrili, andava e veniva, raggiustando le corone, contando i minuti, apostrofando ora l'uno ora l'altro con la voce commossa; ed era bella e superba. — Tu devi esser felice, Evelina! — le dissero le cugine, ammirandola, e facendosele intorno con tutti gli altri. E allora essa si sentì come sollevata da terra da un soffio irresistibile di entusiasmo, e trasfondendo in poche parole fiammeggianti, e nel linguaggio di una passione sola, tutta la forza delle due passioni che la divoravano, rispose: — Sì, sono felice, perché è stato il sogno della mia infanzia e della mia gioventù questo giorno! perché sarei morta per provare questa gioia! Dio mio! Ci ha restituito la patria e l'onore, ed è il più valoroso e il più nobile principe che abbia mai stretto una spada colui che aspettiamo! È Emanuele Filiberto, grande, buono, glorioso! È il nostro sovrano, il nostro liberatore, il nostro.... — Un colpo di cannone le soffocò la parola in bocca, e la costrinse a cercare la spalliera della seggiola. Emanuele Filiberto era al Belvedere.
Tutti corsero alle finestre per veder l'effetto prodotto nella folla da quell'annunzio. Il Benavides rimase in disparte. Egli aveva inteso le parole e visto l'atto di Evelina. Aveva la mente annebbiata e il sangue sottosopra. Era una di quelle potenti e chiuse nature catalane in cui la passione brucia per molto tempo nascosta come una lunghissima miccia restia, e poi scoppia improvvisamente come una mina. L'impallidire della ragazza al suo arrivo, aggiunto ad altre manifestazioni leggerissime che egli andava rintracciando nella sua memoria, e rimeditando da qualche giorno, gli aveva tolto a tutta prima quasi ogni dubbio sopra una verità ch'egli desiderava ora impetuosamente. Ma quella sua commozione straordinaria, quella sua esaltazione quasi vaneggiante per il Duca di Savoia, lo turbava, lo sgomentava, ricacciandogli nell'animo il sospetto che tutti gl'indizi d'una seconda passione ch'egli aveva creduto di scorgere in lei non fossero veramente che indizi mal compresi della prima. Egli sapeva che quelle ammirazioni entusiastiche per un principe glorioso crescevano qualche volta fino al più ardente amore, nell'anima delle fanciulle. Questo pensiero gli faceva salire delle ondate di foco al cervello. Egli si sentiva nel cuore e nella testa una di quelle tempeste oscure di sentimenti e di idee che precedono le grandi risoluzioni della vita. Seguitava coll'occhio fisso tutti i passi e tutti i gesti di Evelina. Non le era mai parsa, e non era mai stata infatti così ardentemente bella e viva, e riboccante di gioventù, di tenerezza, di forza, di grazia, giù dalle sue grandi treccie d'oro, per la lunga vita flessibile, fino ai piccoli piedi che si contraevano e fremevano come due mani. Ogni suo movimento, ogni suono della sua voce gli faceva balzar dal cuore una piena di parole appassionate, umidi, dolci, imperiose, che l'avrebbe soffocato s'egli l'avesse lasciata arrivare alle labbra. La guardava, l'inseguiva, e la vedeva confusamente a una grandissima lontananza, in una sala splendida di marmi e di specchi della sua casa di Gerona, serrata contro il suo petto, e avviticchiata al suo collo; e poi seduta accanto a lui, altiera e felice, in un ricco legno, tirato da cavalli superbi, giù per la Rambla di Barcellona; e poi abbandonata sulle sue ginocchia sotto la tenda vermiglia d'una barca dorata lungo le sponde dell'Ebro, pallida e stanca d'amore. E l'amava, la voleva, le avrebbe inchiodato la bocca sul cuore per suggere e trasfondere nella propria la sua anima bella. Non sapeva più comprendere come avesse potuto non curarla per tanto tempo, come avesse lasciato crescere, fomentato in lei quell'entusiasmo ardente per il Duca, invece di mettersi in mezzo subito, di separarla dal suo idolo, di farsi amare, di dirle brutalmente che voleva esser amato. Ed ora una smania lo invadeva di riguadagnare precipitosamente il tempo perduto, di conquistarla prima dell'arrivo del principe, di cacciarle dall'anima il suo rivale con una parola fulminea, tirandola in un canto, e bruciandole il viso con un bacio. Ah forse era troppo tardi!
