Utente:L'inesprimibile nulla/Sandbox

ALESSANDRO MANZONI


OPERA


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CAPITOLO VENTISEIESIMO

IL FUMO


Il fumo induce a due vizi
L’impotenza e l’inconcludenza
Beata in-potenza, beata stasi, permanenza
Da non dover essere qualcosa
Ed essere già;
Ma quanto è bella l’inconcludenza
Da tesservi elogi
Perché questo mondo non ha bisogno di concludere
non necessita di “fini” per le “cose”
– già – è























Finì combusta, rocce, pesciolini, fogli a righe di differenti spaziatura, romanzi di formazione e pegni, donativi soavi, allori, galli, galline, uccellini, maiali cinesi, grigliate, riforme, rivendicazioni, parole, ciccione, libro, Proust, amministratore.

Buio non ancora
cauterizzato del corpo.
Estasi d'un dolore
gigante ed animale. Estasi d'un dolore


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SCENA II

TITOLETTO 2


Cestino di rose. Buio non ancora cauterizzato del corpo. Estasi d'un dolore gigante ed animale. Estasi d'un dolore gigante ed animale. Estasi d'un dolore gigante ed


Aureliano assistette all’esecuzione, perché il non assistervi avrebbe significato confessarsi colpevole. Il luogo del supplizio era una collina, sulla cui verde cima era un palo, conficcato profondamente nel suolo, e intorno molti fastelli di legno. Un ministro lesse la sentenza del tribunale. Sotto il sole di mezzogiorno, Giovanni di Pannonia giaceva con la faccia nella polvere, lanciando urla bestiali. Graffiava la terra, ma i carnefici lo strapparono dal suolo, lo spogliarono e infine o legarono al legno. Sulla testa gli posero una corona di paglia cosparsa di zolfo; accanto, un esemplare del pestilente Adversus anulares. Giovanni di Pannonia pregò in greco e poi in un idioma sconosciuto. Il rogo stava per prenderselo, quando Aureliano osò alzare gli occhi. Le lingue ardenti si arrestarono; Aureliano vide per la prima e l’ultima volta il volto dell’odiato. Gli ricordò quello di qualcuno, ma non poté precisare di chi. Poi, le fiamme lo perdettero; gridò, e fu come se un incendio gridasse. Plutarco ha narrato che Giulio Cesare pianse la morte di Pompeo; Aureliano non pianse quella di Giovanni, ma provò quello che proverebbe un uomo guarito da una malattia incurabile, che fosse ormai parte della sua vita. In Aquileia, in Efeso, in Macedonia, lasciò che su lui passassero gli anni. Cercò gli ardui confini dell’Impero, le lente paludi e i contemplativi deserti, perché la solitudine lo aiutasse a comprendere il proprio destino. In una cella della Mauritania, nella notte folta di leoni, ripensò alla complessa accusa contro Giovanni di Pannonia e giustificò, per l’ennesima volta, il giudizio. Più fatica gli costò giustificare la sua tortuosa denuncia. In Rusaddir predicò l’anacronistico sermone Luce delle luci accesa nella carne di un reprobo. In Ibernia, in una delle capanne d’un monastero circondato dalla selva, lo sorprese una notte, verso l’alba, il rumore della pioggia. Ricordò una notte romana in cui, allo stesso modo, l’aveva sorpreso quel minuzioso rumore. Un fulmine, a mezzogiorno, incendiò gli alberi, e Aureliano morì come era morto Giovanni. La fine della storia è riferibile solo in metafore, giacché si compie nel regno dei cieli, dove non esiste il tempo. Si potrebbe forse dire che Aureliano conversò con Dio e che Questi si interessa così poco di divergenze religiose che lo prese per Giovanni di Pannonia. Ma questo indurrebbe a sospettare una confusione della mente divina. E’ più esatto dire che nel paradiso Aureliano seppe che per l’insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia (ortodosso ed eretico, aborritore e aborrito, accusatore e vittima) erano una sola persona.