Intanto, giù nella piazza, il fermento cresceva; le voci s'alzavano, la folla ondeggiava; a ogni finestra s'alzavano cinque, sette, otto visi, gli uni sugli altri; c'era gente sul tetto della chiesa e sui comignoli delle case; pareva che gli edifizi vivessero e parlassero, e in tutte le vie circostanti fluttuavano dei fiumi neri. Il notaio andava e veniva per le stanze, come brillo, battendo le mani sulla spalla, ora all'uno, ora all'altro, e gridando: — Padre della patria!... Padre della patria vorrà esser chiamato il nostro grande, il nostro gloriosissimo Duca Emanuele Filiberto! Pater patriae! Padre- del-la-pa-tria! — E per la contentezza della sua trovata voleva batter la mano, come al solito, sulla testa di ferro del nipote; ma lo risparmiò, vedendo che anche lui, quel bestione, pareva finalmente commosso. Le campane empivano l'aria di una romba continua e assordante; la gran voce della folla entrava e risonava in tutti i recessi della casa. All'improvviso il rumore si chetò e una notizia corse. Il corteo era alla porta di Torino. Tutti si gettarono alle finestre. Evelina in mezzo al padre e alla madre, sul terrazzo; il Benavides dietro; gli altri schiacciati contro il muro. Passarono altri pochi minuti. Tutti i visi erano rivolti verso il fondo di via del Duomo. Evelina si sentiva saltare il cuore fino alla fontanella della gola. Nella piazza si taceva. S'udì un suono strano, un mormorio armonioso come di voci argentine che cantassero sommessamente una musica festosa e triste ad un tempo; il suono si alzò, avvicinandosi; e un'onda di bambini, duecento ragazzi puliti e ravviati, ciascuno con una bandiera nel pugno, empirono la via, stretti e seri, biancheggianti di neve, cantando, accompagnati dalla folla con un bisbiglio lungo di parole liete e carezzevoli; e dietro a loro, come un canneto di lancie, le guardie ducali a cavallo, ferrate e gravi, coi caschi punteggiati di fiocchi bianchi, salutate dalla folla con uno scoppio di grida. Immobile come una statua, con tutto il busto fuor della ringhiera. Evelina aspettò ancora un momento, con gli occhi fissi in fondo alla via; poi diede un tremito, e trattenne un grido.
Era Lui.
In mezzo alla bianchezza della neve, sotto un alto baldacchino di seta nera, sostenuto da sei signori vestiti a bruno, e seguito da un grande corteo, — veniva innanzi lentamente — immobile sopra un enorme cavallo bianco ingualdrappato a lutto — un cavaliere pallido, bello, impassibile come un simulacro, — tutto nero dalle piume ricurve del berretto ai larghi calzoni alla fiamminga, — vestito d'un giustacuore di velluto, su cui brillava il collare dell'Annunziata, in mezzo alle rivolte d'una grande casacca oscura, che lasciava uscire l'elsa ritorta e argentata della spada; — una figura poderosa e nobile di guerriero e di pensatore, — semplice ad un tempo e magnifica, — piena di una grande maestà e d'una grande tristezza, — che non era, e pareva colossale, — che riuniva non so che di gentile e qualche cosa di terribile; e che avanzandosi cosi mutamente sul tappeto candido della piazza, come una forma leggerissima che non toccasse la terra, diffondeva intorno a sé un senso di stupore e di mistero — e dava l'immagine d'un'apparizione più che umana.
La moltitudine tacque, infatti, per un momento come sopraffatta da un sentimento di maraviglia e di timore: poi ruppe tutta insieme in un grido altissimo interminabile frenetico, in uno scoppio formidabile di entusiasmo e di gioia, tendendo furiosamente le sue mille braccia dalla piazza, dai portici, dalle finestre; e una pioggia di fiori e di corone cadde sul baldacchino, sui cavalli, sui gentiluomini, sulle guardie, sulla neve, costringendo il corteo a fermarsi come una carovana sorpresa da un uragano; ed Emanuele Filiberto rimase immobile per alcuni momenti ad aspettare la fine del grido. Tutti gli sguardi si confissero nel suo viso. Egli non diede altro segno di commozione che un istantaneo dilatamento degli occhi. Poi si rimise in cammino.
S'avvicinava al punto dove la via del Duomo sbocca nella piazza. Evelina, inchiodata, muta, affascinata, non aveva più staccato gli occhi da quella figura. Il corteo enorme e strano che veniva dietro in grande silenzio: il vescovo di Venza, grande elemosiniere, a cavallo, accanto al gran Cancelliere Conte di Stroppiana; il presidente del Senato di Torino, il grande scudiere, fiancheggiati e seguiti da ufficiali giganteschi degli arcieri, da vecchi ciambellani e da maggiordomi, da prelati, da curiali canuti, da paggi biondi e brillanti, da consiglieri e da sindaci di Pinerolo vestiti a lutto, da capitani della milizia, da staffieri armati di spade e di pugnali; una folla serrata, maestosa e lenta, dai larghi cappelli di feltro, dalle lunghe penne nere, dalle ampie casacche brune, di un aspetto austero e guerresco, come improntata della natura del suo principe, e che pareva venire piuttosto a una battaglia o a un giudizio solenne, che a una festa trionfale; questo nuovo e bellissimo spettacolo, dietro al quale si drizzava un'altra selva di lancie e di caschi imbiancati dalla neve, non attirò uno solo dei suoi sguardi. La grande e misteriosa figura del Duca incatenava a sé tutte le facoltà dell'anima sua. Nel punto che il baldacchino passava davanti al terrazzo, e che un nuovo scoppio spaventevole di grida faceva tremare la piazza e impallidire tutti i visi, la ragazza fu come presa da una vertigine d'entusiasmo e d'audacia, e alzata fuori della ringhiera la corona che era stata stretta fino allora nella sua mano come in una morsina d'acciaio, la gettò in aria d'un colpo, con uno slancio del braccio convulso, più forte che non volesse. Subito, restò pietrificata dal terrore. La corona, passando al disopra degli archibugieri, era caduta sul fianco del Duca, ed era rimasta infilata, dondolando, all'elsa ritorta della sua spada. Allora provò come il senso d'un sogno prodigioso. La folla applaudì a quel caso; il Duca, dato uno sguardo all'elsa, alzò il viso verso il terrazzo; il cavallo fece in quel punto un raddoppio; ed Evelina vide le sfolgoranti pupille azzurre di Emanuele Filiberto fisse per un momento nelle sue. Non fu che un momento, ma non ci resse: il corteo, la folla e le case le si confusero agli occhi, le ginocchia le mancarono, e cadde fra le braccia di sua madre.
Subito, in furia, fu portata dentro, adagiata sopra una seggiola, spruzzata d'acqua; rinvenne immediatamente; si scosse, si vergognò, domandò perdono, sorrise, — fece cenno che tornassero tutti sul terrazzo e alle finestre; — tutti sparirono; — rimase sola. Allora seguì un rivolgimento nuovo, e pur naturale, nell'animo suo. Svanito l'ultimo resto della gioia che l'aveva soverchiata, fu presa quasi tutto a un tratto da un grande sgomento, come se quella commozione sublime fosse stata la fine d'un sogno, il giorno più felice, e l'ultimo giorno felice della sua vita; come se, appagato quel desiderio supremo che era stato il conforto e l'alimento di tutta la sua giovinezza, non le rimanesse più scopo di vivere; le parve d'essere precipitata da una grande altezza e di ritrovarsi in una grande solitudine; vide come al chiarore d'un lampo il suo avvenire vuoto e malinconico, una successione interminabile di giornate grigie e fredde, la madre morta, la casa solitaria, la sua cameretta povera e triste, e lei, seduta in un angolo, sola, invecchiata, senza famiglia, senza speranze, senza amore; e mentre già il cuore le si gonfiava d'un'amarezza immensa, e il pianto le stringeva alla gola, un nuovo pensiero doloroso, intollerabile, le attraversò improvvisamente quei pensieri: — il Benavides partiva fra poche ore. — Il presentimento della tristezza mortale del dì seguente, diede l'ultima stretta spietata al suo povero cuore: chinò il mento sul seno, si coperse il viso colle mani, e lasciò sgorgare, in silenzio, un'onda ardente di pianto.
In quel punto una voce strana, violenta, sgarbata, tremante di dolore e di sdegno, le gridò all'orecchio:
— Ma voi l'amate, dunque, il vostro Duca!
Evelina balzò in piedi, vide il Benavides pallido, con gli occhi ardenti, capì tutto, e un grido soffocato di amore pazzo e di gioia infinita le fuggì dalle viscere: — Enrico!
Era uno di quei gridi che rivelano in un punto la storia d'un'anima, e che non lasciano dubbi.
Il Benavides stette per un secondo attonito, come trasognato.
— Ah! cara! bella! nobile! adorata creatura! — le gridò poi, afferrandole e baciandole furiosamente le mani; — amor mio! Evelina mia! — Strappò in furia dal cappello l'anello d'oro di sua madre, lacerando i nastri e la penna, lo infilò convulsamente in un dito alla ragazza, la riafferrò per le mani, l'attirò con sé alla finestra dov'erano i bambini, e ribaciandole i polsi, le palme, le dita, ansando, con la voce interrotta, indicando col viso il Duca lontano: — Amalo... — disse sorridendo — amalo pure... lo ameremo insieme... perché a te ha ridato la patria, e a me... ha dato il tuo cuore!
Evelina volle rispondere, ma i singhiozzi le chiudevan la gola. Arrivato in quel momento in fondo alla piazza, sul punto di sparire nel vicolo che conduce alla via Porta di Francia, Emanuele Filiberto voltò il cavallo verso la folla, si rizzò maestosamente sopra le staffe, e con un gesto vigoroso e superbo alzò tre volte in aria il suo berretto piumato. E quel poetico saluto parve ai due giovani un buon augurio ch'egli mandasse al loro nobile amore sbocciato sotto il sole della sua gloria, e parve alla moltitudine fremente un comando solenne ch'egli rivolgesse ai suoi sudditi presenti e alle generazioni avvenire, come se avesse voluto gridare con quell'atto: Le porte d'Italia son nostre! Emanuele Filiberto ve le affida! Difendetele!